FREAKS

  FREAKS, 1996/98

‘MOSTRI’ della miseria meridionale
di Vittorio Sgarbi (estratto da IL TEMPO – 23/03/98)

Ci sono due elementi dentro il caotico disorientante non sempre esaltante panorama dell’Arte Contemporanea più giovane che sernbrano emergere

più di altre nelle predilezioni della «nuova creatività»: il corpo e la fatografia.
Del corpo esibito, manipolato, alterato, talvolta oltraggiato e martoriato, interessa l’espressività somatizzata, la pelle concepita come materia artistica su cui apporre segni, testimonianze di volontà simboliche e comunicative che risalgono idealmente alle tradizioni di civiltà primordiali ma che sono anche sintomi tipid della sensibilità estetica metropolitana alle soglie del Duemila.
Chi non frequenta le Gallerie D’Arte Contemporanea si sarà ugualmente accorto di questo interesse per il corpo alterato ed «espressivizzato» nei riflessi paralleli delle mode giovanili, incrociando per strada le varie tribù «neo-punk» dei tatuati, dei «piercing people», (i cultori degli anelli inseriti direttamente nella carne), degli «hard hair stylers» (gli appassionati dei tagli di capelli più arditi e strambi).
Chi invece le Gallerie le frequenta, sa che questo interesse per il corpo è figlio dichiarato della Body Art degli anni Sessanta e Settanta praticata da «performer» come Jonas, Gina Pane, Meredith Monk, Acconci, Simone Forte e tanti altri.
L’attenzione rivolta dai giovani artisti all’immagine fotografica, evidentissima nelle rassegne di Kassel (Documenta) e di Venezia (Biennale), rivela invece un forte desiderio collettivo di stabilire un rapporto diretto con la realtà dopo decenni di «tirannia» avanguardistica in cui, al contrario, veniva esaltata narcisisticamente l’autonomia romantica dell’«arte per l’arte». Usare la fotografia non significa comunque dare per scontato che si ritorni al realismo fatografico; significa piuttosto porsi su un piano di confronto diretto con l’odierna civiltà delle immagini, con la sua tecnologia, con la sua realtà virtuale, riprodotta attraverso mezzi meccanici sempre più evoluti, che inizia a contare più della realtà vera e propria.
Nelle opere di AntonelIo Matarazzo riunite sotto il ciclo di Freaks ci sono corpi e riporti fotografici (pitture).
In inglese Freaks ha un significato che varia tra “mostri” ed “emarginati”, riferendosi ad uomini afflitti da gravi deformazioni fisiche. Gli esperti di cinema collegano immediatamente il termine al titolo di un famoso film degli anni Trenta, il più noto di Tod Browning, in cui appunto umanissimi “mostri” di un circo fanno da inquietante sfondo ad una vicenda di amore interessato tra una “normale” senza scrupoli e un nano. Nel linguaggio Underground degli anni Sessanta e Settanta, Freaks erano tutti coloro che praticavano una vita di radicale opposizione e isolamento nei confronti delle convenzioni borghesi; erano Freaks i tanti barboni erranti che pellegrinavano dall’India alla California, dall’Inghilterra all’Italia. I Freaks di Matarazzo sono decisamente, magari cinicamente, della specie evocata da Browning […] 

I Mostri di Matarazzo
di Gabriele Perretta (dal catalogo Freaks, edizioni Arte&Personae, Firenze 1998)

Un nuovo ciclo di opere pittoriche di Antonello Matarazzo è sempre un curioso contributo per i seguaci dell’arte italiana contemporanea più giovane.

Il suo esilio sperimentale lo priva a volte di giusti riconoscimenti che spesso si ottengono blandendo il potere e seguendo le opinioni correnti e alla moda. Invece, nei due anni che separano la mia precedente riflessione sul suo lavoro, Matarazzo si è impegnato per dare una svolta definitiva all’immagine ed al segno della sua pittura. Diciamo che nell’attuale bailamme, causato dallo sviluppo della “pittura mediale” e da una sua contorta e strumentale continuazione, è molto difficile trovare un pittore che disdegni i luoghi comuni, la retorica e soprattutto i rituali che sfiorano la banalità. Il lavoro di Matarazzo parte da una dissacrazione dei pretesi nobili sentimenti dell’esercizio artigianale della cromia e i falsi valori che servono a coprire gli egoismi e i privilegi di un’immagine ammaliante e fascinosa. Proprio nell’attuale esperimento, denominato Freaks, l’artista campano denuncia la disonestà o la viltà di quelli che, preposti a controllare e a sorvegliare, colludono o fingono di non vedere per quieto vivere.

Forse oggi neanche il gesto del guardare o dell’osservare ad occhio nudo, dicendo le cose come stanno, può bastare. Diciamo che il pittore contemporaneo può credere di più che i mali dell’immagine del mondo vengano da lontano e formino una zavorra tanto pesante e ingombrante da impedirne la rappresentazione, senza tirar fuori le facce più aberranti e mostruose che si annidano e si nascondono sotto la coltre di una superficie pianificata e curata da un’ombra plasmatrice.
Da un sondaggio sulle immagini di Matarazzo si ricavano alcuni caratteri usati dall’artista: ricerca della bruttezza, predisposizione della tela alla schermaticità, segno curato e tecnica di riproduzione dell’immagine che sfiora il vecchio dagherrotipo (ricorda le sfumature del viraggio), ingrandimento dell’immagine da documenti originali fino al dettaglio della scrittura o del giornale da dove è ricavato, dialettica tra le forme di una certa immagine: attuale nella riproposizione e archeologica nella memoria.

Antonello Matarazzo è partito da un lavoro del 1997 dove entrando in contatto con un vecchio archivio fotografico avellinese, aveva riprodotto alcune immagini delle strane figure ivi conservate. La gente che comunemente compariva in questa sorta di “album” di memorie era costituita da persone del popolo, lavoratori, contadini dalle facce estremamente vissute. In alcuni casi si trattava di gente che si prestava alle più disparate interpretazioni, proprio per i loro volti che davano ad immaginare situazioni di vita particolarmente conflittuali. Alcuni di questi rilievi fotografici sanno anche di tecnica da fotografia indiziaria, forse è per questo motivo che fanno apparire i personaggi ritratti in maniera un po’ paradossale, come se fossero stati tanti “poco raccomandabili”.

Altri esempi di ricerche simili si possono trovare nei lavori di archivio di Aldo Ghilardi (anzi spostando un po’ il senso ci si può riferire ad un libro in particolare “Wanted!”, Milano, Mazzotta, 1978). Anche alcune foto di Carla Cerati scattate prima della riforma manicomiale ci riportano alla mente immagini di mostruosità umane. Oggetto di numerosi equivoci e incomprensioni fu invece il gesto di Cesare Lombroso che scattò e fece scattare delle immagini per utilizzarle in alcune ricerche di criminologia. Alphonse Bertillon fece uso della fotografia per sviluppare l’identificazionismo e Paolo Mantegazza ha studiato su di essa la fisiologia del piacere e del dolore. Nell’ambito della fotografia sociale Lewis H. Hine ha spinto sul versante delle condizioni di vita diseredate e tanti altri fotografi dopo di lui hanno tentato di scovare l’aspetto orrorifico di alcune realtà sociali ed umane, non ultimo per qualità ed impegno è certamente il gesto dell’americano Joel Peter Witkin. Questi esempi dimostrano che un certo percorso di ricerca culturale ha sviluppato durante il nostro secolo un particolare interesse per una fotografia che documentasse il lato oscuro e più angosciante della vita umana.

Di non secondaria importanza in questa dimensione si colloca anche il cinema che da Tod Browning allo slatterpunk non ha taciuto una certa attrazione per varie forme di orrore. Antonello Matarazzo, invece, utilizzando alcune delle immagini dell’archivio avellinese le ha riprodotte a matita su carta e poi ha aggiunto delle cornici volontariamente kitsch e una scultura con una lente che, disposta davanti al quadro, ne deforma il contenuto. Nel catalogo queste immagini erano accompagnate dalle dichiarazioni di Pietro Pacciani dopo la condanna come presunto “mostro di Firenze”. Una in particolare accompagnava l’immagine di una donna di Calitri che viene osservata dall’ombra stessa dell’artista sullo sfondo di una finestra di luce con delle cancellate che ricordano quelle di un carcere, di un luogo di segregazione.

Sembra quasi che Antonello Matarazzo rendendosi partecipe dell’esperienza che sta registrando voglia anticipare l’attenzione per l’espansione psicologica dell’immagine del monstrum. E come infatti la mostra di Firenze si chiama Freaks richiamando il titolo del film di Tod Browning del 1932. A parte il saggio di Leslie Fiedler sui Freaks, il film di Browning con Olga Baclavova, Wallace Ford e Roscoe Ates diventa un classico dell’orrore, nonostante fosse stato ritirato quasi subito dopo la prima per volere del boss della MGM che lo giudicò inadatto per gli spettatori delicati di stomaco di allora. Il regista americano usò veri nani e veri mostri fra cui due gemelle siamesi.

La horrorstory “Freaks” è stata considerata il capolavoro di Browning. Protagonista è la bella di un circo, un’acrobata, che acconsente a sposare un nano. I nani sin dall’antica simbologia sono degli esseri che accompagnano le fate, i nani sono legati alle grotte, alle caverne nei fianchi delle montagne, essi spesso personificavano le manifestazioni incontrollate dell’inconscio, perché si permettevano dei gesti inconsueti presso i re. Molto dopo essi sono stati assimilati ai demoni e si sono trasformati nel simbolo del fallimento e dell’orrore. Nel Rinascimento la compagnia dei nani divenne una moda. Nel film di Browning il nano ha la funzione di oggetto sacrificale e quindi viene avvelenato dalla donna che tenta di ammazzarlo per potersi godere l’eredità con l’uomo forzuto della compagnia (il cubano Ercole) . Gli altri freaks, nani, se ne accorgono e le rovinano la festa, riuscendo a storpiarla affinché anch’essa diventi come loro.

Antonello Matarazzo con la tecnica indicata riporta su una tela dal colore della carta ingiallita alcune immagini del film: Pete Robinson, conosciuto anche come l’uomo scheletro; Violet e Daisy Hilton, le cosiddette gemelle unite che a noi sono arrivate con una bellissima ricostruzione fotografica dell’epoca. Inoltre Matarazzo, spinto dall’interesse per una documentazione sui freaks, riporta poi nel suo lavoro altri personaggi che non fanno parte del film di Browning ma, grazie all’excursus fatto da Fiedler, possono rivelarsi come una sottile continuazione e possono anche essere la variante più radicale del lavoro cominciato con i personaggi di Calitri. Qui dunque incontriamo Francisco (Frank) Lentini, l’uomo con tre gambe; i Klinefelters, affetti da ginecomastia o morbo di Klinefelter; Grace Gilbert, la donna barbuta; Millie-Christine, le gemelle unite africane; Robert Wadlow, l’uomo più alto del mondo; il generale Tom Thumb e Lavinia Warren, due piccoli esseri umani, tra i più piccoli che siano mai arrivati alla maturità; i fratelli Tocci, due gemelli dall’aspetto un po’ wildeiano, dandy attaccati per l’eternità.

Matarazzo, con questo salto definitivo nell’ambito di una ricerca così audace, si colloca singolarmente tra un archeologo ed uno scienziato analitico del brutto e non nel senso del cattivo gusto. Forse qui potremmo dare l’accezione che Foucaolt dà di archeologia (spostandone il senso in maniera metaforica). Non si tratta di una parola che vuole indicare qualcosa che è fuori del tempo e ormai cristallizzato nel mutismo del museo e del passato, ma piuttosto di far coincidere delle immagini di tempi diversi come dei discorsi. Senza nessuna presunzione critica, avendo preso a pretesto dal saggio sui Freaks del critico americano, Matarazzo è come se ne estendesse il senso attraverso la pittura. Sin dai suoi primi lavori Matarazzo ha sempre subito un’attrazione per oggetti animati ed inanimati che rappresentavano una particolare propensione al deformato e là dove essi direttamente non lo erano l’artista si è fatto avanti con il suo segno e con i suoi oggetti per spingere la deformazione, l’effetto speculare, il processo anamorfico.

Con i Freaks questa tendenza viene dichiarata anche come analisi delle storie, come attenzione alle alterazioni umane e biologiche. Infatti Freaks originariamente significa mostri e questa stessa parola dal latino non significa niente di orrendo ma semplicemente: prodigio, fenomeno ovvero addirittura “qualcosa che mostra la volontà degli dei”. I mostri utilizzati da Browning sono il collegamento fra l’immaginario antico di queste esistenze emarginate dalla società e la ricerca di qualcosa di inibito, un timore nascosto. Nel linguaggio pantagruelico dei giovani moderni e contemporanei freaks ha significato anche altre cose. I freaks erano quei giovani che si identificavano con una forma anomala di socius che di propria volontà rifiutava l’ordine della società costituita.

C’è un mirabile disco del recentemente scomparso Frank Zappa che si chiamava per l’appunto Freak Out, come pure sull’onda della cultura di San Francisco e del movimento hippies vi erano le favolose storie a fumetti dei Freak Brothers (della serie di Gilbert Shelton). Ma nel caso di Matarazzo i freaks assumono una visione un po’ più astratta e più vicina a Browning. Essi rappresentano le regioni sotterranee, le cavità, gli antri oscuri che son stipati dentro al nostro inconscio e lo sono ancora di più perché oggi con l’aiuto quasi torrenziale dell’esplosione mass-mediologica la loro immagine è lo specchio schermatico della nostra relazione conflittuale con il vivere quotidiano odierno. I Freaks ci dicono che bisogna vincere la fisionomia draghesca che è dentro alle loro deformazioni fisiche, il loro volto spesso è una pianta spinosa, dentro di loro ci sembra che si disserbi ogni mostro, compresi noi stessi, quel Noi con cui dovremmo imparare a vivere, per scoprire una parte nascosta del Sé.

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