Antonello Matarazzo: biography, exibitions, bibliographyAntonello Matarazzo: biography, exibitions, bibliographyAntonello Matarazzo: videoart, installations, paintings

TESTI SELEZIONATI

Insetti sui volti e il turbamento diventa arte  PDF 

Diceva Federico Zeri che davanti alla Primavera di Botticelli bisognerebbe restare fermi a guardare per almeno quattro ore. Argomento che il grande intellettuale Guido Almansi usa per portarci nel mondo della musca depicta. l ditteri che i pittori tra Quattro e Seicento introducevano nelle vanitas e nelle nature morte, simbolo di qualcosa che oggi non si capisce più: tutti dobbiamo morire. Come spiega Almansi. la mosca messa da Giotto sul naso di un personaggio dipinto e Cimabue la cacciò via pensando fosse vera. Prova di bravura del pittore, dunque, ma anche segno di corruzione, perché c’è mosca dove c’è decomposizione. “In Vitro” è la personale di Antonello Matarazzo alla Saaci Gallery di Saviano (via Padre Girolamo Russo, 9), aperta fino al 30 maggio.

«Ci lavoro dall’inizio dell’estate 2017, è un’installazione che comprende una trentina di teche, in realtà cornici di spessore 5 cm, misure 25 per 25, con diversi strati di plexiglass all’interno, sui quali vengono impresse delle immagini». Opere fisse che però possono essere percepite come ologrammi o immagini in movimento: se ci si sposta. sembra che l’immagine si muova. Hanno come soggetto dei ritratti sui quali gli insetti di diverse specie costituiscono il soggetto, invece, mobile. O fintamente mobile. Un movimento cinematografico come nel cimeli da museo dell’immagine. Una musca depicta del XXI secolo. «Lo spunto è la vanitas – prosegue l’artista avellinese – ma in questi lavori tratto la morte in maniera ironica, sdrammatizzata».

Completano l’installazione cinque monitor su cui girano i video di insetti che vengono emessi dalla bocca di qualcuno, o formiche che girando intorno a un volto ne disegnano il perimetro definendo una tratteggiatura del volto prossima all’astrazione. «Ho pensato agli insetti – continua Matarazzo – perché costituiscono un elemento di turbamento che interferisce col volto. Il volto è l’esistenza, il nostro libero arbitrio. L’insetto talvolta è prodotto dalla putrefazione». L’ultimo video vede protagonista assoluto, liberato dall’incombenza dei ritratti, l’insetto. Sotto il titolo “Politik”, 101 specie diverse di insetti fotografati in macro ad altissima definizione, debitamente catalogati. che si trasformano uno nell’altro con la tecnica del morphing. Sono morti, ma rivivono, interconnessi tra loro in un mondo prima di internet. «Politik, illustra l’artista, è Polis in tedesco, perché l’insetto è elemento fondamentale per la sopravvivenza della specie. se si estinguessero le api, ad esempio, verrebbe meno l’intera catena delle specie che aiutano l’ecosistema». “In vitro” del titolo fa riferimento al laboratorio scientifico, e le teche sono quelle dell’entomologia, ma racchiudono una vitalità da era post atomica, «perché gli sciami si comportano come un’unica entità, pur essendo composti da vari corpi di singoli individui».

Domenica 20 maggio alle 20.00 l’installazione di Matarazzo, curata da Raffaella Barbato, si arricchirà di un dialogo con le contaminazioni musicali della musicista e performer lettone Elizabete Balcus, che assumerà le sembianze stesse di un insetto. Il progetto, con il “matronato” della Fondazione Donnaregina (Museo Madre) di Napoli, dopo la preview campana farà tappa a Palazzo Tupputi in Puglia, con la curatela di Bruno Di Marino e poi, a Roma, nella Galleria Pio Monti. Matarazzo è autore del corto “The Fable”, prodotto da “Fuori Orario” di Raitre e ha firmato il video ufficiale dell’album “Canti ballate e ipocondrie d’amore” di Canio Loguercio.

Stella Cervasio (La Repubblica 30-04-18)


IN VITRO. Cosmogonia della Vanitas 

Sono molti anni che Antonello Matarazzo lavora sull’iconografia della vanitas attraverso video monocanale, installazioni e lavori fotografici.

Per l’artista non si tratta tanto (e semplicemente) di ricollegarsi a una tradizione pittorica e figurativa, quanto di esplorare le possibilità di elaborare allegorie fortemente simboliche in un’epoca – dominata dai nuovi media – in cui l’invecchiamento fisico, il deterioramento corporeo e, infine, la morte, diventa l’inevitabile parallelo di un più generale discorso sull’obsolescenza del dispositivo e del supporto su cui sono trascritte le immagini.

La dimensione cinetica del film conduce Matarazzo a mostrarci le metamorfosi del corpo che avvengono sotto i nostri occhi: così in lavori come Karma Pneuma la texture di un volto rugoso scolpito dal tempo, grazie al morphing– procedimento che da sempre contraddistingue la sua poetica (ogni tecnica rimanda a una metafisica, scriveva André Bazin) – diventa mappa delle sofferenze che si sono sedimentate con il passare degli anni, messa a confronto con la corteccia e le nodosità di un tronco d’albero. Ci troviamo di fronte a una metafora immediata e vivente della natura che, inesorabilmente, fa il suo corso trasformando incessantemente la materia.

Le immagini fotografiche che costituiscono la serie In vitro non possiedono, naturalmente, l’elemento temporale. Eppure alla profondità della durata, si sostituisce una tridimensionalità spaziale, data dai diversi strati di plexiglas di cui si compone l’opera: ai volti di giovanissimi e anziani, uomini e donne, si sovrappongono le riproduzioni di insetti che vivono su più layers, dando l’impressione di essere animati ma soprattutto di avere una loro fisicità che varca la soglia della rappresentazione e invade lo spazio del reale. Qualcuno ha giustamente accennato al motivo della musca depicta, altro rimando alla pittura, soprattutto quella fiamminga del XVI secolo. Ma, sicuramente, in queste raffigurazioni di piccole dimensioni emerge sempre il tema del memento mori, della “corruzione” che contamina la natura portandola verso la putrefazione. Anche in questo caso – come in Karma Pneuma– a colpire maggiormente è la neutra frontalità dei volti che ci fissano; il rigore geometrico in cui sono inscritti e ingabbiati; la loro posa serena in attesa della dissoluzione. In realtà, ricordando altri video di Matarazzo – La camera chiaraVeraznunt,  che lavorano sulla fissità del fotografico in relazione alla memoria di qualcosa che è stato e che, illusoriamente, torna ad essere (il cinematografico) – questi volti appartengono già al passato, sono già defunti.

Ma proviamo piuttosto a leggere In vitro non come allegoria della morte, bensì della vita. La freddezza somatica di questi microritratti potrebbe essere, invece, controbilanciata proprio dall’intervento degli insetti, in quanto elementi vitali la cui presenza non vuole ricordarci la fragilità dell’esistenza e ammonirci sulla vanità del tutto, ma diventa piuttosto simbolo di rinascita, proprio come lo scarabeo nell’antico Egitto (il kheperer, con funzioni magico-apotropaiche). In questo senso l’artista non poteva non collegare alle opere oggettuali/fotografiche – che si fanno corpoe che costituiscono un corpus, una galleria di figure in bilico tra bi e tridimensionalità – alcune installazioni video: qui i volti di profilo appaiono come pianeti attorno ai quali gli insetti disegnano le loro traiettorie. Il diagramma delle rotazioni celesti, il reticolo che lentamente arricchisce queste immagini, liberandole dalla fissità e affidandole al movimento, possiede qualcosa di ritmico, di musicale: non a caso Matarazzo ha rielaborato questi brevi video costruendo l’installazione audiovisiva In-Secto-symphoniae, con la musica della compositrice e sound designer Rosella Clementi e la voce di Maria Pia De Vito, nota sperimentatrice vocale in ambito jazzistico. L’installazione sarà presentata in anteprima in site specific nell’ambito della Biennale di Arte Contemporanea di Salerno. Questo lavoro a sei mani ruota intorno al concetto di geometria sonora prodotta mediante la ricerca di rapporti algoritmici tra i vari suoni in gioco diffusi con un dispositivo multicanale.

Nei video che compongono la mostra In vitro, così come nell’installazione In-Secto-symphoniae, il tema della vanitas si configura come scrittura cosmogonica, animazione digitale che si espande nello spazio (in senso concreto, ovvero espositivo ma anche stellare), tracciato circolare e frammentato che si protrae idealmente all’infinito e collega il volto all’universo, il microcosmo al macrocosmo. Il segno della mortalità si rovescia, dunque, nel suo contrario, vitalità in espansione: la figura dell’insetto diventa misura di tutte le cose, elemento di intermediazione tra sacro e profano, umano e celeste, fisico e spirituale, consegnando i volti di In vitro a quell’immortalità che è propria dell’arte.

Bruno Di Marino, 2018


BUG 

L’uomo ha sviluppato nel corso della sua evoluzione strategie di sopravvivenza che si sono dimostrate decisamente efficaci, se le si giudica in ragione del successo della sua specie. Alcune di queste strategie vincenti riguardano la possibilità di provare un’ampia gamma di sensazioni con la conseguente capacità di comunicarle. Un individuo che è in grado di provare paura in una situazione di pericolo, per esempio, la comunicherà agli altri membri della sua comunità contribuendo alla salvezza del gruppo. Risposta sensoriale e comunicazione sono anche a fondamento di quelle pratiche che riuniamo sotto l’etichetta “arte”. Tutta la gamma delle sensazioni, dalla paura al desiderio, hanno trovato modalità di formalizzazione attraverso la pittura, la scultura, la musica grazie alle quali le abbiamo rese condivisibili. La nostra identità, ormai non solo di specie, ma compiutamente culturale, passa dunque attraverso le dinamiche della sensazione, della loro formalizzazione e comunicazione.

Alcune di queste strategie vincenti riguardano la possibilità di provare un’ampia gamma di sensazioni con la conseguente capacità di comunicarle. Un individuo che è in grado di provare paura in una situazione di pericolo, per esempio, la comunicherà agli altri membri della sua comunità contribuendo alla salvezza del gruppo. Risposta sensoriale e comunicazione sono anche a fondamento di quelle pratiche che riuniamo sotto l’etichetta “arte”. Tutta la gamma delle sensazioni, dalla paura al desiderio, hanno trovato modalità di formalizzazione attraverso la pittura, la scultura, la musica grazie alle quali le abbiamo rese condivisibili. La nostra identità, ormai non solo di specie, ma compiutamente culturale, passa dunque attraverso le dinamiche della sensazione, della loro formalizzazione e comunicazione.

Tra le sensazioni più antiche c’è il disgusto. Anche questa si è rivelata utile perché a evitare rischi per la salute, per esempio. Comunicare che un cibo è guasto o non adatto è uno dei primi contenuti di comunicazione che si instaurano tra madre e bambino, attraverso un sistema di espressioni facciali che sono preculturali, sono identiche cioè in tutte le popolazioni e non dipendono dalla lingua o dalla storia dei singoli individui. Al disgusto è associata quella parte importante del vivente che sono gli insetti. Proviamo disgusto verso la maggior parte di essi, soprattutto quelli atavicamente associati al marcio e alla putrefazione,  ovvero a quelle condizioni, il cui contatto rappresenta un pericolo per la salute. Il disgusto, in arte, è stato spesso utilizzato con l’intento di spingere ai limiti la sensazione estetica e ciò è avvenuto nel corso del tempo in fasi di maturità dei linguaggi artistici: manierismo, barocco, neoavanguardie, postmoderno ecc. Il tema del disgusto è una parte importante della storia dell’arte ed è stato “trattato” in funzione di ammaestramento morale, come nel caso delle Vanitas, composizioni derivanti dalla natura morta che illustravano i pericoli di una vita peccaminosa, mostrandone l’aspetto, diremmo oggi, splatter. O come nel caso delle straordinarie opere di Gaetano Zumbo (1656-1701), abilissimo ceroplasta che nel corso della sua vita ha realizzato stupefacenti quadri di estrema verisimiglianza con corpi squartati, cimiteri, appestati e, ovviamente, insetti. Nell’arte contemporanea, segnatamente nelle ultime generazioni, il tema dell’insetto torna, ma rappresentando una fondamentale ambiguità: conserva una forte carica di sollecitazione emotiva, facendo appello appunto alle suggestioni preculturali, ma è portatore di una sua forma di bellezza, in quanto nel suo suo corpo riconosciamo perfette simmetrie e coincidenza funzionale tra forma e funzione. Inoltre, la scienza ci ha permesso di conoscere la complessità delle dinamiche della loro vita sociale, analoghe a quelle delle nostre odierne popolose società.

Antonello Matarazzo nella sua ultima ricerca, attraverso fotografia e video, esplora il rapporto tra ritratto e insetti. A un primo approccio, c’è da aspettarselo, la reazione è quella del sottile imbarazzo che precede la sensazione del disgusto. Non potrebbe essere diversamente poiché, lo abbiamo detto, si tratta di una sensazione preculturale e dunque precede ogni forma di comunicazione artistica. Ma qualcosa ci dice che l’obiettivo dell’artista non è quello di sollecitare una facile reazione, come pure accade in molte sperimentazioni contemporanee, tra le più intelligenti, basti citare i fratelli Chapman. Nelle immagini di Matarazzo, c’è una contrapposizione ben rimarcata tra l’individuo ritratto, riconoscibile nella sua fisionomia e l’astrazione della forma animale dell’insetto. Gli insetti sono infatti tutti uguali, almeno ai nostri occhi di umani. È questa una prima chiave di lettura che costringe la nostra attenzione a riconsiderare proprio il principio di individuazione del ritratto. È come se l’artista, grazie all’assoluta identicità e perfezione astratta degli insetti rappresentati, affermasse quanto invece i volti siano singolari. Come cioè appartengano proprio a quella persona ritratta. Una seconda chiave di lettura sta nel limite dei disgusto che l’artista non supera. Soprattutto nei video, i volti sono di giovani ragazze delle quali ci colpisce la grazia e la leggerezza, anche quando gli insetti si muovono sul loro profilo. L’artista non mette in scena un effetto di esasperato realismo, come siamo abituati a vederne al cinema o in tv. Non vuole convincerci che quegli insetti abbiano davvero a che fare con quei volti. Che nascano veramente da essi. Vuol suggerirci solo che potrebbero farlo, ma che esiste un limite, una distanza grazie alla quale, volto e insetto rimangono entità distinte.

Il raffinato gioco di Antonello Matarazzo si svolge, dunque, sull’ambiguità di quanto potrebbe essere, grazie a un eccesso di verisimiglianza propria una tecnica illusionistica e quanto invece con l’arte rimane autentico senza essere vero. Gli insetti infatti vengono fuori dai volti che quasi ci sembra di riconoscere e che non sembrano turbati dalla circostanza. Si adattano, quasi per un accidente, ma rimangono per lo più indifferenti. Come se quanto accade non fosse reale, come se procedesse da una dimensione onirica. La grazia dei volti che non ci comunicano sensazioni di paura o di disgusto ci dice che quel che vediamo non sta accadendo per davvero. Che è solo una finzione dichiarata, come non farebbe mai un effetto speciale hollywoodiano, per esempio, che invece scommette proprio sul fatto di riuscire a ingannarci. Cioè sul fatto di presentarsi come vero senza però essere autentico.

Usiamo l’arte, ci ricorda l’artista, per tenere a distanza la verità, anche quella dell’artificio. Perché di troppa verità l’arte muore. Se riusciamo, dunque, a sostenere lo sguardo della giovane donna sul cui volto passeggiano degli insetti, se non ce ne allontaniamo disgustati, è perché sappiamo che quel che vediamo non è artificio illusionistico, ma è arte. E che all’arte non chiediamo mai la verità.

Domenico Maria Papa, 2018

Il marchio della città
La strepitosa firma di Antonello Matarazzo al Festival Laceno d’Oro di Avellino  PDF

Antonello Matarazzo (Avellino, 1962), è regista e videoartista. Dal 2000 partecipa a numerosi festival nazionali e internazionali, alcuni dei quali gli hanno dedicato delle retrospettive. L’interesse antropologico è una delle componenti di «Apice» (2004), dedicato al borgo irpino abbandonato dopo il sisma del 1980, e di «Miserere» (2004), dove un gruppo di uomini e donne in carrozzella rivisita con la musica di Canio Loguercio le aree dismesse dell’Italsider di Bagnoli. Lo sguardo è al centro di «La Camera Chiara» (2003/2014) che interviene in modo creativo sulla raccolta di fotografie di un centro studi avellinese, ma anche di «4B movie» (2007) che fa rimbalzare la visione di Beckett, Keaton, Bene e Bergman nell’occhio di Piero Degli Esposti., Un’ampia scelta dei suoi lavori più significativi– da «Luna Zero» (2007) a («Karma Baroque» (2010), dai «Veraznunt» (2008) a «Video su carta» (2011) in Antonello Matarazzo Video e installazioni, il DVD della RaroVideo a cura di Bruno Di Marino, che è il curatore anche del DVD «Latta e Cafè» (2009), il film dedicato all’architetto e designer napoletano Riccardo Dalisi, pubblicato dalla Filmauro. Importante nella sua opera l’uso della musica. Nella sigla del Laceno d’Oro, il brano di Camille Saint-Saens accentua la dimensione fantasmatica del video.

Non è la prima volta che Antonello Matarazzo – regista e videoartista tra i più estrosi e rappresentativi della scena contemporanea – si accosta al cinema nel formato della sigla. Nelle sigle realizzate per il Reggio Calabria Film Fest risale addirittura alle fonti storiche del precinema facendo scorrere alle spalle della performer le cronofotografie degli animali con cui il fotoreporter anglo-americano Eadward Muybridge e il fisiologo francese Etienne-Jules Marey, lavorando al di qua e al di là dell’Atlantico, creano le premesse di quello che sarà il cinema, senza intuirne da scienziati il destino di spettacolo.

Sigle strepitose che, con la performer intenta a mimare gli animali riprodotti dai due ricercatori, puntano sull’intreccio tra fotografia, cinema, coreografia, un luogo di confine, una sorta di frontiera commisurata alla dimensione esemplare del corpo umano e della (futura) immedesimazione spettatoriale. Certo, si tratta di un caso estremo dove, sfruttando al massimo la contemporaneità dei due piani visivi, radicalizza la scelta di risalire all’origine del medium, al clamoroso momento fondativo in cui la fotografia e il movimento s’incontrano o, meglio, la fotografia diventa movimento.

Nel segno del noir sembra muoversi la recente, bellissima sigla per il Laceno d’Oro, il Festi-val internazionale del cinema di Avellino, che colloca la performer Simona Mercuro al centro di un notturno urbano di singolare suggestione, ricordando la città-incubo, la città dai mille occhi dell’immaginario in nero di una fortunata tradizione letteraria e cinematografica. Un paradigma confluito nelle città sognate, danzanti, paraboliche di tanta videoarte contemporanea, dopo che le avanguardie storiche (non solo Ruttmann con la sua sinfonia della grande città, ma anche Moholy-Nagy e Cavalcanti) ne avevano fatto il luogo privilegiato della rappresentazione, dove a noi spettatori sono riservati i ruoli del flaneur o del detective.

Nella raffinata elaborazione di Antonello Matarazzo il mito urbano si scarnifica, si semplifica, si deromanticizza. Sfondo e figura si contaminano fino a diventare uno funzione dell’altra, scanditi nel ritmo della corsa, dell’inseguimento, dell’attesa. Addirittura della suspense. Fin dalla sua prima apparizione mentre i cani abbaiano nella notte, la protagonista è la ragazza con la valigia che corre per sfuggire a qualcuno che la insegue. La silhouette del trench chiaro che si muove nel buio è segnata da una sorta di identità plurale. Se prima ha i capelli sciolti, ora sono raccolti con una fascia e il trench ha lasciato il posto a una T-shirt a righe e a un paio di pantaloni, mentre dietro l’angolo spuntano i fari accesi di un’auto. Quando lo spazio si apre a una strada più ampia, punteggiata di luci intermittenti, indossa un elegante abito da sera nero con uno scialle bianco e una collana. Ma di lì a poco tutto cambia, ora indossa calzoni e giubbotto di pelle nera. Si toglie il passamontagna e si vedono il collare con chiodi e il piercing al naso. Apre la valigia e ne escono accartocciate le pellicole. La scritta «Laceno d’Oro. Il cinema che riflette» appare sullo sfondo della sala buia piena di spettatori.

Alle diverse identità che si inseguono tra di loro in una serie di trasformazioni possiamo anche dare un nome nella segnaletica essenziale del minuto e quaranta della sigla. Il trench è quello dell’hard-boiled, la divisa di Humphrey Bogart-Philip Marlowe, la T-shirt a righe rimanda alla Jean Seberg del godardiano Fino all’ultimo respiro, uno dei titoli emblematici della Nouvel le Vague, mentre l’elegante toilette da sera è quella della Femme Fatale. Prima del logo è la Ragazza Dark che guarda in macchina e si congeda. Altrettante soglie, momenti di passaggio, punti di riconoscimento del cortocircuito che anima il percorso della sigla. Schegge di cinema, in cui la sensibilità dell’artista può coincidere o no con la nostra di spettatori.

Nessuna paura se nel gioco di rimandi non vi ritrovate nell’ambiguità del moderno impersonata da Jean Seberg. O se l’elegante fatalità della signora con lo scialle vi fa pensare alla Delphine Seyrig e ai labirinti di Marienbad più che alle Lauren Bacall, le Lizabeth Scott, le Jane Greer del noir classico. O quando si toglie il passamontagna non riconoscete lo sguardo sfrontato da hacker di Noomi Rapace, la ragazza che gioca col fuoco della saga di Millennium. «La città è fatta così», diceva Ben Hecht. «Chiunque vi avverte ciò che vuole. Identità, domi-cilio e professione non hanno più importanza, non ci si sottrae al marchio della città che portiamo in noi». Come succede con il cinema e i suoi fantasmi che nel buio incarnano le nostre inquietudini segrete. Soprattutto quando sullo schermo «il cono danzante che perfora il nero come un raggio laser», fa vibrare per un momento la luce di una rivelazione, di un puzzle da decifrare.

Orio Caldiron (IL MANIFESTO-ALIAS 13/01/2018)

Tesi di laurea magistrale in Teoria dei linguaggi e della comunicazione audiovisiva, Università di Salerno, 2017
di Sabina Lancio

CAPITOLO IV

Sperimentazione audiovisiva, un piccolo sguardo all’irpinia

È vero che il mondo è ciò che noi vediamo,
ed è altresì vero che nondimeno dobbiamo imparare a vederlo
Maurice Merleau-Ponty

Con la ricerca di Studio Azzurro la videoarte cala sempre più nella società, cercando di captarne i cambiamenti, talvolta le “patologie individuali che sono indizi di patologie sociali” 1, di cui la collettività soffre a causa della velocità appartenente a qualsiasi aspetto della contemporaneità e della mancanza di relazioni autentiche, reali. Viviamo in un’epoca in cui l’individuo è costretto ad adeguarsi ad un modo di vivere sempre più veloce, in un isolamento nascosto dalla fitta rete di relazioni virtuali, in una società in cui si fa riferimento a modelli pre-confezionati, lasciando da parte la creatività che risiede nella mente e nell’immaginario di ognuno di noi. L’arte e la tecnologia dovrebbero esplorare a fondo la società per scoprirne le problematiche, le diversità e renderle materia prima su cui sperimentare per creare nuove espressività. Parlo di quell’arte che non si presenta come denuncia degli aspetti negativi attraverso una loro semplice rappresentazione, ma che agisce direttamente su di essi attraverso processi concreti che danno vita a nuovi linguaggi, nuove espressioni e nuove relazioni.

Così come Studio Azzurro ha instaurato un profondo legame con gli habitat territoriali dei quali ha studiato storie, caratteristiche, memorie e testimonianze, anche in Irpinia, terra di grandi bellezze paesaggistiche e purtroppo anche di notevoli problematiche, nascono piccole realtà che sembrano continuare la strada percorsa dal collettivo milanese, che uniscono cioè arte, tecnologia e tematiche sociali, attraverso l’organizzazione di percorsi di ricerca, eventi creativi e collaborazioni trasversali.

Di seguito proverò e descrivere alcune di esse, che appartengono ad una più vasta area di videosperimentazione irpina, territorio che si posizione ad un buon livello sia dal punto di vista dei contenuti che dei “contenitori”, intesi come organizzazione di eventi, workshop e manifestazioni sulle culture elettroniche innovative.

Anche se alcuni artisti e gruppi hanno esordito da poco e stanno pian piano emergendo, l’interesse di questi per le nuove tecnologie legate all’audiovisivo è in forte crescita, e si fa strada attraverso sperimentazioni di nuovi linguaggi e forme espressive, con la passione che lega tutto questo al racconto delle proprie origini. E proprio per questo motivo vorrei partire da un artista che ormai opera nel campo della videoarte da molto tempo, affermandosi anche a livello internazionale e facendo conoscere il territorio e la comunità irpini in Italia e all’estero, attraverso opere che guardano dritto negli occhi dello spettatore.

IV.1 I volti e i contrasti di Antonello Matarazzo

Antonello Matarazzo è un artista e regista irpino che dal 1990 si occupa di ricerca nel campo delle arti visive, integrando fotografia, pittura e video e producendo opere, installazioni, video musicali e documentari. Il suo lavoro si colloca pertanto nel medialismo 2 e, utilizzando molto la tecnica del contrasto, l’artista esplora aspetti antropologici e introspettivi, che fanno della sua ricerca un interessante spunto per seminari e workshops in diverse università, oltre alla partecipazione con le sue opere a molteplici festival e rassegne cinematografici, italiani ed internazionali, tra cui La Biennale di Venezia e il Torino Film Festival 3. Ma il suo lavoro parte sempre e comunque dalle sue origini, ben radicate nelle opere video attraverso i luoghi, i volti e le storie che narra.

“I lavori di Matarazzo sono indissolubilmente legati al territorio in cui l’artista vive: l’Irpinia. C’è un forte sentimento di appartenenza a un luogo e al tempo stesso la capacità di descriverli, di rappresentarli con un distacco ironico, con uno sguardo marziano. L’Irpinia vista dalla luna, insomma. *…+ come in Mi chiamo Sabino (2001), ritratto di filosofo pazzo o meglio di pazzo filosofo, che parla a ruota libera per le strade di Avellino. Lo sguardo di Matarazzo alterna alla camera a mano freezata che segue nervosamente e ossessivamente questo strano personaggio con il basco, la panoramica della città vista dall’alto, immersa in un silenzio bucolico e assurdo. Il contrasto formale tra la parola non-lineare e caotica di Sabino e la rassicurante veduta della città è netto. Ma il significato del video è forse più profondo, ed è nel labile confine tra natura e civiltà: Avellino è una strana città (e neanche tanto piccola), totalmente circondata dal verde; così, a pochi metri dal corso principale, ci si ritrova improvvisamente in mezzo alla campagna. Allo stesso modo è molto esiguo lo scarto tra normalità e follia, razionale e irrazionale” 4 (Bruno Di Marino).

È evidente, dalle parole di Bruno Di Marino, che nelle opere di Matarazzo si instaura un forte legame non solo tra l’artista e la sua terra, ma anche tra le storie e il territorio dal quale provengono, le quali immagini diventano a tratti interscambiabili. La ricerca video di Antonello Matarazzo inizia nel 2000 con il cortometraggio The Fable, definito dallo stesso regista “cinema liquido su tele e foto” 5. Pittura e fotografia, punti cardine del lavoro dell’artista, entrano per la prima volta in contatto con il video, nei circa nove minuti originati in computer grafica, che consistono in un susseguirsi di foto in bianco e nero concesse dall’archivio Guido Dorso di Avellino, foto di “volti immobili e perduti nel tempo” 6. Per la prima volta la staticità di pittura e fotografia si lascia travolgere dal movimento dell’immagine video 7, come accade anche nei successivi lavori Le cose vere e Mi chiamo Sabino del 2001, entrambi ambientati ad Avellino, città d’origine dell’autore. Con il primo “Antonello Matarazzo passa dal montaggio di fotogrammi fissi di The Fable alla fissità addosso a un personaggio, ossessionato dal cinema/non cinema fino a morirne, che parla di e cammina con la sua malattia, e intorno a lui, irrimediabilmente fuori di lui, Avellino coi caffè, i parchi, le feste popolari 8.

La storia è quella di un gruppo di amici che vuole girare un film giallo, ma le crisi del primo attore, amatore del cinema degli anni ‘60/’70 e, allo stesso tempo, contrario alla società dello spettacolo, porteranno il gruppo a fare un film proprio sulle sue vicende ossessive riprese da una spy-cam. In questo modo il cortometraggio va oltre la realtà dei personaggi, degli oggetti, dell’ambiente verso una destrutturazione spazio-temporale. “Avellino, vista da questa camera parkinsoniana e corrosiva, smette di essere un luogo geografico e diventa tutti i luoghi in cui è impossibile stare bene come è altrettanto impossibile stare definitivamente male” 9, sensazione data anche dalla sottrazione dei colori in alcune scene del film.

I video successivi continuano sulla strada della ricerca di nuovi modelli espressivi, dentro universi contrapposti, contraddittori all’interno di viaggi visionari in cui è lo sguardo ad essere centrale, come ne La camera chiara del 2003, film edito dall’omonimo testo di Roland Barthes. Il riferimento, esplicito già nel titolo, è alla fotografia, infatti ancora una volta il film ci viene presentato con immagini fotografiche, questa volta a tratti sbiadite. Immagini in bianco e nero, in cui i soggetti vengono scontornati e poi ricollocati nella loro posizione originale. Una sorta di cinema-video che ci mostra un susseguirsi di sguardi che si fondono tra loro, che si chiude con una frase di Roland Barthes “Io vorrei una storia degli sguardi” 10.

Un simile dettaglio, ovvero quello dello sguardo, è accentuato anche in Warh un’opera in digitale che si apre con l’omaggio al fiore di Andy Warhol e narra di un occidente devastato a partire dal tragico attacco alle Torri Gemelle del 2001. In primo piano continuano ad apparire figure di persone che ci guardano fisso negli occhi quasi invitandoci a riflettere su ciò che intanto passa sullo sfondo, raccontandoci di un “Occidente dove la dimensione mediale onnivora e iperinformativa si tramuta in un canto tragico e visionario” 11.

Nei lavori successivi Matarazzo stringe una collaborazione con il musicista Canio Loguercio, del quale utilizza le musiche in Miserere. Di questa sperimentazione video abbiamo una prima versione del 2004, e una seconda del 2005, Miserere Cantus, sintesi della prima, che è vero e proprio lavoro crossmediale raccolto in DVD, CD e libro, perché immagini, testo e musiche sono separabili con un proprio significato, ma allo stesso tempo intrecciati indissolubilmente nella trama. Miserere è stata definita dal Corriere del Mezzogiorno “un oggetto complesso, plurimediale, in linea con una tendenza della nuova poesia e della nuova canzone tesa al recupero di un’oralità drammatica e di una visività acustica. L’effetto è quello di un concept album, di un flusso sonoro e verbale, di un teatro senza scena, avvolgente e meditativo” 12.

L’opera ipermediale include teatro, videoteatro, musica, poesia e performance, che ci raccontano il pellegrinaggio di alcuni disabili, tra cui uno impersonato dallo stesso Matarazzo, unico a non essere su una sedia a rotelle, ma cieco che guida gli altri sei tra le stradine di campagna che circondano l’edificio vuoto e abbandonato della ex Italsider di Bagnoli di Napoli. Tutti si percuotono il petto in segno di redenzione da un male che probabilmente ha colpito corpo e anima. Le immagini di tale processione laica (il progetto è infatti dedicato, come leggiamo alla fine del video, «a tutti coloro che non possono affermare con assoluta certezza l’esistenza di Dio»), si alternano a quelle dell’antica usanza della processione dei Battenti di Guardia Sanframondi 13. Dunque anche un grido di speranza, un guardare al futuro, che portano lo spettatore alla riflessione su tematiche sociali che Matarazzo include nei suoi lavori con una particolare profondità. Ancora una volta la presenza di un contrasto, tra chi invoca il perdono per errori commessi e chi invece chiede redenzione per un male di cui non è colpevole, ma che è costretto a pagare tutti i giorni con la malattia. Le voci narranti, tra cui quella di Loguercio, sussurrano in tono penetrante testi di poesie e canzoni che evocano immagini strazianti, a tratti nostalgiche e deliranti.

Alla fine scopriamo la vera storia di 3 dei disabili, storie di sofferenze silenziose uguali a tante altre che rimangono nascoste, che sono indifferenti, abbandonate, proprio come l’edificio della ex industria.

Del lavoro di Antonello Matarazzo, interessante è anche il videodocumentario del 2007, Interferenze che prende il nome dall’omonimo festival 14 di San Martino Valle Caudina, dedicato alle nuove tecnologie elettroniche. Il sottotitolo Rumori, visioni, bit di campagna, e altro ancora, descrive perfettamente il mix con cui è costruito il video, “frammenti, montaggi veloci, sovrapposizioni (alle volte di gustosa ironia), interferenze d’avanzamento elettronico, il tutto arricchito da una serie di interviste ad artisti. […] una sorta di viaggio audiovisivo verso le principali esperienze della ricerca sonora e delle immagini elettroniche della nostra contemporaneità” 15. lavorano quasi esclusivamente con la carta pesta, da ciò deriva il titolo dell’opera di Matarazzo che, secondo Bruno Di Marino17, racconta non solo il processo creativo dei due artisti fin dalla realizzazione dei pannelli di cartapesta, ma anche il modo di allestire poi la mostra quasi “entrando in simbiosi ritmica, anche musicale con il lavoro e l’immaginario di Perino & Vele” 16. I due scultori avellinesi lavorano quasi esclusivamente con la carta pesta, da ciò deriva il titolo dell’opera di Matarazzo che, secondo Bruno Di Marino 17, racconta non solo il processo creativo dei due artisti fin dalla realizzazione dei pannelli di cartapesta, ma anche il modo di allestire poi la mostra quasi “entrando in simbiosi ritmica, anche musicale con il lavoro e l’immaginario di Perino & Vele”. Matarazzo, quindi, attraverso il video racconta altri artisti, certamente non è l’unico, ma è interessante, secondo lo studioso, il suo confronto fatto senza effetti didascalici, senza dover chiarire quali sono i passaggi del suo lavoro. Ad ogni produzione dedica un diverso modo di sperimentare, con un evidente richiamo continuo alle sue origini da pittore che si riflettono nell’elaborazione grafica delle immagini video. Così come l’altro referente fondamentale, secondo Di Marino 18, è la fotografia soprattutto in lavori come i già citati La camera chiara e Warh, ma anche People connection del 2008, che partono proprio da un’immagine fissa che è quella fotografica, alla quale staticità Matarazzo dà movimento, ad esempio, attraverso il morphing, o altre tecniche con le quali crea una metamorfosi dei corpi, dei volti immortalati, che un tempo sono stati e tornano ad esprimersi nel presente del video senza però la possibilità di tornare ad essere identici alla posa assunta in foto. La fotografia, infatti, come afferma Barthes, “ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente” 19. Ritornando a Video su Carta, il lavoro si presenta, come abbiamo detto, come un viaggio attraverso l’immaginario del duo di artisti campani Perino & Vele. In tutto abbiamo dunque tre autori e due visioni a confronto: quella di un pittore e regista, come Matarazzo, e quella della coppia di scultori in questione, che dialogano fino a far scaturire infinite possibilità espressive, grazie all’incontro dell’immaterialità della tecnologia audiovisiva con la materialità della cartapesta. La presenza dei volti ritorna nei successivi Karma n.1, presentato alla 54° mostra internazionale d’arte di Venezia, e Karma n.2 che insieme al primo va a costituire la videoinstallazione del 2012 Doppio Karma. Così come ritorna il contrasto, l’ossimoro tra immobilità e trasformazione che ancora una volta lega il movimento del video alla staticità dell’immagine fotografica, rappresentato in questo caso dalla progressiva crescita di un albero nel primo lavoro e dal fluire dell’acqua nel secondo.

La rugosità della corteccia è simile a quella di un viso umano che invecchia, così come il volto dell’adolescente trova il proprio corrispettivo nel fresco scorrere dell’acqua, sia come purezza che come flusso di continui cambiamenti nei lineamenti, come vediamo nel video stesso. In questo lavoro troviamo anche una sorta di metadescrizione dell’immagine, con l’immobilità del volto nel primo video, e la trasformazione nel secondo, che evocano l’immobilità dell’immagine fotografica e la trasformazione fluida delle immagini in movimento. Ma anche un confronto tra l’uomo e la natura in continuo cambiamento, come in Your body is your Buddha del 2014, anche se questa volta l’uomo si misura con il regno animale. Attraverso le coreografie di Simona Lisi che riproducono i movimenti del corpo che si immedesima nei diversi animali e ne riproduce i movimenti, nel video ci viene mostrato come il corpo sia capace di immedesimarsi nell’ambiente circostante, esprimendo le infinite possibilità di mutamento biologico, per poi richiudersi, nel finale, di nuovo in se stesso.

Nel 2014 ad Antonello Matarazzo è stata affidata la regia della sigla del “Laceno D’Oro” 20, lo storico festival irpino dedicato al cinema del reale e nel quale programma dell’edizione 2016 è rientrato anche l’ultimo lavoro di Antonello Matarazzo come regista uscito nello stesso anni, Ballata dell’ipocondria (o del vibrione innamorato). Il videoclip che accompagna la ballata popolare di Canio Loguercio, è contenuto in Canti, ballate e ipocondrie d’ammore ed è stato presentato a Napoli lo scorso 12 dicembre.

Un percorso per musica e immagini sospeso tra narrazione e sperimentazione, tecnologia e tribalismo. Ballata dell’ipocondria (o del vibrione innamorato) concentra innanzitutto il lavoro simbolico sulla cromia, con le coreografie di Hilde Grella e il playback di Loguercio che interviene in alcuni punti insieme all’organettista Alessandro D’Alessandro, mentre gli altri guest vocalist (tra cui Peppe Servillo, Rocco Papaleo, Maria Pia De Vito) si materializzano sotto forma di maschere fotografiche o “cellule video” osservate su un piccolo monitor in questo surreale laboratorio dalla scenografia abbagliante e vagamente kubrickiana dove, con tute bianco-asettiche, tra ampolle, microscopi e altre improbabili attrezzature mediche, si tenta di isolare il virus dell’amore, che ha infettato irrimediabilmente il musicista (tanto da assumere egli stesso sembianze di vibrione) e potrebbe espandersi contagiando l’intera umanità” 21.

Il tema, come si evince dalla descrizione di Di Marino, è quello dell’innamoramento visto come patologia, come virus che infetta e nel video ad essere infettato è lo stesso Loguercio che si sottopone agli esperimenti di laboratorio e nella realtà a quelli di Matarazzo che ne dirige i movimenti e le azioni. Un universo visionario tra chimica, laboratorio e sperimentazione che riporta il videomaker alla dimensione pittorica precedente al suo incontro con il video 22.

1. Andrea Balzola e Paolo Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli, Milano 2011, p. 171.
2. Il termine “medialismo” è stato coniato dal critico napoletano Gabriele Perretta per indicare l’arte del “media mix”, ovvero la possibilità di integrare i diversi media, di ibridarli per ottenere determinati prodotti artistici utilizzando tecniche appartenenti ad altri mezzi di comunicazione, ad esempio dipingere attraverso la fotografia digitale come fa Antonello Matarazzo nei suoi video d’autore. Si tratta pertanto di un’arte in continua evoluzione che sta al passo con le nuove tecnologie e che le utilizza in modo trasversale e in diversi settori. Per un approfondimento si veda Gabriele Perretta, Medialismo, Politi, Milano 1993.
3. https://www.antonellomatarazzo.it/bio.htm, 27/04/2017.
4. Bruno Di Marino, Il morphing dell’anima, in Mazzino Montinari (a cura di) 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2006.
5. Alfonso Amendola, Videoculture. Storia, teoria ed esperienze artistiche dell’audiovisivo sperimentale, Tunuè, Latina 2012, p. 91.
6. Ibidem
7. Sul rapporto tra fotografia e cinema si veda Bruno Di Marino, Pose in movimento. Fotografia e cinema, Bollati Boringhieri, 2009.
8. Segnocinema – anno XXI N° 111, sett/ott 2001, https://www.antonellomatarazzo.it/texts/tlecosevere.html, 27/04/2017.
9. Corriere – 17/01/2001, https://www.antonellomatarazzo.it/texts/tlecosevere.html, 27/04/2017.
10. Barthes 1980 in Alfonso Amendola, Videoculture. Storia, teoria ed esperienze artistiche dell’audiovisivo sperimentale, Tunuè, Latina 2012, p. 92.
11. Alfonso Amendola, Videoculture. Storia, teoria ed esperienze artistiche dell’audiovisivo sperimentale, Tunuè, Latina 2012, p. 93.
12. https://www.antonellomatarazzo.it/texts/tmiserere.html, 27/04/2017.
13. A Guardia Sanframondi in provincia di Benevento, ogni 7 anni, si tengono i tradizionali riti settennali di penitenza in onore dell’Assunta, che consistono in cortei rappresentati episodi dell’antico e del nuovo Testamento o inerenti alla vita di alcuni Santi. Nella processione finale, i battenti, uomini incappucciati, si percuotono ripetutamente il petto con delle spugne appuntite in segno di penitenza.
14. Interferenze New Arts Festival, il festival delle arti elettroniche, nasce nel 2003 a San Martino Valle Caudina, in provincia di Avellino. Integra tradizione e innovazione, attraverso la sperimentazione e la contaminazione di arti elettroniche e nuove tecnologie, integrando cultura digitale e locale. Un altro importante “contenitore” video irpino che partendo dalla ricerca sulla musica elettronica, negli anni ha aperto le porte a diverse espressioni dell’audiovisivo con residenze d’artista, workshops, laboratori, performance dal vivo e produzioni audiovisive che fanno conoscere l’attività del festival in tutta Italia.
15. Alfonso Amendola, Videoculture. Storia, teoria ed esperienze artistiche dell’audiovisivo sperimentale, Tunuè, Latina 2012, p. 93.
16. Emiliano Perino e Luca Vele hanno iniziato a lavorare insieme più di 20 anni fa, esplorando tecniche e linguaggi della scultura nel loro laboratorio a Rotondi, piccolo paese in provincia di Avellino. Per le loro sculture utilizzano come materiale principale la carta pesta, con la quale creano opere che richiamano il surrealismo e la teatralità di alcune ricerche dell’arte povera, attraverso la scomposizione della materia, la carta dei giornali macerata appunto, e al suo riformarsi con nuovi significati. L’intento degli artisti è quello di restituire un’immagine falsata della realtà tramite le forme patinate delle sculture in carta pesta che nascondono lacerazioni e contraddizioni della società contemporanea evocate simbolicamente dall’utilizzo della carta dei quotidiani che riportano notizie di un mondo precario.
17. https://www.youtube.com, 28/04/2017.
18. Ricordiamo che Bruno Di Marino e Antonello Matarazzo hanno lavorato insieme al film documentario Latta e cafè (2009), la storia del designer Riccardo Dalisi, vincitore nel 1981 del “Compasso d’Oro” per il design della caffettiera Alessi. Interessante l’accostamento di un materiale povero come la latta ad uno dei simboli di Napoli, il caffè. Accostamento che rientra nel “design della decrescita” praticato da Dalisi per attirare l’attenzione sulle problematiche ambientali legate al sud Italia.
19. Roland Barthes, La Camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, p.6.
20. Lo storico Festival Internazionale del Cinema “Laceno d’oro” nasce come rassegna nel 1959 grazie a Pier Paolo Pasolini e a due giovani intellettuali irpini, Camillo Marino e Giacomo D’Onofrio. Si trasforma poi in Festival del Cinema neorealista, fino a diventare una delle più importanti manifestazioni dedicate al cinema del reale in Italia. Si tiene, come da tradizione, in Irpinia, ed è stata interrotta dopo il terremoto del 1980, per poi riprendere successivamente e distinguersi, anche a livello internazionale, per la sua profonda attenzione all’approfondimento di problematiche sociali e per essere uno stimolo di dibattito sul cinema “che riflette”, ovvero quello indipendente e sperimentale.
21. Bruno Di Marino in Canio Loguercio e Alessandro D’Alessandro, Canti, ballate e ipocondrie d’ammore (CD-book +DVD), Squilibri 2016, http://www.lacenodoro.it/ballata-ipocondria/, 08/05/2017.
22. http://www.lacenodoro.it/ballata-ipocondria/, 28/04/2017.

Matarazzo, un’arte che non fa confidenze 
Il Dvd. Primo esemplare della nuova collana “Interferenze” a cura di Stefano Curti e Bruno Di Marino esce il dvd dedicato ad Antonello Matarazzo: dodici video, sette installazioni, più due contenuti extra, un “Video su carta” e un reportage dedicato a Matarazzo pittore 

C’è un artista in Italia che come nessun altro sa incrociare cinema, pittura e fotografia. Cortometraggi e mediometraggi insediati sulla faglia che separa la stasi dal movimento, una faglia che si apre e si chiude continuamente producendo una fissità e un movimento che rimandano a un tempo in cui l’uomo, la storia e la natura erano dentro una pressione che ora pare perduta.

Quella di Antonello Matarazzo è un’inquietudine purissima, senza retoriche. Non è classificabile come impegnato e non è un artista da intrattenimento. La sua è una postura profondamente onesta, che non si cura minimamente di fare mosse politiche che possano mettere in rilievo il suo lavoro. I suoi video, che mischiano cinema, fotografia e pittura, sono lavori rigorosi, assolutamente privi di elementi spumosi e posticci. Video calibratissimi, lavorati per molti mesi anche quando durano solo pochi minuti. Matarazzo non è un opinionista, ma un percettivo. L’opinionismo è una delle più grandi sciagure del nostro tempo e ha invaso anche il campo dell’arte. E così troppo spesso abbiamo un’arte senza scalini, appoggiata sullo stesso marciapiede dove lavorano i mercanti del frastuono.

Dodici video, sette installazioni, più due contenuti extra, un bellissimo “Video su carta” e un reportage su Antonello Matarazzo pittore, il tutto dentro un elegante DVD che avvia una nuova collana di Rarovideo (Interferenze a cura di Stefano Curti e Bruno Di Marino).

Non è cinema, non è fotografia, non è videoarte. Oggi le cose vere sono sempre un po’ inclassificabili. Le immagini non commerciano col mistero e neppure con l’ovvio. Seguono la strada della precisione, la precisione di un altissimo artigianato digitale. In questi lavori è come se le immagini fossero sottovuoto, come se Matarazzo avesse tolto l’aria dell’attualità che sta infestando tutto. Il suo sguardo si posa sul corpo e sul tempo che passa nel corpo. Emblematico da questo punto di vista il suo Karma baroque, meno di cinque minuti in cui la geografia del viso ci fa vedere i tanti paesaggi creati dal tempo. Spesso in questi video si fonde alla perfezione l’arcaico fissato nelle vecchie fotografie e le possibilità di smuovere la fissità delle foto grazie a un uso sapientissimo delle tecnologie digitali.

Matarazzo lavora a bassa voce, la sua fedeltà alle immagini è assoluta, non gli interessa il pollaio dei discorsi. Lavora a testa bassa sul corpo delle immagini e sulle immagini dei corpi, un corpo a corpo con la metamorfosi. Sentiamo che siamo in un punto cruciale dell’arte contemporanea. E spesso è un sentire angoscioso, perché questo è un tempo senza utopie e l’arte di Antonello Matarazzo non offre consolazioni. Il rischio delle sue operazioni è che ogni volta bisogna convincersi che valga la pena uscire dal silenzio e dall’accidia. Ognuno di questi lavori è un momento di intensità in una vita vissuta con grande rigore e concentrazione morale. Possiamo vedere i video e le installazioni di una persona che non ha l’agenda piena di eventi frivoli. Matarazzo non si diluisce nella vita, resta fermo, scontroso di fronte ad essa, incapace di prendersi e dare inutili confidenze.

Franco Arminio
(IL MANIFESTO, 17/01/2015)

Cineasti invisibili 

Da oggi, noi utenti myHusky e EightAndHalf, con la collaborazione di lorebalda, pubblicheremo dei resoconti biografici e filmografici di alcuni “cineasti invisibili” poco “di moda” che si distaccano dai gusti predominanti e vanno a nutrire un cinema di nicchia che meriterebbe ben altra estensione. Un approccio semplice a grandi registi poco conosciuti: altro che salotti, il cinema è di tutti.

«Antonello Matarazzo è artista di confronti estremi. Il corpo umano mantiene centralità in questo viaggio pittorico per cicli tematici. Una fisicità fatta di alterazioni, mostruosità, devianze, brutture… un percorso nel rimosso delle coscienze, nel cancro estetico che non vorresti scoperchiare.»  (Gianluca Marziani)

Antonello Matarazzo è un videoartista italiano, regista sui generis di cinema e di immagini in movimento, sconosciuto al grande pubblico ma noto nei più importanti circoli festivalieri del mondo e a certa critica capace ancora di dubitare di quel labile confine che separerebbe, tradizionalisticamente, “cortometraggio” e “video”, cinema e videoarte in sostanza, più in termini concettuali che tecnici quantomeno (perché le differenze tecniche sussistono e non sono poche). Infatti la critica continua con questa differenziazione fuori tempo massimo e usa la scappatoia della videoarte per ignorare certi artisti come Matarazzo. Ma che il regista avellinese sia videoartista o meno, egli compie un lavoro notevole sulle immagini, meritorio certo di grande interesse, capace com’è  di osare con strumenti estetici ben noti (dissolvenze, morphing, sdoppiamenti visuali, ralenti) per arrivare a conclusioni formali assolutamente originali e spiazzanti.

«Matarazzo è tra i pochi artisti italiani – comunemente etichettati per comodità terminologica e concettuale quali “videoartisti”! – che sa usare il medium video, sia dal punto di vista estetico che tecnico, lavorando sul linguaggio senza tradire né svilire la profonda poesia che traspare dalla visione delle cose.»  (Bruno di Marino)

Antonello Matarazzo nasce ad Avellino nel 1962. La sua figura di artista si districa fra pittura, fotografia, e “videoarte”, probabilmente vero e proprio cinema, benché non adotti gli stessi abituali strumenti delle regie cinematografiche. Dopo il ruolo di costumista e di aiuto regista al Teatro Bellini di Catania, si dedica alle arti visive come esponente di punta di una tendenza degli ultimi anni, il Medialismo, che prevede la commistione dei vari media, appunto, dunque pittura, video e fotografia insieme. Il risultato è una filmografia/videografia di circa 35 opere, fra video, installazioni, cortometraggi e documentari sperimentali, ognuno dei quali presenta sempre un forte motivo di interesse, dal punto di vista visivo, prima di tutto, ma anche dal punto di vista tematico, in quanto già dalle prime opere (The Fable, del 2000, e La Camera Chiara, del 2003) Matarazzo va definendo una sua personalissima poetica che indaga il ruolo della memoria, dello sguardo, del tempo che passa e del corpo che si trasforma.

«Barthes, nell’omonimo saggio, dedica molte pagine al fatto che la fotografia consente ciò che il cinema proibisce: guardare in macchina, riflettendo poi sul suo infondere una coscienza non dell’esserci della cosa, ma dell’esserci stato. Matarazzo [in La Camera Chiara] sembra lavorare proprio su questo concetto, rendendolo però ambiguo, sfumato, poiché – a differenza dello scarto che Barthes ritiene ci sia tra cinema e fotografia – oggi, nell’era digitale, il tempo del video e quello della fotografia finiscono col coincidere, grazie per esempio al morphing, che plasma la materia elettronica come fosse una scultura, permettendo di trasformare un volto fotografico in un altro, in modo da suggerire una continuità anche somatica, a volte genealogica, antropologica, dei volti»  (Bruno Di Marino).

Dopo la realizzazione di Astrolìte, codiretto da Carlo Michele Schirinzi e con la partecipazione straordinaria di Enrico Ghezzi che nel film coerentemente con la poetica del regista campano riflette sulla mutazione e sul suo carattere anarchico e selvaggio, Matarazzo realizza una delle sue opere più importanti (pur contestualizzate nella prima fase, più immatura, della sua arte), Miserere (2004), in cui un gruppo di disabili su sedia a rotelle vagano per le lande desertiche del sito archeologico-industriale di Bagnoli, guidati da un cieco che li porta a compiere una processione, una rivalsa o una redenzione dalle malvagità che hanno dovuto subire nella loro vita (alcuni degli attori sono veri disabili di cui nel finale viene raccontata la storia).

«A ben vedere questo progetto artistico plurisettoriale si configura più come una vera opera che, nella sua modernità laica, riprende e aggiorna gli assunti classici di una viandanza religiosa in cui si chiede non tanto pietà, ma una possibile redenzione, un possibile redimersi da un male che s’è fatto corpo e forse anima.»  (Sergio Rotino)

Apice, del 2004, rimane in linea con questa prima tendenza dell’opera matarazziana, cioè a dire la vicinanza con il suo luogo d’origine, la Campania. Apice è infatti un paesino abbandonato in cui un misterioso venditore si reca per vendere alcuni suoi misteriosi prodotti (che si scoprono solo alla fine del corto). Il lavoro sul montaggio, come fa notare Bruno di Marino, lascia intendere la straordinaria vicinanza di opere di Matarazzo come Apice a un gusto prettamente cinematografico.

[Il protagonista di Apiceè il protagonista di un quadro metafisico, di uno spazio irreale e carico di atmosfere e sospensioni» (Bruno Di Marino)

Già con 9 06 83 (2006) e Piera e gli assassini (2007) il linguaggio di Matarazzo si incupisce, ripiegandosi su un’oscurità minacciosa che lascia sempre intravedere il lato più misterioso e meno consolatorio delle cose umane. Nel primo caso le immagini della bocca e del corpo di un’amica indicano in maniera genuina la forte carica esplosiva della bellezza e della malizia, nel secondo caso gli elementi di una casa vanno lentamente trasformandosi in oggetti sospetti e pericolosi, fino all’urlo finale che appare poi come uno sberleffo. Piera e gli assassini è il primo cortometraggio (ispirato all’opera omonima di Dacia Maraini e Piera Degli Esposti) che ufficializza la collaborazione tra Matarazzo e la sovracitata grandissima attrice italiana, Piera Degli Esposti, protagonista prima invisibile e poi visibile del primo grande capolavoro del regista, 4B Movie (2007).

Ed è proprio su commissione di Bruno Di Marino che Matarazzo realizza 4B Movie, presentato al Festival di Roma del 2007. Un occhio (dello spettatore) guarda le immagini di quattro grandi autori tutti con lettera iniziale B (Ingmar Bergman, Buster Keaton, Samuel Beckett, Carmelo Bene), si interroga sul loro ruolo, su che ruolo svolgano nella complessità delle visioni cinematografiche della storia, e mentre le immagini scorrono via con il loro fare ambiguo, anarchico e rivoluzionario, improvvisamente fuoriusciamo dall’occhio e ci troviamo di fronte al volto serio e pallido di Piera Degli Esposti, spettatrice/attrice che ci osserva (o osserva la telecamera, o entrambe). Considerando la ricorrente presenza dei primi piani nei film di Matarazzo, questa introspezione interiore e viscerale della vista, che poi rivela come punto di arrivo il ritratto, lascia intendere molto sulla forza delle arti visive: in 4B Movie ci ritroviamo nel miracolo di una visione, laddove la cinepresa prende vita e balla fra le meraviglie che ha saputo intrappolare su pellicola.

«Una straordinaria riflessione sul potere dell’occhio, che è anche occhio interiorizzato della videocamera»  (Bruno Di Marino).

Prima di 4B Movie Matarazzo realizza un sottile e disincantato corto di fantascienza (Luna Zero, 2007) e un’installazione (Mummy, 2007), che si interroga inquietata sul ruolo della religione.

Tra opere più o meno importanti che ritrattano il tema della Storia e del suo atavico Movimento (La posa infinita, 2007), della trasformazione degli sguardi (la “storia degli sguardi” di Barthes, in Peopleconnection, 2008) e del rapporto fra storia del singolo e storia collettiva (VeraZnunt, 2008), vanno a distinguersi con prepotenza Karma Baroque (2010), che offre alla vista il miracolo della vita attraverso la metamorfosi di un viso (dalla nascita fino alla decomposizione) e Video su carta (2011), che insieme a Latta e cafè (2009) va a costituire il dittico di documentari sperimentali realizzato da Matarazzo su atipiche figure di artista, nel primo caso Perino e Vele, artisti della cartapesta, nel secondo caso su Riccardo Dalisi, architetto e designer napoletano.

«L’universo di Perino & Vele è sintetizzato attraverso immagini “schematiche”, ovvero con visioni che, oltre a documentare le diverse fasi processuali del loro lavoro, si trasformano continuamente in sinopie infografiche, con un passaggio dalle immagini dal vero ad immagini reticolari che replicano la stessa texture quadrettata delle loro figure di cartapesta»  (Bruno Di Marino)

Il punto più alto raggiunto dalla carriera di Antonello Matarazzo è un cortometraggio del 2012 di cui pochissimo parlano anche i critici che più lo conoscono e hanno studiato i suoi lavori, 80 kg. in mortem Johann Fatzer, tratto da un’opera incompiuta di Bertolt Brecht. Si tratta di un cortometraggio impressionante e travolgente, in cui una donna dalle vistose fattezze maschili (tradite dalle di lei nudità) indossa vanitosamente un indumento da militare circondata dalla totale oscurità, finché qualcosa non la sconvolge, e la sua natura umana la richiama a sé, a ricordarle della carne e della corporeità, lontana dalle frivolezze astratte della vanità. La presentazione dice «una riflessione sul narcisismo e sul valore della forza individuale se applicata in direzione opposta al senso comune», ma la realtà è che 80 kg. in mortem Johann Fatzer è un cortometraggio dai mille segreti, caotico e criptico, dal commento sonoro esaltante e provvisto della splendida interpretazione di Cristina Pedratscher. Un’opera fortemente visionaria.

Tra le sue ultime sperimentazioni, oltre all’installazione del Double Karma (2011-2012), in cui è il carattere più profondamente simbolico della poetica matarazziana ad avere la meglio, assumono fondamentale importanza i due corti Folias Para5 (2012) e l’ultimo lavoro importante realizzato per il Reggio Calabria FilmFest, Your Body Is Your Buddha (2014). Nel primo l’immagine di una donna risulta sdoppiata in moltissimi modi diversi, sulla base di una divisione in cinque variazioni in cui sembra il movimento il protagonista assoluto. Nel secondo invece una donna in primo piano va mimando le espressioni più svariate di alcuni animali selvaggi che scorrono su una gigantesca pellicola in secondo piano. Le trasformazioni ipercinetiche del viso della donna sembrano renderla di volta in volta similissima all’animale imitato, dal leone all’elefante, con il risultato finale che il corpo umano diventa lo strumento malleabile della costruzione dell’immagine, il componente fondamentale e snodabile di un modo di guardare nella profondità delle cose (così come avviene in Folias Para5 e come avveniva, al principio, in 80 Kg. in mortem Johann Fatzer).

La grammatica visuale delle ultime opere di Matarazzo rivela una maturazione in ambito estetico rara nel panorama dell’arte visiva contemporanea, accompagnata dalle musiche del fedele Ilario Pastore. Una filmografia complessa, quella di Matarazzo, che non merita certo di essere facilmente liquidata con etichette semplicistiche e mal utilizzate. In effetti, nulla toglie che entrambe le forme artistiche, cinema e videoarte, possano farsi portatrici di quel gesto rivoluzionario che troppo scolasticamente consideriamo esclusivamente proprio del cinema tout court, perché che faccia l’uno o l’altra, l’autore italiano dimostra quell’estro anarchico e innovativo che va associato all’Arte più in generale, in qualsiasi forma essa si presenti. Dunque il suo lavoro ci ricorda – indirettamente – la limitatezza e forse l’inutilità di certe confinanti definizioni.

«Comunque per me, che si parli di pittura o video, nella sostanza si tratta della medesima cosa. Con il video ho avuto da subito un rapporto molto naturale. Credo che la differenza tra me e un regista che parta direttamente dalla macchina da presa consista proprio nel rapporto di intimità che io instauro con l’immagine, persino con un singolo fotogramma, infatti in generale il momento più creativo lo sperimento in fase di montaggio. Credo di essere tuttavia piuttosto lontano dal genere cinematografico.»  (Antonello Matarazzo)

EightAndHalf (FilmTv, febbraio 2015)

Volevo essere un outsider

Il distacco dall’ordinario è pre-condizione necessaria per un’esperienza ludica viva e piena, il sovvertimento delle regole è la regola stessa del gioco della sperimentazione. L’artista stupisce e meraviglia nel momento in cui si differenzia. Una caccia al soggetto mai rappresentato, alla successione di note mai eseguita, un’ansia viscerale dedicata alla ricerca dell’Altro. Quell’Altro che riesce a porre in essere il sentire dell’artista, quell’Altro trasfigurazione dell’artista stesso e del suo universo. Come frenetica è la ricerca del diverso da parte dell’artista, così accade anche per lo scrutatore curioso, che mira ad assaporare nuove visioni. Scivolare nel vortice lubrico del mondo parallelo alla vita reale e godere di quel gioco di emozioni che l’arte sa donare. Oggi il disperdersi energetico di questa affannosa ricerca si traduce molto spesso in un ricambio creativo non sempre ai massimi livelli, destinato a vacillare dinanzi a un overload senza pari. Un usa e getta commemorativo quanto mai controproducente da ambo le parti: i creatori vedono la loro opera divenire “superata” in poco tempo, i fruitori, schiacciati dal credo dominante, perdono man mano spirito critico. In questo caotico ciclo vitale la voglia di sensazionalizzare il tutto si mostra nella sua aberrante arroganza. E l’estrema fascinazione per il diverso può far generare errori di giudizio qualitativo.

Robert Hughes parla di un’ossessione per il politicamente corretto che si ritorce su se stessa e tende ad esaltare il diverso solo per il fatto di essere tale. Il critico cita, in proposito, Jean-Michel Basquiat, artista degli anni Ottanta che si affermò sfruttando la sua esperienza di writer metropolitano contaminata da elementi dell’art brut. Il critico pone l’accento sull’ipocrisia imperante del mondo attorno Basquiat. Una volta sfumata la novità del suo lavoro, il grande entusiasmo per l’artista si trasformò in un algido disinteresse. Chi l’aveva esaltato incondizionatamente ora era indifferente. A quattro anni dalla sua morte, si crea una grande retrospettiva al Whitney Museum. In questa occasione molti giornalisti e critici sono andati oltre l’essenza delle sue creazioni: chi era disposto a celebrare il suo autolesionismo, chi all’imputare alla tensione tra etnie l’avvilimento del ragazzo, chi affermava che la dipendenza di Basquiat dalle droghe fosse esclusivamente colpa della società. Un’apologia quindi non della sua arte ma proprio del suo essere “outsider”. Molti si sono soffermati ad analizzare il Basquiat tossicomane, prostituto e morto suicida, e si è speculato, quindi, sulla sua figura ai margini della società. Ma non è assolutamente questo il tipo di differenza da considerare: è unicamente la diversità creativa dell’autore a dover sconvolgere, in particolare in Basquiat la differenza è da ricercare nelle sue pulsioni di colore, nel suo intenso legame stilistico con il graffito, nell’utilizzo di un simbolismo accessibile a tutti, proprio poiché ricalca i simboli della realtà contemporanea. “Il compito della democrazia, nel campo dell’arte , è di proteggere l’elitarismo . Non un elitarismo basato sulla razza o il denaro o il rango sociale, ma sul talento e l’immaginazione”.

Una traccia di questo elitarismo privo di barriere sociali ed aperto alla creatività si incontra in una corrente artistica vicina alla concezione di un’arte pura, immediata e sincera, non basata sullo studio e sulla preparazione: l’outsider art. In realtà già nel 1912 sulla rivista “Die Alpen” vi era un articolo di Paul Klee che individuava nei disegni dei fanciulli e dei malati mentali la genesi della creatività. A metà anni ‘40 Dubuffet, un importante artista francese, coniò il termine art brut per definire la sua collezione di opere d’arte che aveva raccolto negli anni. Tutti i lavori erano accomunati dal fatto che erano stati creati da persone lontane dalla cultura accademica, un misto di ricerche naives, patologiche, borderlines. Nel 1972 Roger Cardinal parlò per la prima volta di outsider art, naturale prosecuzione del precedente movimento. Se nell’art brut, la volontà creatrice dell’autore era premessa indispensabile, nell’outsider art anche i lavori di persone incapaci di autonomia iniziano ad essere considerati opere d’arte.

L’essere marginale non è propriamente la nota emergente di questo movimento, l’elemento chiave è infatti la ricerca di sincerità emozionale. Non vi è uno sfruttamento dell’handicap mentale a causa della sua natura outsider, ma, piuttosto, si considera il suo essere slegato da ogni tipo di formazione artistica. Questa situazione potrebbe favorire una piena espressione dei moti dell’animo senza condizionamento alcuno. Ovviamente non è detto che ogni manifestazione patologica nell’arte sia da acclamare e da essere esaltata come esempio di vera arte poiché scevra da compromessi. O al contrario, non bisogna fare l’errore di non vedere oltre la “malattia” laddove sussistono, invece, delle vere e proprie invenzioni creative. Lo sguardo dello spettatore deve metter da parte paternalismo e voyeurismo a favore di un’attenzione per la tensione emotiva che emerge dall’opera. La ricerca della diversità non avviene solo nell’essere autoriale ma anche nei soggetti rappresentati. Penso alle fotografie di Diane Arbus o alle trasposizioni su tela di Antonello Matarazzo.

Matarazzo da foto preesistenti di freaks, di bimbi con busti ortopedici, di handicappati, ricava ingrandimenti su tela attraverso un procedimento di pittura che simula l’effetto fotografico. Entrambi hanno una passione per il deforme ma sono ben lontani da un voyeurismo irrispettoso delle mostruosità; indagano sulle sofferenze, senza compatirle in un becero spettacolo del dolore. Per i due autori è fondamentale il ruolo dell’estraniamento delle persone dallo sfondo: staccare i soggetti dal fondo per portarli su un altro piano, al centro dell’opera, i principali protagonisti a tu per tu con lo spettatore. L’elemento pruriginoso si fa attendere. E’ un porsi dinanzi all’evidenza senza paternalismo, compassione o pietà. Se nella Arbus predomina il senso di uno scambio d’emozioni fra fotografo e fotografato, in Matarazzo, data anche la natura delle sue opere, la rappresentazione in sé per sé è oggettiva, ma diventa soggettiva nel momento in cui è recepita da chi nella quotidianità “finge di non vedere per quieto vivere. Particolare emotività emerge nelle tele dedicate ai mostri meridionali, l’artista campano da un vecchio archivio fotografico avellinese scopre questi personaggi di fine Ottocento / primo Novecento. L’incontro con essi ci confonde e ci imbarazza, quei bambini, quegli uomini e quelle donne sono nostri antenati e in loro vige una primordialità e uno stra-ordinario lontani dalla nostra idea di bellezza.

Ci rendiamo conto di essere discendenti di mostri: la figura dell’outsider non è mai stata così vicina. C’è il pericolo che la rappresentazione dell’Altro sia frutto non di un’osservazione attenta, ma solo il risultato di un fuggevole sguardo sul mondo, non un reale comprendere e conoscere. L’ostacolo nel trovarsi di fronte a un artista outsider o a un soggetto outsider oggi non è la reazione repulsiva dello spettatore, bensì il pericolo che lo spettatore sia vittima di un fascino perverso esercitato dalle pieghe sotterranee dell’opera, nulla a che spartire con la bravura dell’autore e l’essenza dell’opera in questione. Non vi è una lettura del diverso univoca, l’interpretazione dell’Altro lascia spazio a visioni ambigue e tra loro contraddittorie. Si va dall’automatismo (in psicologia è il compiere atti, gesti fuori dal controllo della volontà) di una parte dell’outsider art all’accurato studio dei tratti di Antonello Matarazzo.

Dalla non volontarietà alla piena consapevolezza. Entrambi però con la prospettiva di sbattere in faccia le evidenze e colpire lo spettatore senza mediazioni. Derrida a proposito dell’Altro parla della necessità di destabilizzare la chiusura di ogni orizzonte e aprirsi di fronte all’alterità radicale, accolta e rispettata nella sua inappropriabilità. Per il filosofo solo ciò che è ogni volta singolare e unico può sfidare l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo e ogni predeterminazione. Questo pensiero sembra indirizzare verso quel bisogno di unicità e di differenza che contraddistingue l’idea tradizionale di opera d’arte. Eppure l’arte oltre ad essere fuga dalla realtà ne è anche un suo simulacro, essa si rinnova in un eterno ciclo di ripudio ed esaltazione del reale. Sulle tracce di Norbert Eliàs comprendiamo che l’interiorizzazione del diverso è condizione necessaria per la conoscenza di se stessi. “In una relazione pura l’individuo non si limita a riconoscere l’altro ma trova nelle sue risposte elementi per l’affermazione della propria identità. L’identità viene negoziata attraverso processi di esplorazione del sé e di sviluppo di intimità con l’altro. Sovrapponendo le riflessioni dei due pensatori e immergendole in un contesto a loro estraneo si potrebbe supporre che conoscere riconoscendo la diversità per poi interiorizzarla siano le due condizioni necessarie per vivere le vere emozioni dell’arte.

In Miserere, uno dei lavori di Matarazzo regista, si incrociano questi due modi di vivere l’opera. L’inappropriabilità dell’essere radicalmente diverso è nell’assistere a un pellegrinaggio di persone con handicap, l’interiorizzazione è nell’immedesimazione di ognuno di noi in questo percorso di redenzione. Senza questo passaggio di integrazione fra le parti ci si può ritrovare in situazioni di eterofobia o di eterofilia che, a causa del pregiudizio o della paura di non incappare in esso, obnubilano la bellezza della spontaneità delle emozioni e condizionano il nostro sentire.

“Miserere” è un’opera commistione di teatro, videoteatro, performance, poesia e canzone. ll soggetto è di Matarazzo/Caravacci, tra gli interpreti del film, oltre Canio Loguercio, troviamo Aurora Staffa, Luigi Tufano, Armando de Sanctis, Susy Liguori, Massimo Borriello, Camy Reza e Barbara Matetich. La durata del formato originario, in DVcam, è di 19’, mentre la versione videoclip (al cui montaggio ha collaborato lo stesso Loguercio) è di circa 8’ (quanto la durata del brano musicale). Entrambe le versioni sono state selezionate a numerosi festival in Italia e all’estero. Esaustivo è il commento al riguardo di Gabriele Perretta (Introduzione al video nel libro/cd/dvd Miserere – ed. Squilibri, Roma 2006) : “[…] Lo spettatore è invitato a riflettere sull’esistenza di chi quotidianamente è allenato a non avere un’esistenza, a non vivere la vita dei battenti a sangue, poiché per tirare avanti deve battersi su un male che non ha mai commesso e per il quale è costretto a gridare Miserere! […].”

Raffaella Pironti
(MAGAZINES l’edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea, N.2, 2014)

ENERGIA VISIBILE. Artisti e dispositivi nella videosperimentazione italiana     issuu

[…] 4. Negli anni duemila, la questione del dispositivo all’interno della creazione elettronica italiana si ripropone in termini e modalità diverse, ma innanzitutto all’insegna di un recupero del passato (estetica del cinema sperimentale classico, collegamento alla fotografia e al cinema delle origini). I lavori di ZimmerFrei e di Antonello Matarazzo si muovono per esempio in questa direzione. […]

Al centro dei video di Antonello Matarazzo – artista che, dopo una lunga attività pittorica, nel 2000 ha cominciato a usare il medium elettronico – c’è lo scambio tra immagini fi sse (fotografi che) e in movimento: da La camera chiara e La posa infinita, da VeraZnunt a People Connection, da Motus a Karma. Il filo conduttore che lega queste creazioni è il rapporto tra materia e memoria, tempo e movimento, storia individuale e storia collettiva. Ne La posa infinita (2007) – riproposta qui a Catanzaro – Matarazzo lavora sul ritratto fotografico di archivio, utilizzando il morphing non per ottenere delle macrotrasformazioni come nei video citati in precedenza, bensì per animare quasi impercettibilmente alcuni elementi all’interno della foto: un bambino che muove i piedi, un uomo che volta leggermente la testa, la smorfia di una donna, ecc. La posa infinita mette ancora una volta in scena lo scarto tra mobilità e immobilità sotto le sembianze di vecchi ritratti fotografici nei quali le figure immortalate riacquistano vita artificialmente mediante movimenti minimi e un suono ambientale, che restituiscono all’immagine cristallizzata nel tempo la sensazione di un accadere “in diretta”.[…]

Bruno Di Marino (dal cat. Della mostra CORPO ELETTRONICO, Videoarte italiana tra materia, segno e sogno, a cura di Andrea La Porta e Gianluca Marziani – Complesso Monumentale del San Giovanni, Catanzaro, 2012)

[…] CAPITOLO V
Videoculture indipendenti


V.4
Video o della visione totale in Antonello Matarazzo 

Da tempo numerosi artisti dedicano ampi spaccati della propria produzione visiva spingendosi verso la videocomunicazione e, più recentemente, verso il digitale. Su questa scia opera l’artista avellinese Antonello Matarazzo (n. 1962), che accanto alla sperimentazione del pittorico e dell’elaborazione fotografica utilizza i linguaggi e le forme della comunicazione elettronica.

Diversi sono i temi della sperimentazione videoartistica di Matarazzo: provo a elencarli, riproponendone una minima selezione di tappe audiovisive essenziali. Per quanto riguarda la sezione pittorica dell’opera di questo artista, rimando al testo di Gabriele Perretta che accompagna il catalogo della mostra dedicatagli nel 2005. È la memoria l’iniziale transito verso cui converge Antonello Matarazzo nella sua prima opera video, opera che l’autore preferisce definire «cinema liquido su tele e foto» stabilendo da subito la sua idea di contaminazione e di spazi visivi esplosi tra loro amalgamati.

 The Fable (2000) è un video di 9 minuti dove scorrono volti immobili e perduti nel tempo. La matrice di costruzione resta l’impianto della pittura e della fotografia, ma l’opzione video comincia a definirsi da subito.

Con il lavoro successivo Le cose vere (2001) il dialogo verso il linguaggio audiovisivo diventa più determinato ed operativo. Dal fotogramma fisso all’immagine-movimento, si potrebbe titolare questo passaggio. C’è cinema già a partire dalla storia. Un gruppo di amici vuole girare un film giallo, ma la “crisi” del cinefilo primo attore spingerà la troupe a realizzare una sorta di “film-reality” centrato sulle crisi emotive ed intellettuali del protagonista. Logicamente restano tutti i temi rilevabili dentro le pratiche visive (e pittoriche ) di Matarazzo: la ripetizione come necessità esplorativa e potentemente creativa, gli scenari del suo territorio, la plasticità dei volti, le dimensioni dell’ossessività, le trasfigurazioni dal visionario al reale, i silenzi assordanti, “le cose vere” di una quotidianità che può essere vorace, fragilissima e disperata.

Con il video Mi chiamo Sabino (2001) la sfida di Antonello Matarazzo è totalmente contenuta nelle dinamiche espressive del documentario, del raccontare il “conosciuto”, dell’attaccare le consapevolezze dello spettatore e, ancora una volta, nel cercare nello specchio molteplice della comunicazione video nuovi modelli di ricerca espressiva. Il racconto della follia, immerso tra “universi giustapposti e complementari”, dentro uno spazio geografico (che come dice lo stesso personaggio del corto nel tempo si è tramutato in “…una galera tutta lapidi”), tra un sonoro minimal e naturale diventa un pretesto per continuare il personalissimo viaggio visionario dell’autore.

Un trionfo di ragioni e passioni, un riflettere sui livelli della percezione e una riuscita sintesi sulla contaminazione estrema dei linguaggi che il video Astrolìte (mediometraggio del 2002, co-firmato con Carlo Michele Schirinzi) lucidamente evidenzia. Uno scritto di enrico ghezzi (qui anche attore, tra gli altri c’è anche Gabriele Perretta) apre ed accompagna il film:

“La mutazione è una sorta di immagine anarchica, atea, selvaggia che non riconosce l’origine del cambiamento dell’umanità, del corpo umano. Della mutazione, infatti, si ha una paura terribile. È per noi una sorta di futuro, di orizzonte futuro, che ci mostra in modo più evidente quello che sicuramente sta accadendo anche a noi”.

Il video successivo, La camera chiara ha come centralità tematica proprio lo sguardo e una citazione di Barthes chiude questo lavoro: “Io vorrei una storia degli sguardi” (R. Barthes, 1980). Quest’opera rappresenta anche un ritorno alla sua idea originaria di cinema-video. Ma stavolta attraverso l’amplificazione necessaria della dimensione digitale. Matarazzo lavora, con grande raffinatezza (come elegantissima è la scelta musicale dei Sigur Rós) nell’evidenziare inizialmente una parte della foto, scontornandola e mostrandocela quasi come la sua idea di “punctum” e poi ricollocandola, gradualmente all’interno del suo spazio visivo originario. Non c’è racconto, non c’è traccia drammaturgica e nemmeno volontà documentaristica. C’è la composizione del vedere, lo scandire il tempo della visione attraverso la “rappresentazione” foto-grafica, la mutevolezza dei segni in forma di luce, la fissità che indica l’estrema mobilità del tempo, le dinamiche densissime degli occhi.

Con Warh (2003) Antonello Matarazzo nel parlarci di guerra tra i mondi omaggia l’entusiastico fiore di Andy Warhol. L’opera in digitale, che è stata definita un “film sulla vulnerabilità”, parte dal dramma dell’11 settembre 2001 e attraverso un continuo flusso di immagini (rielaborate e decontestualizzate) ci racconta un devastato occidente (dove la dimensione mediale onnivora ed iper-informativa si tramuta in un canto tragico e visionario).

Tutto il lavoro di Antonello Matarazzo è dialogo, costruzione e, come più volte sottolineato, contaminazione di forme e stili, in piena linea con le idee guida del Medialismo (G. Perretta, 2002).

Con Miserere (2005), Antonello Matarazzo stringe un sodalizio professionale con il musicista Canio Loguercio. Per quanto riguarda il video, al momento esistono due versioni: una di 20 minuti con musiche originali di Canio Loguercio e Fabrizio Castanìa e un videoclip di 8 minuti per il solo brano (Miserere) di Loguercio, ma l’operazione è più articolata e punta a realizzare un vero e proprio lavoro multimediale fatto di immagini, storie, musiche, racconti ancestrali, spaccati rituali, antropologia e poi realizzazione di concerti, dvd, libri… una carovana dove trovano eco tantissimi volti e nomi della creatività italiana contemporanea.

Una calma apparente, una leggerezza inquieta, una visione adulta ed infantile, un racconto a ritroso che con potenza guarda al futuro. Queste sensazioni caratterizzano l’ouverture dell’ultimo video firmato da Antonello Matarazzo Interferenze (che prende il nome dall’omonimo New Art Festival di San Martino Valle Caudina). Ancor più indicativo è il sottotitolo – Rumori, visioni, bit di campagna, e altro ancora – che ha caratterizzato l’edizione 2005 del Festival, edizione alla quale è dedicato il video che è stato presentato alla 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. (È possibile vedere il trailer di 8’49: https://www.youtube.com/interferenze).
Il video è costruito per frammenti, montaggi veloci, sovrapposizioni (alle volte di gustosa ironia), interferenze d’avanzamento elettronico, il tutto arricchito da una serie di interviste (Initials BB, Midaircondo, Robert Praxmarer; Maja Ratkje, Alexei Shulgin) e marcati transiti musicali (Frame, Initials BB, Jan Jelinek, Maja Ratkje, Midaircondo, Populous, Slow Motion). Una sorta di viaggio audiovisivo verso le principali esperienze della ricerca sonora e delle immagini elettroniche della nostra contemporaneità.

Interferenze pur essendo un documentario, e quindi una sorta di lavoro atto a “conservare” e dare informazioni “storicizzanti”, è al contempo una potente operazione video-artistica che non fa assolutamente dimenticare che dietro la telecamera (nel chiuso dello spazio del montaggio) c’è Antonello Matarazzo con tutto il suo bagaglio di visioni e attentati alla visione, con la sua lucida ed appassionata irruenza di cantore di una complessa contemporaneità, insomma ritroviamo il Matarazzo nella pienezza dei suoi assalti frontali verso il cinema, il pittorico, la frammentazione elettronica, l’articolarsi delle sonorità e la ricchezza mediale che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare nelle sue precedenti sperimentazioni audiovisive e foto-pittoriche (per un’analisi ed una visione dettagliata rimando al suo sito: www.antonellomatarazzo.it, dove accanto alle sezioni “immagini”, “video” e “bio” compare anche una nutrita sezione “press” con analisi critiche firmate, tra gli altri, da Gabriele Perretta, Enrico Ghezzi, Marisa Vescovo e altri).

Personaggio “principale” di Interferenze è un cuoco, che nel chiuso della sua stanza rigata da ombre di luce, affaccia sulla piazza dove si svolgerà l’evento dedicato alla musica e alle arti elettroniche. E così tra interviste, sound-ceck, prove tecniche, giochi, momenti live… seguiamo la giornata di questo signore di almeno 200 chili (che non puo’ non ricordare i Freaks cari all’immaginario di Matarazzo). “Il suo risveglio – giustamente nota Adelina Preziosi sul n°141 di Segnocinema – con la telecamera che riprende il profilo del ventre supino, le gambe e i piedi giù dal letto, le piastrelle di cotto, il bagno, la scala, è quasi una citazione di Carlo Michele Schirinzi, a sua volta artista e videomaker (con Matarazzo ha collaborato nel 2002 alla realizzazione di Astrolìte) che lavora sulle immagini e sui suoni per affrancare i corpi dal peso del simulacro indicando a essi (esso) la via verso una sorta di santità”. Quindi ancora ritorni, citazioni, contaminazioni, interferenze. Ancora un importante lavoro di densa visionarietà firmato: Antonello Matarazzo. […]

Alfonso Amendola (VIDEOCULTURE. Storia, teoria ed esperienze artistiche dell’audiovisivo sperimentale, Ed. Tunué, Latina 2012)

Rizomatica del movimento 

L’immaginario filmico di un artista come Antonello Matarazzo non può non risentire innanzitutto della sua formazione pittorica. L’esattezza del suo sguardo coniugata anche alla necessità di un gesto, sempre limpido e perentorio, che cerca di tradurre in immagini (in movimento o meno) il caos del mondo, è per esempio una delle caratteristiche del suo fare artistico. E del resto si avverte che, pur non nascendo come cineasta, Matarazzo sa padroneggiare perfettamente il medium, esplorandone le possibilità, anche gli effetti, ma non scegliendo una strada narrativa, piuttosto muovendosi in bilico tra la sperimentazione e il documentario.

Ed è proprio su questo versante che Matarazzo si è esercitato negli ultimi due anni, con due lavori molto diversi l’uno dall’altro: il mediometraggio Latta e cafè (2009), prodotto per la Filmauro da Aurelio De Laurentiis, e il cortometraggio Video su carta (2011), presentato nel giugno scorso alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano. Il primo (film riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali) è un portrait dedicato a Riccardo Dalisi, architetto e designer napoletano. Raccontare per immagini la lunga e composita attività di una figura eclettica come quella di Dalisi, richiede un’assoluta libertà di messa in scena. Ed è per questa ragione che Latta e cafè inizia in modo metafilmico, attraverso l’enunciazione di una struttura che sarà in gran parte disattesa dallo sviluppo del progetto.

In questo senso quello che in parte è definibile un ritratto di Dalisi, rispecchia l’approccio e lo stile del soggetto stesso: Latta e cafè è un documentario “imprevedibile”, che tocca certi argomenti, si allontana, vi ritorna nuovamente, in un flusso schizofrenico riflesso dell’energia eclettica che informa l’estetica dalisiana. L’oggetto-principe dell’universo progettuale di Dalisi, ovvero la caffettiera, fa la sua comparsa nella prima parte del film per riapparire verso la fine: ed è solo un esempio di come nessun tema trattato da Matarazzo può essere concluso. Il ritmo del lavoro blandisce l’estetica di Dalisi, che è anche cinetica, mettendo in evidenza, fino all’esplosione, quanto ci sia di mobile nelle creazioni dell’architetto.

La struttura caotica di Latta e cafè vede il suo rovescio nell’architettura geometrica e lineare di Video su carta, realizzato in occasione della mostra di Perino & Vele presso la Fondazione Pomodoro. Se il processo artistico di Dalisi viene raccontato in modo barocco, la struttura del cortometraggio sui due artisti campani (amici di lunga data e di percorso di A. M.), i quali hanno deciso di concentrarsi su una sola ma straordinaria tecnica, la cartapesta, è più vicina al linguaggio della minimal art. L’universo di Perino & Vele è sintetizzato attraverso immagini “schematiche”, ovvero con visioni che, oltre a documentare le diverse fasi processuali del loro lavoro, si trasformano continuamente in sinopie infografiche, con un passaggio dalle immagini dal vero a immagini reticolari che replicano la stessa texture quadrettata delle loro figure di cartapesta. Inquadrature fisse, movimenti di macchina lenti e definiti, e soprattutto un montaggio che scandisce la messa in scena, in sincrono con la musica e con i rumori: questo è lo stile adottato da Matarazzo, opposto all’uso della camera a mano, delle dissolvenze dal nero e dei tagli netti di Latta e cafè.

In questi due lavori Matarazzo pur riecheggiando lo stile degli artisti che sceglie di raccontare, impone il suo sguardo ri-leggendo e ri-mettendo in scena l’estetica dei suoi colleghi, valendosi del proprio inconfondibile linguaggio.

Nel documento creativo troviamo altresì tracce del terreno artistico e sperimentale che Matarazzo ha esplorato negli ultimi anni. L’interconnessione e lo scambio tra immagini fisse (fotografiche) e immagini in movimento (videografiche) è al centro di diversi suoi video e installazioni, fin da La camera chiara e La posa infinita, un tema che diventa centrale in altri lavori: da VeraZnunt – che sarà riproposto sotto forma di installazione di Palazzo Zenobio a Venezia – a Peopleconnection, da Motus a Karma, una delle sue opere più recenti elaborata in diverse versioni, che sarà allestita – sempre nel mese di settembre – presso il Cam di Casoria (Na), Padiglione Italiano regionale della 54. Biennale di Venezia.

Un filo conduttore che lega tutte queste creazioni è il rapporto tra materia e memoria, tempo e movimento, storia individuale e storia collettiva. Il racconto autobiografico del vecchio armeno che rimembra attraverso un episodio familiare il genocidio del suo popolo ad opera dei turchi, si concretizza in una fotografia che prende magicamente vita e segna una “rinascita”, ovvero un ritorno all’innocenza, ad un mondo non ancora sconvolto dalla violenza, dall’intolleranza e dalla morte (VeraZnunt). Un parallelo lo troviamo in Karma, tutto giocato sull’ossimoro tra immobilità e trasformazione, rappresentato dall’esistenza di un albero, dalla rugosità della sua corteccia simile a quella di un corpo umano che invecchia: quello di una donna anziana in cui scorgiamo la stessa mescolanza di immobilità e trasformazione. La solidità apparentemente inanimata della pianta, contrapposta alla fragilità di un corpo soggetto allo scorrere del tempo. oggetto allo scorrere del tempo. Due forme organiche assorbite nel ciclo inesorabile della natura, dove tutto si trasforma e niente si distrugge.

Nell’estetica di Matarazzo le faglie del tempo e anche i continui e rizomatici passaggi dalla stasi al movimento contribuiscono alla creazione di un percorso ricco di suggestioni, costituito da frammenti visivo-narrativi che si rincorrono nel nome di una struggente nostalgia primigenia, dove il senso della storia e quello della natura si sovrappongono e si dissolvono.

Bruno Di Marino  (1fmediaproject.net 09/09/2011)

Pose in movimento. Fotografia e Cinema 

4 – Ritratti del tempo (Cap. 3 “Pensare l’immagine” pag. 45)

[…] Nel suo video La camera chiara (2003), esplicito omaggio a Barthes, l’artista Antonello Matarazzo ha lavorato sul ritratto fotografico utilizzando come materiale di base le foto dell’archivio Guido Dorso di Avellino. Lo scarto che Barthes ritiene ci sia tra cinema e fotografia, oggi, nell’era del digitale, tende ad assottigliarsi e a sfumare sempre di più. Il tempo del video e quello della fotografia finiscono col coincidere, grazie per esempio all’effetto digitale chiamato morphing, che plasma la materia elettronica come fosse una scultura, permettendo di trasformare un volto fotografico in un altro, in modo da suggerire una continuità anche somatica, a volte genealogica, antropologica dei volti: è quanto avviene nella parte finale del video interamente basata su primi piani che si susseguono in crescendo. In altre parti dell’opera, invece, l’artista sceglie di isolare alcune figure (in gran parte bambini) all’interno di ritratti fotografici (molti dei quali “di gruppo”), rielaborandoli cromaticamente o luministicamente, rendendo non solo ancora più ectoplasmatiche le figure, ma creando infinite combinazioni. Le figure vengono estrapolate dall’insieme e poi reinserite in un secondo tempo con un gioco compositivo di primi piani e sfondi. I soggetti ritratti sono così estrapolabili dal contesto, spesso sfumati, comparendo e scomparendo all’interno della cornice. Ed è qui che emerge senza dubbio la sua natura di pittore, non tanto perché si confronta con l’immagine fissa piuttosto che con quella in movimento, ma proprio per la sensibilità, per la possibilità di dare un senso narrativo solo attraverso la texture, la trasfigurazione verso l’astratto.

Un altro video di Matarazzo, Warh (2003), estremizza ancor di più il discorso e il contrasto tra posa e movimento. Ai ritratti fotografici in primo piano trasformati dal morphing, vengono aggiunte come sfondo sequenze solarizzate di guerra: i bombardamenti notturni su Bagdad, mig che sfrecciano nel cielo, le drammatiche immagini dell’11 settembre (che occupano tutta la parte finale del video), scandite di tanto in tanto da un fiore di Warhol (da qui il gioco di parole del titolo) che funziona da contrappunto e rafforza l’idea di collisione tra immaginari che sembrano lontanissimi: l’esserci stato e l’essere, l’arte e la guerra; così il tema non è tanto la memoria del conflitto, quanto i conflitti (visivi, mentali, percettivi) generati dalla memoria, dalle immagini video-foto-pittoriche che entrano in un infinito cortocircuito. 21

Matarazzo ha poi realizzato un’installazione dal titolo La posa infinita (2007), dove ripropone il ritratto fotografico di archivio, utilizzando il morphing non per ottenere delle macrotrasformazioni come nei video citati in precedenza, bensì per animare, in alcuni casi quasi impercettibilmente, alcuni elementi all’interno della foto: un bambino che muove i piedi, un uomo che ruota leggermente la testa, la smorfia di una donna ecc. La posa infinita mette ancora una volta in scena lo scarto tra mobilità e immobilità che emerge dall’interfaccia cinema/fotografia, sotto le sembianze di un antico portrait collettivo nel quale le figure immortalate riacquistano vita artificialmente mediante movimenti minimi e un suono ambientale che restituiscono all’immagine cristallizzata nel tempo la sensazione di uno svolgimento «in diretta». Con la stessa tecnica ha realizzato anche il video monocanale VeraZnunt (2008). […]

Bruno Di Marino (da Pose in Movimento, Fotografia e Cinema, Bollati Boringhieri, Torino 2009)

21. Sul lavoro di Matarazzo cfr. il mio saggio Il morphing dell’anima, nel catalogo della 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro 2006, pp. 180-82

Latta e Café – relazione sul progetto 

L’idea di questo progetto nasce innanzitutto dall’ammirazione nei confronti di Riccardo Dalisi, un personaggio fuori dalle righe di questi tempi, ma dentro quelle del passato e del futuro come evidenzierò in seguito. Dalisi è un architetto e designer di fama interessato tanto alla produzione industriale quanto all’artigianato, fenomeno in via d’estinzione che lui stesso ha contribuito a far rinascere. Penso a Rua Catalana, una strada tradizionalmente teatro di botteghe di artigianato che da parecchi anni versava in uno stato di abbandono, ma che ora grazie a Dalisi è tornata a nuova vita: oggi gli artigiani lavorano la latta, il ferro e altri materiali, spesso realizzando progetti dello stesso Dalisi o ispirandosi al suo inconfondibile stile.

Familiarizzando quindi con la sua multiforme attività, ho pensato di ri-leggerla creativamente attraverso il video, uno strumento che pratico ormai da una decina d’anni. Latta e cafè nasce dunque dall’attrazione fatale di un artista (io) per un altro artista (Dalisi) e, dal momento che di solito il mio lavoro si muove sul versante della sperimentazione, nel bene o nel male non può comunque considerarsi un documentario canonico o un semplice portrait.
Ho inoltre sentito l’esigenza di allargare il discorso anche al contesto, a Napoli, infatti c’è una curiosa convergenza tra Dalisi che lavora sui materiali poveri, di riciclo, insomma sugli scarti, e uno dei problemi che in questi ultimi anni ha tormentato Napoli: lo smaltimento dei rifiuti.
In questo devo dire di aver trovato il pieno appoggio produttivo di Aurelio De Laurentiis, persona animata da autentica passione non solo per il Calcio Napoli ma per tutto ciò che riguarda la città, il quale mi ha lasciato, come si suol dire, carta bianca.

L’opera di Dalisi – che si manifesta in più campi: tra architettura, scultura, pittura, design, teatro ecc. – ha, secondo me, una notevole importanza storica, in quanto, oltre a riportare in auge nell’arte valori quali la spontaneità, l’innocenza e la semplicità, basandosi sulla riscoperta della manualità e dell’artigianato puro, restituisce all’artista il ruolo, troppo spesso dimenticato nei vari settori dell’arte contemporanea, del maestro di bottega della tradizione rinascimentale. A questo si allaccia un altro aspetto fondamentale nell’opera di Dalisi, cioè la sua attività, ormai quarantennale, nel campo dell’animazione con i bambini di quartiere, bambini poveri, spesso veri e propri “scugnizzi” (che lui d’altra parte considera “i suoi veri maestri”) senza alcuna educazione scolastica, ma eccellentemente avviati sulla strada della creatività in tema di architettura, moda e design.

Credo ci sia una cosa che emergerà da questa mia impresa e cioè che tra i tanti bambini che compariranno nel documentario colui che emerge con più forza è proprio Riccardo Dalisi, un uomo che, alla soglia degli 80 anni, ha conservato intatto il suo sguardo e il suo spirito ludico e infantile, una caratteristica comune ai più grandi creatori, e che ha fornito all’architetto e umorista Mario Marenco (altro personaggio, compagno di strada di Dalisi, del quale mi sono occupato nel documentario)  l’ispirazione per l’interpretazione del famoso Riccardino.

Antonello Matarazzo (Booklet “Latta e Cafè”, Filmauro HomeVideo, ottobre 2009)


IL CAOS E IL MOVIMENTO, due o tre cose su Latta e cafè, Dalisi e Matarazzo 

Imprevedibilità, partecipazione, riuso. Sono solo tre nozioni da cui si potrebbe partire per parlare dell’estetica di Riccardo Dalisi. Ma, accanto a una serie di concetti fondamentali intorno ai quali ruota l’immaginario dell’architetto-designer napoletano, ce n’è un altro che si è aggiunto di recente: il movimento. L’incontro tra Dalisi e Antonello Matarazzo – di cui chi scrive è stato testimone e intermediario nella veste di autore – ha prodotto un film singolare, Latta e cafè, con l’aggiunta del sottotitolo Riccardo Dalisi, Napoli e il teatro della decrescita, a sottolineare che non si tratta di un semplice portrait d’artista, ma di un lavoro dai contorni più vasti che prende in considerazione la cultura dell’arte povera e del riciclaggio, approfondendo il contesto sociale in cui Dalisi si muove da sempre.

Dall’interazione tra Dalisi e un artista che lavora da molti anni con il video come Matarazzo, è naturalmente scaturito un doppio scambio: da un lato l’arte di Dalisi, i suoi personaggi di latta, le sue sculture, i suoi modellini architettonici, i suoi schizzi, hanno acquistato movimento o, meglio, hanno espresso audiovisivamente la loro anima mobile; dall’altro Matarazzo, che ha plasmato il proprio immaginario sulla ri-creazione seminarrativa del reale, ma anche sull’osservazione dell’alterità umana (la serie di quadri sui freaks, i paraplegici protagonisti del video Miserere, ecc.) ha avuto la possibilità di rileggere l’opera poliforme di un altro creatore, inventando un nuovo format, tutto sommato ancora poco sviluppato in Italia, un genere in bilico tra documentazione e sperimentazione.

La stessa struttura adottata per Latta e cafè non è una struttura lineare, bensì caotica. Esattamente come caotico e non-lineare è il lavoro di Dalisi. Una scansione in capitoli sarebbe stata possibile ma probabilmente inutile. Ancora più inutile e difficile sarebbe stata una scansione cronologica. Raccontare per immagini la lunga e composita attività di un artista-architetto come Riccardo, richiede un’assoluta libertà di messa in scena. Ed è per questa ragione che Latta e cafè inizia in modo metafilmico, attraverso l’enunciazione di una struttura che sarà in gran parte disattesa dallo sviluppo del progetto. In questo senso quello che in parte è definibile un ritratto di Dalisi, rispecchia l’approccio e lo stile del soggetto stesso: Latta e cafè è un documentario “imprevedibile”, che tocca certi argomenti, si allontana, vi ritorna nuovamente, in un flusso schizofrenico riflesso dell’energia eclettica che informa l’estetica dalisiana. L’oggetto-principe dell’universo progettuale di Dalisi, ovvero la caffettiera, fa la sua comparsa nella prima parte del film per riapparire verso la fine: ed è solo un esempio di come nessun tema trattato da Matarazzo può essere concluso. Lo stesso vale per il rapporto tra Dalisi e i bambini.

Un’estetica quella di Dalisi che è anche cinetica. Ed è per questa ragione che Latta e cafènon fa altro che mettere in evidenza, fino all’esplosione, quanto ci sia di mobile nelle creazioni di Riccardo.

Movimento nell’accezione concettuale, secondo un’idea di sviluppo continuo delle teorie e le pratiche immaginative che si diffondono centrifugamente e che Dalisi condivide con gli artigiani, i bambini, la gente del rione Sanità, gli allievi e colleghi architetti che lavoravano ieri all’insegna delll’arte partecipata, oggi all’insegna di un’estetica della decrescita, attenta all’impatto dei materiali sull’ambiente.
Movimento in senso concreto: i suoi personaggi di latta, a cominciare da Totocchio, prendono vita in una dimensione audiovisuale, creando ballletti meccanici, sketch, micro-messe-in-scena in teatrini miniaturizzati che assomigliano molto ai teatri cinetici delle ombre cinesi. Le sagome di lamiera, le bizzarre creature di latta sedute, parcheggiate, allineate sugli scaffali polverosi dell’atelier Dalisi a Posillipo, compongono un infinito presepe metamorfico, profano, mitologico che lo sguardo di Matarazzo è capace di animare, inserendole in un impazzito fluire di immagini che, non necessariamente, si costituisce in una narrazione, pur alludendovi.

Il caos di una creazione in continua espansione, che si diffonde spesso e volentieri nello spazio pubblico, non solo partenopeo, assume – entro i bordi dell’inquadratura matarazziana – la forma e la forza di un’idea mai davvero afferrabile, registrabile, cristallizzabile. Ed è anche per questa ragione che lo stile sperimentale di Latta e cafèsembra l’unico plausibile da applicare al teatro instabile di Dalisi. L’artista Pistoletto, l’economista Latouche, il sacerdote da trincea Zanotelli non sono soltanto ospiti del documentario, ma compagni di ricerca, fiancheggiatori dell’architetto Dalisi e della sua idea di opera che acquista un senso solo all’interno di un contesto il quale ambisce a trasformare.

Il richiamo alla vanitas, alla morte, alla decadenza delle cose e delle persone che si avverte nella lunga sequenza girata al cimitero delle Fontanelle nei sotterranei di Napoli, oltre a riportare il “fare” e il “pensare” dalisiano nell’alveo di una tradizione estetica ancestrale, ci aiuta meglio a comprendere quanto la sua arte si muova sul crinale ambiguo di un vitalismo ludico pronto in qualsiasi momento a rovesciarsi in un rituale drammatico. Il Totò disarticolato e marionettistico si dissolve nel pulcinella funereo che ci ricorda la vacuità dell’esistenza ma anche quanto gli oggetti creati siano effimeri e, proprio per questo, riciclabili all’infinito. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

L’architettura – come dice Riccardo nel finale di Latta e cafè – non è quella reale o materiale, ma quella che ciascuno sente, che tutti noi ci portiamo dentro, come idea di uno spazio utopico e virtuale. Il “Partenone dell’anima” potrebbe intitolarsi quest’ultimo capitolo del film. E così Dalisi da filosofo dell’abitare ridiventa bambino quasi ottuagenario alle prese con le sue variopinte maschere di carta. E nel suo sguardo smarrito che cerca invano approvazione, c’è tutta la solitudine dell’artista, proprio come la domanda di Schifano («Si ma l’artista?») che resta senza risposta nel suo film Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani di fronte alla ideologizzazione esasperata dell’arte; o come il Pasolini allievo di Giotto del Decameron che, davanti al suo affresco appena terminato, si chiede se non sia meglio sognare un’opera piuttosto che realizzarla davvero. Due film quelli di Pasolini e Schifano che sono due riflessioni sull’arte, curiosamente realizzate nello stesso periodo: 1969-70.

E allora lo sguardo triste e innocente di Dalisi esprime proprio questo: il creatore resta comunque solo davanti alla propria opera, pur condividendola col mondo, perché solo lui ha in fondo le chiavi per accedervi.

Bruno Di Marino, (Booklet “Latta e Cafè”, Filmauro HomeVideo, ottobre 2009)


Aurelio De Laurentiis è stato premiato
, nella sala della Giunta Comunale, in occasione della proiezione del film “Latta e Cafè” prodotto da Aurelio e Luigi De Laurentiis e diretto da Antonello Matarazzo in collaborazione con Bruno Di Marino. Il documentario, protagonista al Festival Internazionale del Film di Roma, racconta del grande artista Riccardo Dalisi che realizza le sue opere d’arte sfruttando tutti materiali di riciclo possibili, affrontando il tema dei rapporti tra forme artistiche ed ambiente.

Presenti alla proiezione anche il Sindaco di Napoli Iervolino, che ha fatto gli onori di casa premiando anche il maestro Dalisi e il regista Antonello Matarazzo.

“Questo è un film d’amore – ha detto De Laurentiis – ancor prima che un Documentario. Quest’opera di Dalisi rappresenta non solo la napoletanità, ma l’universalità attraverso l’amore e l’umiltà. Questa è l’espressione della Napoli migliore è quella che vince nel mondo. Bisogna promuovere questa filosofia per ripartire. I napoletani vincono con la grande personalità”. (Red.)


LATTA E CAFÈ

Riccardo Dalisi, tra i maggiori designer italiani, è parte di una generazione di inventori e operatori culturali che hanno lavorato a Napoli segnando la scena urbanistica e naturale della città. Antonello Matarazzo, uno dei più interessanti artisti visuali contemporanei, capace di raffinate contrazioni visive, in collaborazione con Bruno Di Marino, studioso di cinema sperimentale, raccontano Dalisi e la sua torrenziale inventiva formale, che spazia dalle maschere alle sculture alle sedie, raccogliendo testimonianze di amici e colleghi: non c’è angolo di strada, o caffetteria o scuola di cui abbia disegnato le forme che non abiti lo spazio che occupa come se facesse parte del paesaggio da sempre.

Mario Sesti  (dal catalogo del IV Festival Internazionale del Film di Roma, Roma, ottobre 2009)


Dalisi in video. Quando l’arte è «Latta e cafè»

Un documentario davvero sui generis quello realizzato da Antonello Matarazzo e Bruno Di Marino. «Latta e cafè» con la forma della videointervista rende omaggio a un artista napoletano altrettanto sui generis: Riccardo Dalisi che ha spaziato dall’architettura alla scultura, dalla pittura al design, dal teatro all’animazione con i bambini di quartiere praticata negli anni ’60 – ’70. Una figura-chiave della cultura napoletana non omologata, un architetto e designer interessato sia alla produzione industriale che all’artigianato al quale ora Matarazzo, artista e video-maker, e Di Marino, critico e studioso di sperimentazione audiovisiva, hanno dedicato un video della durata di un’ora circa per rileggerne la modernità e la multiforme attività. Non è però un documentario canonico o un semplice ritratto d’artista come puntualizza Matarazzo: «L’idea di questo progetto nasce innanzitutto dall’ammirazione nei confronti di Dalisi. Ho pensato di rileggere creativamente la sua opera attraverso il video, uno strumento che pratico da una decina d’anni. «Latta e cafè» nasce dall’attrazione fatale di un artista per un altro artista. Ho sentito però l’esigenza di allargare il discorso anche al contesto, a Napoli, c’è una curiosa convergenza infatti tra Dalisi che lavora sui materiali poveri, di riciclo, e uno dei problemi che in questi ultimi anni ha tormentato la città: lo smaltimento dei rifiuti».
«L’opera di Dalisi – aggiunge Di Marino – ha una notevole importanza storica, in quanto, oltre a riportare in auge nell’arte valori quali la spontaneità, l’innocenza·e la semplicità, basandosi sulla riscoperta della manualità e dell’artigianato puro, restituisce all’artista il ruolo del maestro di bottega della tradizione rinascimentale». Dal documentario che alterna l’intervista vera e propria con brani di repertorio, immagini della città e dei bambini, emerge l’uomo e l’artista che alla soglia degli 80 anni conserva il suo sguardo lucido ma anche il suo spirito ludico e infantile. Per «Latta e cafè» i due autori hanno trovato il pieno appoggio produttivo di Aurelio De Laurentiis. Uno sponsor che poteva agevolare la partecipazione del film alla prossima Mostra del Cinema di Venezia. «Il nostro film – spiega Matarazzo – era piaciuto ai selezionatori di Venezia e, sia pure non ufficialmente, avevano comunicato a me e alla Filmauro l’intenzione di inserirlo in una delle sezioni competitive. Poi inspiegabilmente è stato rimesso tutto in discussione».

Alberto Castellano  (IL MATTINO – 31/07/2009)


Latta e Cafè: Le straordinarie intuizioni di un artigiano

Antonello Matarazzo firma un documentario sull’attività poliedrica di Riccardo Dalisi, un artigiano che utilizzando materiali di riciclo ha creato delle vere opere d’arte.

Una bella idea quella del regista Antonello Matarazzo che partendo dalla profonda ammirazione nei confronti di Riccardo Dalisi e del suo enorme contributo che ha dato alla città di Napoli, ha portato sul grande schermo l’attività del maestro lucano che nel 1981 ha anche vinto il prestigioso Compasso d’Oro per il design della caffettiera napoletana Alessi.
Latta e cafè, presentato al Festival del Cinema di Roma nella sezione L’altro Cinema – Extra, scorre per un’ora circa tra immagini delle opere realizzate dal Dalisi, interviste e testimonianze di coloro che hanno lavorato con lui o che hanno ‘vissuto’ da vicino l’affermarsi della sua arte.
Al di là della genialità nel realizzare opere d’arte partendo da materiali di scarto, il documentario mostra l’aspetto ludico, infantile (in senso positivo) di Dalisi, una caratteristica comune ai più grandi creatori e soprattutto l’immagine positiva della città di Napoli, dove sono sorte tante botteghe di artigiani che lavorano i materiali di riciclo.
C’è una voluta convergenza tra Dalisi che lavora gli scarti e uno dei problemi che in questi ultimi anni ha tormentato la città partenopea: lo smaltimento dei rifiuti.
Un documentario affascinante, prodotto dalla Filmauro, che evidenzia la grandezza dell’artista potentino che ha dato vita a laboratori di strada coinvolgendo bambini e ragazzi, che avevano abbandonato gli studi, avvicinandoli al mondo dell’architettura, del design e della moda. Un impegno forte in una realtà difficile.

Giovanni Bonaccolta  (film.35mm.it – 16/10 09)


Matarazzo in gara. Con Dalisi nella Napoli del riciclo

Riccardo Dalisi, settantotto anni, è un artista e designer (sua la caffettiera Alessi) che vive e lavora a Napoli e i cui lavori sono presenti in numerose collezioni private e nei maggiori musei internazionali. Il suo stile lo porta a spaziare dal mitico al sacro, servendosi di materiali poveri (latta, ferro, rame, ottone, cartone). Antonello Matarazzo, quarantasette anni, è pittore, regista e videoartista e ha cominciato la sua attività come costumista al teatro Bellini di Catania, prima di lanciarsi, dal 1990, nel campo delle arti visive. «Latta e cafè», è il docufilm di Matarazzo prodotto da Aurelio e Luigi De Laurentiis, in cui si racconta l’incontro tra queste due visioni artistiche solo apparentemente lontane e che sarà presentato oggi in anteprima nella sezione «L’Altro Cinema – Extra» del Festival di Roma, in collaborazione con «Occhio sul Mondo». Matarazzo, dopo videoinstallazioni e cortometraggi questo, con 63 minuti di durata, è il suo primo «film» vero e proprio. Ce ne racconta la genesi? «Il progetto è nato per due casualità diverse: anni fa Aurelio De Laurentiis mi chiese se volessi realizzare un film che desse una visione ”positiva” di Napoli. Allora però m’interessava solo la videoarte, l’idea era troppo lontana da me. Poi un gallerista di Benevento ha chiesto a me e Riccardo di fare una mostra insieme, per contrapporre la sua ”arte povera” alla mia visione ”tecnologica”, siamo diventati amici e il mio contributo alla mostra è stato un video breve sul lavoro di Riccardo. Da allora è iniziata a maturare la voglia di un lavoro a più ampio respiro, che rispondeva all’originaria richiesta». Cosa pensa di Dalisi? «C’è una curiosa convergenza tra il fatto che lui lavori sui materiali poveri, di riciclo, insomma sugli scarti, e quello che è stato uno dei problemi che in questi anni ha tormentato la città: lo smaltimento dei rifiuti. Sono certo che una cosa emergerà dal film: tra i tanti bambini che compaiono nel documentario, quello che spicca con più forza di tutti è proprio Riccardo Dalisi, un uomo che alla soglia degli ottant’anni ha conservato intatti il suo sguardo ludico e il suo spirito infantile, una caratteristica comune ai più grandi creatori e che ha fornito all’architetto e umorista Mario Marenco (altro personaggio compagno di strada di Dalisi che appare nel documentario), l’ispirazione per interpretare il famoso Riccardino di ”Indietro tutta”». […]

Oscar Cosulich  (IL MATTINO – 20/10/09)


Matarazzo nell’officina dei sogni

Latta e cafè, l’omaggio a Dalisi oggi al Festival del Film di Roma

Più che un film o un mediometraggio, «Latta e Cafè» di Antonello Matarazzo è un viaggio in un mondo dove fantasia e poesia, arte e materiali impensabili, gioventù e vecchiaia, semplicità e complessità di pensiero si uniscono, si mescolano. Insieme sono capaci di dare vita a un racconto pieno di colori, vivacità e curiosità. Al centro di tutto c’è Riccardo Dalisi, giovane vecchio. Architetto e in seguito uno dei più grandi designer in campo internazionale, vincitore del «Compasso d’Oro» nel 1981 per una versione della classica caffettiera napoletana e fondatore della «Global Tools», contro scuola di architettura e design. Ma Dalisi non è soltanto questo. È un artigiano intelligente e controcorrente, un artista capace di rendere una lavagna grigia una sorta di quadro animato, solo con alcuni gessetti colorati. Oppure un pezzo di rame un albero dei poveri, o una casa popolare una torre con tratti fiabeschi, come quella che ha progettato a Ponticelli. «Latta e Cafè. Riccardo Dalisi e il teatro della decrescita», è il titolo completo dell’opera di Antonello Matarazzo. Prodotta da Aurelio e Luigi De Laurentiis, sarà presentata oggi in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione «L’Altro Cinema-Extra» (alle 22,30 nella Sala Teatro Studio) e giovedì all’interno de Focus «Occhio sul Mondo» (alle 20,30 a Villa Medici). L’artista avellinese, noto per essere anche un pittore e videoartista, presente all’ultima Biennale di Venezia, ne ha curato la regia, la fotografia, il montaggio e l’animazione. La sceneggiatura invece è stata scritta insieme a Bruno Di Marino, talentuoso studioso dell’immagine in movimento. Tra qualche mese sarà anche trasmesso su Sky. Ma l’etichetta di documentario non piace a Matarazzo, che al progetto ha lavorato per più di un anno. […]

Titti Festa  (IL MATTINO – 20/10/09)


LATTA E CAFÈ, Dalisi, un eco-artista di 78 anni

E’ un anziano signore dall’anima di bimbo, quello che ha attraversato il red carpet. Un signore di 78 anni, vispo come un fanciullo e protagonista di Latta e cafè, il docu-film diretto da Antonello Matarazzo e prodotto da Aurelio e Luigi De Laurentiis, in concorso per il Marc’Aurelio D’Argento nella sezione ‘’Extra’’. A Riccardo Dalisi, designer ambientalista ante litteram e precursore del filone ecologista con la sua teoria della decrescita, Matarazzo ha voluto dedicare questo tributo cinematografico che, con il sostegno dei De Laurentiis, si è trasformato anche in un omaggio a Napoli. «L’idea nasce dall’ammirazione per Dalisi – spiega Matarazzo – un personaggio fuori dalle righe ai tempi d’oggi, ma dentro quelle del passato e del futuro. Ma Dalisi e la sua opera non possono prescindere da Napoli». Dalisi è uno dei precursori del famoso filone dell’Arte Povera, uno dei primi ad assemblare insieme materiali di scarto dalla latta alla carta, dalla ceramica al vetro, al legno e alla stoffa trasformandoli in opere d’arte. Nel film sono in molti a raccontarlo, da Gillo Dorfles a Michelangelo Pistoletto fino a Mario Marenco che a lui si è ispirato per il famoso Riccardino dello show tv Avanti tutta.. «La sua vita è il suo lavoro però non sono semplicemente raccontati – aggiunge Matarazzo – siamo partiti da un confronto dei nostri linguaggi artistici completamente contrapposti. Alla fine abbiamo realizzato un lavoro su di lui che include molta videoarte, animazione delle sue sculture, sofisticazione delle immagini, tipiche del mio linguaggio cinematografico»

Maria Grazia Filippi  (IL MESSAGGERO – 21/10/09)


Caffettiere animate nel teatrino di Dalisi. 

CAFFETTIERE si animano prendendo le sembianze di Totò nel teatrino della decrescita. Sono le opere di Riccardo Dalisi, l’ artista che ha fatto dei materiali di scarto l’ occasione per forgiare la sua creatività e recuperare le infanzie cresciute nel degrado. All’ architetto-designer il regista irpino Antonello Matarazzo ha dedicato il film “Latta e cafè – Riccardo Dalisi, Napoli e il teatro della decrescita”, prodotto da Aurelio e Luigi De Laurentiis, distribuito da Filmauro che uscirà prossimamente in dvd. Il mediometraggio restituisce alla città la storia di un personaggio che ha sempre messo al servizio degli altri la sua arte. Nel film si vedono le immagini del laboratorio creativo che Dalisi nel 1973 organizzò per i bambini del Rione Traiano di Napoli. Luoghi immutati che raccontano l’ impegno di un uomo per insegnare ai bambini di periferia a realizzare veri oggetti di design, oggi conservati al Museo della Triennale di Milano. L’ impegno sociale è proseguito con gli anziani a Ponticelli nel 1977 ed è arrivato al rione Sanità con il laboratorio “Progettazione e compassione”. Dalisi è un artista che riesce a coniugare il lavoro artigianale a quello per grandi aziende. Grazie alla collaborazione con le industrie ha vinto il Campasso d’ Oro nel 1981: celebre oramai è diventata la sua caffettiera, marchio Alessi. Il documentario di sperimentazione firmato da Matarazzo che racconta la quotidianeità dell’ artista lucano di nascita, ma napoletano d’ adozione, è poetico e visionario e si conclude con una critica al sistema di sovrapproduzione di rifiuti. E la decrescita è la risposta, condensata dal discorso che l’ antropologo economista francese Serge Latouche tenne l’ anno scorso per il Premio Napoli al cimitero delle Fontanelle. «Sono un prestigiatore forse?» si chiede nel docufilm Dalisi illustrando la sua arte e trasformandosi in interprete delle sue maschere di latta tra un lavoro e un disegno nel suo atelier “Big ben”. Definito vulcanico dal sindaco Iervolino ieri durante la presentazione ieri al Comune di Napoli: Dalisia passeggio trai luoghi che l’ hanno ispirato, le periferie, il lungomare, il rione Sanità e in via Rua Catalana, diventato il suo piccolo universo costruito anno dopo anno in collaborazione con le botteghe dei lattonai e ramaioli. «Nel concepire il film – spiega il regista – ho cercato di reinterpretare il caos primordiale che si respira nel lavoro di Dalisi, un lavoro ancora più bello perché spesso senza progettualità. Ho cercato di creare un ritmo “sgangherato”, ma amabile, da orchestrine rom, e di far parlare le opere di Dalisi. Le ho animate, con un genere di effetti, riprese a “passo uno”, adoperato per i cartoni animati facendo in modo che le opere stesse parlassero di se stesse. Le opere diventano degli attori». Tra gli interventi nel film ci sono quello di Benedetto Gravagnuolo e Mario Marenco che con Dalisi ha frequentato l’ università di Architettura a Napoli. Il regista Matarazzo girerà presto un lungometraggio “low budget” prodotto da De Laurentiis. Un thriller psicologico con Asia Argento protagonista, ambientato in provincia di Benevento.

Ilaria Urbani  (LA REPUBBLICA – 12/10/09)

Partendo dall’estetica affrontata da Matarazzo in diversi altri video, quella perturbante dell’immagine fissa che si anima, che prende vita sbloccando l’istante congelato della scrittura fotografica e incarnando quel punctum di cui parla Barthes, VeraZnunt è in questo senso uno dei lavori più esemplari dell’artista avellinese. Punto di partenza è la fotografia di alcuni bambini armeni, la tipica posa della classe scolastica riunita a fine anno; ma dopo aver esplorato la superficie, lo zoom virtuale penetra dentro l’immagine, la vivifica, la fa rinascere (“veraznunt” significa, appunto, “rinascita”), trasformando la storia in natura, la memoria del passato in riflessione sul presente. Il genocidio degli armeni ritorna attraverso i ricordi di un anziano uomo, a loro volta tramandati da chi ha realmente vissuto quella pagina dolorosa della nostra storia, relativamente recente. Quella memoria si fa scrittura, che invade lo schermo e che si intarsia graficamente con i corpi e con i volti. Quella memoria si fa architettura, movimento, battito. Matarazzo nell’arco dei pochi minuti di VeraZnunt, riesce a cogliere il respiro del tempo, l’ombra di una catastrofe non ancora riconosciuta, di una ferita non ancora rimarginata. Ma nel mantra visivo/sonoro non c’è solo dolore, anche la consapevolezza di un eterno ritorno, che ammonisce. Sono i soggetti ritratti nella foto che ci guardano e ci riguardano. Pur essendo lontani da noi nello spazio e nel tempo. VeraZnunt è l’apologo del non visibile, dell’irrappresentabile, se non attraverso traccia, un’impronta di luce che rimane tuttavia indelebile negli occhi e nell’anima e, come ci spiega Barthes ne La camera chiara, ci punge. Fino a farci sanguinare.

Bruno Di Marino, 2008 


R
iprendendo la tua ricerca applicata alle fotografie di archivio, questa volta, mi pare che il tuo lavoro vada molto oltre il momento precedente allo scatto tecnologico che ipnotizza i protagonisti della foto.

Non solo il lavoro di studio che hai realizzato è eccellente, ti ha permesso di approfondire la storia di un popolo sconosciuto ancora per molti, ti ha dato la possibilità di interpretare con criterio adeguato e profondo la vera natura degli armeni, ma anche la tua elaborazione dei dati è di fine genialità, tenendo in conto che il tuo racconto si svolge in pochissimo tempo.

Una fotografia di eccezione per dimensioni e tematica, penso che ti sia risultata ottima per capire al meglio le tipologie antropomorfiche che ti preoccupano e ti stimolano per scavare nella identità umana, tanto meglio l’ambientazione corale che offre l’immagine… in questo caso non si tratta di una mutazione genetica o diversità fisica, ma una identità di gruppo, inteso come etnia, credo e cultura.

La tua giusta moderazione nella segnalazione degli eventi violenti e tragici di un genocidio, attraverso le macchie rosse che lasciano le scritte in scia, parlano di un animo riparatore, che corrisponde alla visione positivista sul futuro di pace tra i popoli. Superare senza dimenticare, dare valore alle fondamenta, guardare le verità indiscutibili e non perdere la caratteristica più genuina che è la propria cultura, le proprie radici. Questo è ampiamente rinforzato dal tuo cenno di brezza che accarezza il prato nascente dopo un inverno gelido, la vita era quasi in letargo. Un prato che rinverdisce è la più bella metafora per un popolo che riacquisisce la speranza di una pace davanti agli ultimi eventi di riavvicinamento ufficiale del mese scorso grazie allo sport (la partita di calcio in Armenia tra turchi e armeni). La delicatezza che hai nel trattare il genocidio armeno concorda con il nostro animo di guardare verso un futuro più dolce e promettente, di crescita e partecipazione nel mondo.

La buona scelta di lasciare in risalto la grafia armena, bella e rara, rinforza senza ripetere il senso di unicità e di tradizione. La tua arte fiorisce nello slaccio del racconto, che è anticipato dalla luce che si avvicina quasi a modo di speranza nell’orizzonte… una “posa infinita”, cioè la foto d’archivio con inverosimile animazione, questa volta oserei dire in versione completa per forma e contenuto. Questo lavoro rappresenta bene il popolo armeno che ha dovuto affrontare persecuzioni, massacri e deportazioni, cancellazione dell’identità, ma che mantiene sempre la volontà di perdurabilità, di sopravvivenza, quasi in forma ciclica, come una ripetizione nel tempo, come un lamento senza sosta. Questi sono elementi che esponi con chiarezza e che mi sembrano molto fedeli alla realtà. Rinascita, ri-nascita, un nome giusto, per il momento storico che attraversa la nazione armena, eccellentemente supportato dall’animazione che hai realizzato sulla fotografia antica, dove fai risaltare con estro un atteggiamento, un’attitudine e la dignità che si riconosce in queste persone. La presentazione del video in diverse lingue, fa riferimento in modo molto sottile e pacato alla caratteristica di popolo poliglotta che oggi è la diaspora armena dispersa nel mondo. La voce armena di accento straniero, la scritta in armeno imperfetto danno un tono ancora più realistico alle storie che narra il testimone del video. Storie vere che sono i ricordi dell’ultima generazione di superstiti del genocidio armeno.

Il velo in posa sulla fotografia iniziale, richiamando il pudore che caratterizza questo popolo, cosi come la preghiera o i canti che parlano della profonda spiritualità, sono elementi che hai saputo estendere generosamente e senza paura…

(messaggio di Maria Ines Abramian, figlia di Pascual AvedÏs Abramian, voce narrante di VeraZnunt (la rinascita), Olbia 2008) 

Come in altri suoi video (WahrLa Camera Chiara) anche nell’installazione La posa infinita Matarazzo lavora sul ritratto fotografico di archivio. Il lavoro è composto da un trittico che potrebbe ricordare un po’ le pale d’altare quattro-cinquecentesche, con una scena centrale di gruppo e i ritratti a figura intera dei santi. In questo caso si tratta naturalmente di soggetti “profani”, popolani del sud Italia che provengono dall’archivio Dorso di Avelllino e che proseguono non tanto una ricerca di carattere antropologico che l’artista ha intrapreso da diversi anni, quanto uno studio sulla fisiognomica e sull’evoluzione dei caratteri, delle tipologie antropomorfe. In questo senso più che riferirsi ad Ernesto De Martino, l’iconologia matarazziana trova una sponda piuttosto in Lombroso, cosa evidente anche in altre sue serie pittoriche del passato, come quella dei Freaks.

Anche in questo caso Matarazzo utilizza il morphing non per ottenere delle macrotrasformazioni come negli altri suoi lavori video, bensì per muovere, animare, in alcuni casi quasi impercettibilmente, alcuni elementi all’interno della foto: un bambino che muove i piedi, un uomo che volta leggermente la testa, la smorfia di una donna, ecc. La posa infinita mette ancora una volta in scena lo scarto tra mobile/immobile che emerge dall’interfaccia cinema/fotografia, sotto le sembianze di un antico portrait di gruppo nel quale le figure immortalate riacquistano vita artificialmente mediante movimenti minimi e un suono ambientale che restituiscono all’immagine cristallizzata nel tempo, la sensazione di uno svolgimento “in diretta”. Ma il senso del lavoro sta proprio in questo attimo dilatato all’infinito rappresentato dall’attesa prima dello scatto. Il momento in cui il soggetto resta fermo, immobile per permettere – una volta ancora più di oggi – il tempo lungo dell’esposizione e dello scatto finale. Ecco l’abisso tra il mobile e l’immobile, la fotografia e il video. In questa sospensione, in questa attesa infinita, in questo macroscopico scarto temporale, l’osservatore affoga, si blocca anche lui a guardare i soggetti congelati. E’ quasi come se la foto non si fosse ancora materializzata, come se l’artista – pur mettendo in scena un’immagine, una rappresentazione – ci mostrasse qualcosa che viene prima di qualsiasi immagine e di qualsiasi rappresentazione possibile. In questo senso il “tempo morto” della posa rende ancora più realistico lo stile dell’installazione, poiché lo avvicina alla vita reale.

D’altro canto l’osservatore ha tutto il tempo per lasciarsi angosciare e inquietare da questi corpi e volti del passato, molti dei quali non esistono più, non sono in vita. E quindi di soffermarsi sui movimenti, altrettanto inquietanti, prodotti da questi fantasmi. Il realismo della fotografia ripensato e rielaborato attraverso una serie di movimenti impossibili del video e del morphing, rende La posa infinita, così come altri video di Matarazzo, qualcosa di totalmente onirico, una visione carica di tempo e di memoria, in cui la presunta allegria di un momento particolare, di festa, il mettersi in posa con il vestito buono, si rovescia nella disperata attesa di qualcos’altro. Probabilmente della propria morte.

Bruno Di Marino  (dal catalogo Milano Doc Festival 2007, ed. Doc Fest, Roma 2007) 

“10 SECONDI” 
Tra i segreti del lavoro di Antonello Matarazzo. Ecco gli effetti speciali dell’artista videomaker

È 10 secondi il titolo della complessa installazione site specific dell’artista avellinese Antonello Matarazzo, in corso nella Home Gallery di Changing Role, la galleria di Guido Cabib (via Foria 106, fino al 15 luglio). Autore di alcuni video di rara bellezza e toccante emotività: “La Camera Chiara” (2003), dedicata al desiderio di costruire una storia degli sguardi di Roland Barthes, e “Warh” (2003), un insiéme di immagini e riprese di guerra con flash della caduta delle Twin Towers di New York. “10 secondi” è un film nel film, l’insieme di dieci tele dipinte ad aerografo e di altrettante sequenze video, che ritraggono sempre lo stesso personaggio, un disabile, entrambe tratte da un precedente lavoro, “Miserere” (2005). Si tratta di un cortometraggio vincitore di più premi e menzioni, girato con un gruppo di portatori di handicap nell’ex Italsider di Bagnoli e tra le pale eoliche di Lacedonia, in Irpinia. Lo spazio della galleria diventa un unico grande schermo da cui è possibile vedere, sentire e percepire più cose simultaneamente: grandi tele realizzate con l’aerografo, frutto di un virtuosismo più pittorico che fotografico, vengono illuminate da luci volutamente basse e dirette, una videoproiezione su di un telone trasparente creano un effetto morphing (l’equivalente della lente anamorfica barocca) reale sul protagonista di tutta l’installazione, che in una sorta di performance muta e solitaria – solo durante l’inaugurazione – se ne sta seduto sulla sedia a rotelle a sfogliare un vecchio album di famiglia, mentre la voce di Giorgio Gaber recita alcune frasi tratte da un suo racconto “Il babbo, il gatto e l’albero”. «Sono dieci secondi della vita di un “diversamente abile”, in cui il mirino della telecamera e il quadrato della tela possono focalizzare solo una parte infinitesimale del mondo», spiega l’artista. “10 secondi” è un fotogramma di vita dall’effetto moltiplicatore, in cui il dolore è un sentimento “sublime” dal valore estetico. Dal trattato “Del Sublime” dello Pseudo-Longino fino a Boileau Burke e Kant, ci si continua a chiedere ancora oggi come sia possibile che un’opera d’arte carica di dolore procuri “diletto”. “Il sublime – scrive Longino – è l’eco di un alto sentire”.

Renata Caragliano  (LA REPUBBLICA – 17/05/06)


Il pittore e videomaker Antonello Matarazzo indaga sul tema della disabilità 

Se la differenza è uguale per tutti

Pittore e videomaker, attivo nel solco del Medialismo tracciato da Gabriele Perretta, Antonello Matarazzo (nella foto) è artista di obiettivi aperti e larghi orizzonti. Anche quando l’area della location resta circoscritta ad una manciata di metri, anche quando lo zoom si concentra su un unico particolare e la camera si ostina a fissare un solo soggetto. come avviene nella mostra visitabile fino al 15 luglio nella Changing Role Home Gallery di via Foria, altro satellite della “galassia Cabib” nelle cui stanze, fascinose testimoni della sbreccata albagia dell’anciene-régime partenopeo, è impaginato un progetto unitario, articolato in diverse forme espressive: la sequenza 10 secondi e 10 acrilici ad aerograto. Dipinti contraddistinti da iperrealismo quasi maniacale, che finisce (con un probabile concorso di colpa” della bombetta alla Magritte) col conferire un’aura surreale al volto ripetutamente ritratto, sul quale si stendono, come una ragnatela di luce variopinta, i fotogrammi della proiezione.

Un gruppo di tele quasi staccatosi per gemmazione dal filmato mandato in loop sullo schermo trasparente, membrana tra i due ambienti espositivi, separatore volutamente inefficace e, al contempo, robusto trait d’union tra le varie componenti del lavoro.
Il tessuto leggerissimo lascia infatti intravedere una carrozzina e un cappello, oggetti che documentano la performance della serata inaugurale, nella quale il disabile protagonista e modello del video diventava una sorta di tableau vivant. Un interesse per l’handicap, quello di Matarazzo, alieno da denunce o patetismi, incline piuttosto a farsi pretesto estetico non tanto per indagare sociologicamente sul “diverso”, quanto per delineare metaforicamente il ritratto globale di una problematica contemporaneità.

Da non perdere allora “Miserere”, opera presentata lo scorso anno alla 62ma Mostra del Cinema di Venezia, nella quale le architetture dismesse dell’ex Italsider diventano quasi un correlativo oggettivo della condizione di questi “freaks” metropolitani. Musiche, testi e fotografia di grande efficacia e bellezza, solido e antiretorico l’impianto, in cui confluiscono storie “cattive” di vita vissuta, frammenti d’una poesia crudele, tagliente, pura.

Anita Pepe  (ROMA – 28/05/06)


Antonello Matarazzo 

Medialismo e morphing sono rispettivamente il tipo di ricerca estetica e la tecnica di cui Antonello Matarazzo si avvale nel ruolo di videomaker, al quale accosta quello di pittore. Nello spazio di via Foria a Napoli maggiormente dedicato alla sperimentazione della Galleria Changing Role e spesso residenza degli stessi artisti che vi espongono – la Mostra 10 secondi punta su linguaggi e forme diversi accostati per una reciproca valorizzazione e per una sorta: di “interdisciplinarietà” tecnica sugli argomenti trattati. Fotografia, pittura e video si fondono dimentichi delle distanze mediatiche che li separano: quello che conta nei medio e cortometraggi di Matarazzo, sempre orientati alla ricerca del non-comune e dell’anomalia – che spesso sfocia in un’estetica del deforme – è l’idea protagonista espressa con immagini ambigue e dai contorni velati, dotate del cosiddetto punctum – secondo la definizione di Roland Barthes neI saggio “La camera chiara” – ossia da un particolare «che punge», volto a catturare l’attenzione del fruitore.

“10 secondi” è il cortometraggio che prende vita dal più ampio Progetto video del videoartista, “Miserere”, vincitore del 1° Premio Nuovi Linguaggi all’Art Doc Fest di Palazzo Venezia a Roma e presentato alla 62esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il medio metraggio era ambientato nell’ex-complesso industriale Italsider di Bagnoli, “aborto” reale e metaforico – piani che tendono a sovrapporsi nell’opera dell’artista – del processo di riqualificazione urbana e tecnologica concepita per Napoli, e popolato nel video da una serie di disabili, metafora del difettoso funzionamento umano e al tempo stesso dello spazio che occupano. Il lavoro inaugurato a maggio nella Home Gallery di Changing Role ritrae invece in forma filmica e dipinta – come fermi immagine o singoli frames volti a rimarcare il messaggio – la figura di un portatore di handicap fisico come simbolo della condizione umana.

Fuani Marino  (SEGNO – anno XXXII N° 209, lug/ott 2006)

Il Morphing dell’anima  PDF pg.178

Nel vedere per la prima volta i video di Antonello Matarazzo, magari dopo aver visitato una sua mostra di quadri, si rimane colpiti dal fatto che in lui le due attività – quella di pittore e quella di videoartista o videomaker – rimangono piuttosto separate, distinte. I suoi film (film, non video, come lui giustamente li chiama nei titoli di testa), almeno a un primo impatto, non sono necessariamente legati alla ricerca pittorica. Ad eccezione forse di The Fable (2000), La camera chiara (2003) e Warh (2003), che costituiscono una sorta di trittico, in cui l’interferenza tra immagine fissa (fotografica), la sua rielaborazione (pittorica) e la messa in movimento (filmica), diventano il fulcro intorno al quale ruota un pensiero sulla memoria (immobile/immutabile) del passato e sulla visione (in fieri e instabile) del presente. Sono per inciso lavori che si prestano, a differenza di altri, sostenuti da una struttura maggiormente narrativa, ad essere fruiti anche sotto forma di installazione.
La camera chiara – che approfondisce il discorso iniziato con The Fable – è una sintetica “storia degli sguardi” ricavata dalle foto del Centro Guido Dorso di Avellino. Barthes, nell’omonimo saggio, dedica molte pagine al fatto che la fotografia consente ciò che il cinema proibisce: guardare in macchina, riflettendo poi sul suo infondere una coscienza non dell’esserci della cosa, ma dell’esserci stato.

Matarazzo sembra lavorare proprio su questo concetto, rendendolo però ambiguo, sfumato, poiché – a differenza dello scarto che Barthes ritiene ci sia tra cinema e fotografia – oggi, nell’era del digitale, il tempo del video e quello della fotografia finiscono col coincidere, grazie per esempio al morphing, che plasma la materia elettronica come fosse una scultura, permettendo di trasformare un volto fotografico in un altro, in modo da suggerire una continuità anche somatica, a volte genealogica, antropologica dei volti. Ma il morphing non è solo un procedimento tecnico, è anche la materializzazione visiva di una metonimia: nel finale di Miserere, ad esempio, la trasformazione dell’uomo in una bambina che ride è un ritorno alla purezza primigenia.

Matarazzo sceglie di isolare alcune figure (in gran parte bambini) all’interno dei ritratti fotografici, di rielaborarle cromaticamente o luministicamente, rendendo non solo ancora più ectoplasmatiche le figure, ma creando un gioco di infinite combinazioni. Ed è qui che emerge senza dubbio la sua natura di pittore, non tanto perché si confronta con l’immagine fissa piuttosto che con quella in movimento, ma proprio per la sensibilità, per la possibilità di dare un senso narrativo solo attraverso la texture, la trasfigurazione verso l’astratto. Warh estremizza ancor di più il discorso e il contrasto tra posa e movimento. Ai ritratti fotografici in primo piano trasformati dal morphing, vengono aggiunte come sfondo, sequenze solarizzate di guerra: i bombardamenti notturni su Bagdad, mig che sfrecciano nel cielo, le drammatiche immagini dell’11 settembre (che occupano tutta la parte finale del video), scandite di tanto in tanto da un fiore di Warhol (da qui il gioco di parole del titolo) che funziona da contrappunto e rafforza l’idea di collisione tra immaginari che sembrano lontanissimi: l’esserci stato e l’essere, l’arte e la guerra; così il tema non è tanto la memoria del conflitto, quanto i conflitti (visivi, mentali, percettivi) generati dalla memoria, dalle immagini video-foto-pittoriche che entrano in un infinito cortocircuito.

I lavori di Matarazzo sono indissolubilmente legati al territorio in cui l’artista vive: l’Irpinia. C’è un forte sentimento di appartenenza a un luogo e al tempo stesso la capacità di descriverli, di rappresentarli con un distacco ironico, con uno sguardo marziano. L’Irpinia vista dalla luna, insomma. Lo strano visitatore di Apice (2004), rappresentante di commercio o alieno sotto vesti umane, che ripiomba in questo paesino del beneventano totalmente abbandonato (forse per via del terremoto), è il muto testimone di una realtà molto italiana, fatta da migliaia di piccoli borghi antichi desertificati perché gli abitanti hanno preferito andare ad abitare in orrende case di osceni paesi ricostruiti ex-novo a valle. Ma è anche il protagonista di un quadro metafisico, di uno spazio irreale e carico di atmosfere e di sospensioni. L’Italia del Sud, dove Matarazzo vive e lavora, è piena di questi paradossi urbanistici, di questi scarti esistenziali. Naturalmente il livello “sociologico” passa in secondo piano, l’attraversamento del borgo fantasma – che sembra, incredibilmente, sia stato abbandonato appena il giorno prima – serve all’artista per rimarcare un’estetica dello svuotamento (esteriore ed interiore, che tocca la nostra coscienza collettiva). Il set “naturale” a sua completa disposizione, come un intero villaggio western, gli serve ad aggiungere un altro tassello al suo “surrealismo irpino”.

Come per esempio in Mi chiamo Sabino (2001), ritratto di filosofo pazzo o meglio di pazzo filosofo, che parla a ruota libera per le strade di Avellino. Lo sguardo di Matarazzo alterna alla camera a mano freezata che segue nervosamente e ossessivamente questo strano personaggio con il basco, la panoramica della città vista dall’alto, immersa in un silenzio bucolico e assurdo. Il contrasto formale tra la parola non-lineare e caotica di Sabino e la rassicurante veduta della città è netto. Ma il significato del video è forse più profondo, ed è nel labile confine tra natura e civiltà: Avellino è una strana città (e neanche tanto piccola), totalmente circondata dal verde; così, a pochi metri dal corso principale, ci si ritrova improvvisamente in mezzo alla campagna. Allo stesso modo è molto esiguo lo scarto tra normalità e follia, razionale e irrazionale.

Lo sfondo principale in cui è ambientato Miserere è il paesaggio di archeologia industriale di Bagnoli, il porto con le enormi gru, le colline di Lacedonia dominate dalle moderne e asettiche silhouette delle pale eoliche. I personaggi che si aggirano in questo spazio tanto “vissuto” e consunto – dove il tempo insieme alla salsedine si è raggrumato, incrostato –, quanto irreale e lunare, sono uomini e donne in sedia a rotelle, che si muovono inquieti ma non rassegnati. Intorno a loro non c’è solo un senso di desolazione, quanto un’indefinita atmosfera di sospensione e di attesa, per qualcosa che non accadrà. Intorno c’è il mare, il vento, la terra, il fuoco (interiore), il sangue, la sofferenza, ma anche il piscio, la fame, la saliva, la schifezza evocata nelle parole di una lenta ballata, dalla musica, dal ritmo su cui è costruito tutto il video. Miserere è un’apologia della disperazione muta (nessuno di questi personaggi parla) e al tempo stesso gridata attraverso un canto antico, ancestrale. Le didascalie finali che ci raccontano le storie di questi personaggi, ne certificano la loro autenticità di persone, distinguendole dagli attori, e quindi aggiungono – insieme alla processione del Venerdì Santo di Guardia Sanframondi, ripresa in un bianco e nero sgranato – un valore “documentario” al video, in cui la sofferenza reale è trasfigurata con una capacità visionaria e al tempo stesso asciutta, calibrata, che ne fa uno dei lavori più intensi ed efficaci di tutta l’estetica matarazziana.

Se la versione più breve (Miserere cantus) è una sorta di trailer di Miserere, o meglio di vero e proprio “videoclip”, in cui la musica di Canio Loguercio copre tutto il visivo e non vi sono più pause, vuoti sonori, A Sua immagine può essere considerata un’appendice di quello stesso video e ne approfondisce la significativa frase finale: «dedicato a tutti coloro che non possono affermare con certezza che Dio esiste». I personaggi sono gli stessi di Miserere, l’ambientazione anche, così il gesto di battersi il petto da parte dei disabili sulla sedia a rotelle, replica il gesto dei “vattienti” in processione: è la preghiera rivolta a una eventuale divinità da parte di chi attende un miracolo, una improvvisa guarigione? O è un’invocazione verso colui che li ha dimenticati, che non è stato generoso nei loro confronti? O ancora: è un rituale meccanico, svuotato di senso e anche un po’ sarcastico nei confronti di una religione, quella cattolica, basata sul sacrificio e sulla sofferenza dei singoli? Le interferenze (tele)visive che disturbano la scena e lasciano affiorare in superficie il “papa buono”, possono essere lette come uno squarcio, un passaggio dal terreno al divino, appunto, a sottolineare una discrepanza, un contrasto tra quello che dovrebbe essere un dio giusto e misericordioso – perlomeno nel nostro immaginario rassicurante – e quello che si rivela effettivamente nella realtà di ogni giorno. Ma c’è un’ulteriore, possibile interpretazione di A sua immagine che lo renderebbe più surreale e meno polemico: ovverosia che il Padreterno è un paralitico e che quindi i disabili in carrozzina sono i suoi seguaci.

Ciò che sorprende nell’immaginario video di Matarazzo è che forse è l’unico artista italiano – attenzione non “videoartista”! – che sa davvero usare il video, sia dal punto di vista estetico che tecnico, di linguaggio filmico. A parte i tagli di inquadrature, la bravura nel comporre le immagini, tutte di forte impatto visivo – e questo è tutto sommato normale per un pittore come lui – Matarazzo ha una sensibilità squisitamente cinematografica, per il ritmo, il montaggio (Apice è esemplificativo non solo della sua cifra stilistica, ma anche della sua abilità di montatore, e così anche En plain air), per gli effetti sonori, per la costruzione complessiva dei suoi lavori. Inoltre riesce perfettamente a combinare insieme l’elemento sperimentale, quello narrativo e quello documentaristico (o anche documentativo, nel senso di utilizzo del materiale d’archivio), proprio grazie alla capacità di manipolazione info-grafica, che non si risolve tanto nella gamma di effetti speciali offerta dai software di post-produzione, ma in una consapevolezza visiva e in un’abilità tecnica propria di chi conosce la pittura e il dispositivo artistico in senso universale.

Bruno Di Marino  (dal catalogo 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ed. Fond. Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2006)

Passeggiate nel Cinema
Europa, Americhe, Asia: otto giorni tra lo sperimentale e lo Spazio Video, un tranquillo viaggiare che non delude e stanca mai.

[…] Parla anche italiano invece lo Spazio Video, che tra l’altro dedica una doverosa messa a fuoco all’opera quasi completa di Antonello Matarazzo, artista avellinese. La ripetizione disturbata è probabilmente la cifra stilistica che collega, come un filo percorso da corrente elettrica, le sue prime opere, in cui rompe la quiete degli sguardi (e dei cuori) di vecchie fotografie e il loro sonno nella penombra del tempo, con l’ultimo lavoro (2006) che porta proprio questo titolo, Interferenze, girato durante l’omonimo New Art Festival di San Martino Valle Caudina. Provincia di Avellino, naturalmente: la città che in Mi chiamo Sabino (2001) si affaccia più volte, come sdraiata all’alba in un languido dormiveglia, materna e insieme indifferente ai deliri del matto. Da ‘lei’ Matarazzo sembra disposto ad allontanarsi al massimo di una cinquantina di chilometri, e solo se ne vale davvero la pena. È il caso di Apice vecchia, il borgo dell’Irpinia abbandonato da un quarto di secolo, ma lasciato inspiegabilmente intatto dal terremoto, abitato da lucertole e chissà da fantasmi allertati in modo palpabile da un protratto risuonare di passi sconosciuti: e non a torto, visto che si tratta di un commesso viaggiatore intenzionato a ripopolare il paese con animaletti meccanici telecomandati.

Elegia del ‘silenzio che vive’ e ironia non meno ‘pungente’ (termine adatto alle numerose soggettive di api incuriosite alla vista di un umano deciso a godersi insieme a loro la pace di un campo di girasoli) sull”interferenza’ dell’uomo nella natura nei 10 minuti di En plain air (2005). Apocalittico e smisurato invece solo lo scenario che fa da sfondo, con le gru nere del porto che emergono dalla nebbia e la scansione artificiale delle pale eoliche, ai mastodontici reperti corrosi dalla salsedine dell’ex area industriale di Bagnoli poteva contenere tutta la sofferenza, e insieme la ieraticità sacrale, degli invalidi che lo attraversano al canto del Miserere.

L’imperfezione è cosa divina: Dio stesso si manifesta, disturbando con misteriose scariche la visione dei disabili che, con cadenza ritmata in crescendo, si battono il petto (A Sua Immagine, 2005). “[Nel corpo] … è possibile rintracciare la chiave di lettura dell’incorporeità”: a sostegno di questa affermazione di Matarazzo non posso non citare lo stesso regista che fa l’amore con una scarpa da ginnastica (Lovers, spot per Converse, 2004) e il cuoco di Interferenze che, in un ombroso interno prospiciente la piazza dove fervono le prove dei gruppi musicali, si dedica alla preparazione di dolci alla crema stile grande bouffe, degni della sua stazza di almeno duecento chili. Il suo risveglio, con la telecamera che riprende il profilo del ventre supino, le gambe e i piedi giù dal letto, le piastrelle di cotto, il bagno, la scala, è quasi una citazione di Carlo Michele Schirinzi, a sua volta artista e videomaker (con Matarazzo ha collaborato nel 2002 alla realizzazione di Astrolìte) che lavora sulle immagini e sui suoni per affrancare i corpi dal peso del simulacro indicando a essi (esso) la via verso una sorta di ‘santita’. […]

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – anno XXVI, N°141 sett/ott 2006)

Oltre il dolore oltre la pena

Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Specialistica in “Cinema, teatro e produzione multimediale”

– Oltre il dolore, oltre la pena –
Cinema e handicap, quattro diversi sguardi d’autore

Relatore Prof.ssa: Alessandra Lischi
Candidato: Sara Panattoni

Anno Accademico 2005-2006

CAP I Matti da slegare di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli
CAP II A proposito di sentimenti di Daniele Segre
CAP III Amleto…frammenti di Bruno Bigoni
CAP IV Miserere (cantus) di Antonello Matarazzo

[…] CAPITOLO IV Miserere (Cantus) di Antonello Matarazzo

La bellezza
non è che il disvelamento
di una tenebra caduta
e della luce
che ne è venuta fuori
(Alda Merini)

IV.1. Introduzione
Concludo la mia breve indagine sul rapporto tra cinema e handicap con l’analisi di Miserere, opera del pittore e videomaker Antonello Matarazzo.
Del lavoro esistono due versioni: da quella più lunga, di circa venti minuti, realizzata nel 2004, è stato successivamente tratto il videoclip Miserere (Cantus), di soli otto minuti che, presentato nel 2005 all’Art Doc Fest di Palazzo Venezia a Roma, ha vinto il primo premio nella sezione “Nuovi Linguaggi”.
Entrambi gli adattamenti hanno poi girato numerose rassegne nazionali ed internazionali, come la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il Mediterranean Film Festival di Montepellier e Invideo a Milano, riscuotendo giudizi favorevoli da parte di critica e pubblico.

Il mio commento si concentra sull’adattamento più breve, è inutile dire che i riferimenti generali, circa la struttura del progetto, il rapporto tra l’autore e il tema della disabilità, l’idea che Matarazzo ha del video e l’uso che ne fa, non possono che riguardare ambedue le versioni.
Ma che cos’è propriamente Miserere? Trovare definizioni adeguate per un prodotto creativo è, come abbiamo visto già per Amleto…frammenti, difficile e spesso infruttuoso, tanto più per un opera complessa e stratificata, come risulta essere quella di Antonello Matarazzo.
Videoarte, video d’artista, video musicale, Bruno De Marino ha evidenziato come, insieme all’elemento sperimentale, siano combinati perfettamente anche quello narrativo e quello documentaristico 1.

Miserere «è un video enigmatico come un sogno e con atmosfere da incubo…ci propone sequenze che sembrano uscite da un libro di magia o di fiabe, inquietanti e oniriche, attraggono e respingono lo spettatore attivando compassione e vari interrogativi» 2.
Miserere è un coagulo suggestivo di elementi provenienti dai campi più disparati: nelle sue immagini risuonano e rivivono alcune significative esperienze della storia dell’arte occidentale, mescolate all’eco della “vistosa” tradizione popolare del sud Italia.
D’altra parte il video, in generale, come «arte di attraversamenti e contatti» 3, si presta al dialogo con le diverse discipline dello scibile umano, vive «in completa promiscuità con le altre arti, con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali…  » 4.

Antonello Matarazzo ha saputo confrontarsi con la natura metamorfica dell’immagine elettronica: coniugando la sua formazione pittorica a una sensibilità squisitamente cinematografica per la composizione delle immagini, il ritmo e il montaggio, ha dimostrato una capacità considerevole nel manipolare il dato reale a fini espressivo-comunicativi. L’impatto sensoriale con questo grande affresco in movimento è talmente intenso da non permettere allo spettatore di tirarsi fuori e rimanere indifferente.

Miserere, dunque, come esperienza partecipata. Esperienza prima di tutto dell’autore il quale, oltre ad un coinvolgimento profondo di natura intellettuale, è stato chiamato ad uno scontro concreto con la materia da raccontare. Per affrontare l’handicap dei protagonisti, Matarazzo ha voluto stabilire una connessione non solo cerebrale, ma anche “tattile”, con la diversità, ha voluto toccare la fisicità mutilata della vita, provando ad affrontare il mondo su una sedia a rotelle, riuscendo, in questo modo, a far combaciare il suo punto di vista con il loro. Miserere ha significato per lui non solo il raggiungimento di un traguardo importante nell’evoluzione del suo linguaggio audiovisivo, ma anche una crescita a livello umano e personale.
Esperienza per noi spettatori, chiamati a confrontarci con una visione scomoda che ci rimanda difficili e faticosi interrogativi, obbligandoci a praticare quella che, pur essendo l’attività caratterizzante dell’uomo, il pensiero, troppo spesso, o per pigrizia, o per paura, ci dimentichiamo di possedere.
Suggestioni, evocazioni, incanti, emergono dalla trama del video: il mio lavoro di analisi è consistito nel selezionare e riordinare questi stimoli, scegliendo di seguire i percorsi più attinenti al tema della mia ricerca.

IV.2. Come nasce un’idea
Il progetto, come ricorda lo stesso Matarazzo, è nato grazie alla determinazione di Luigi, Armando e Susy, dei disabili costretti per varie ragioni sulla sedia a rotelle. Dopo aver visto, durante un servizio della Rai, il ciclo di dipinti sulle malformazioni dell’artista avellinese, i tre hanno insistito per lavorare con lui, riuscendo a vincere le sue iniziali perplessità.
Ciò che più frenava l’autore era il confronto con un tema così delicato come l’handicap e la paura nell’affrontarlo di inciampare nella retorica del dolore, o della denuncia sociale. Gli stessi “committenti”, d’altra parte, si sono mostrati da subito disinteressati a “reclamizzare” le problematiche legate alla disabilità motoria, motivo per cui, invece di scegliere per raccontarsi un regista prettamente documentaristico, sono stati attratti dalla dimensione lirica in cui Matarazzo colloca la “diversità”.

La necessaria curiosità che spinge l’uomo all’arte, strada attraverso cui raggiungere una maggiore consapevolezza di sé e del mondo circostante, alla fine ha spinto l’autore a valutare la situazione. E siccome è uno di quelli che «per capire le malattie deve iniettarsi il virus» 5 ha voluto, prima di impegnarsi, incontrare più volte i diversamente abili, conoscerli e conoscere il loro disagio, provare le carrozzine ed imparare a muoversi con esse. Solo dopo questa generale ricognizione, che gli ha permesso di sentirsi parte di loro, ha accettato di dirigere l’avventura: a quel punto ha percepito che le barriere psicologiche tra lui e la disabilità erano cadute, la compassione era stata sostituita dalla risolutezza necessaria per dirigere l’handicap su un set, per gestire le barriere fisiche e architettoniche, senza l’imbarazzo di dover sempre chiedere scusa.

Nella sua mente gradualmente il progetto ha preso corpo: si è fatta strada l’immagine di una processione di carrozzine in viaggio tra gli stabilimenti abbandonati dell’ex Italsider di Bagnoli e le pale eoliche di Lacedonia, in Irpinia.
Per concretizzare tale idea è stato però decisivo l’incontro, del tutto casuale, con il musicista Canio Loguercio 6: assistendo ad un suo concerto Matarazzo è rimasto colpito non solo dalla performance musicale e canora dell’ex leader dei Little Italy, ma anche dalla particolarità del personaggio. Così, quando lo ha contattato per coinvolgerlo nell’evento, gli ha offerto non solo di curare le musiche del film, ma anche un ruolo da interprete. Loguercio, positivamente sorpreso dall’attinenza tra le intenzioni del videomaker e il brano che stava allora terminando, dal titolo Miserere, appunto, si è da subito mostrato entusiasta di unirsi alla compagnia.

Luigi, Armando e Susy, Antonello Matarazzo e Canio Loguercio: Miserere è nato dall’incontro di queste personalità, così distanti tra loro, ma accomunate dalla stessa voglia di mettersi in gioco, di riflettere su una realtà che l’uomo crede di poter piegare ai suoi bisogni, ma che si dimostra ad ogni istante fuggente.

IV.3. L’handicap come specchio del mondo
Il rischio del cinema, quando si pone dinnanzi a temi forti come il disagio fisico e mentale, è quello di cadere, anche se inavvertitamente, nella spettacolarizzazione del problema, enfatizzata dalla ricerca di un ampio successo di pubblico. Ci sono opere in cui l’emotività dello spettatore è sollecitata attraverso l’impatto visivo con situazioni insolite e deformi, altre che invece insistono sugli aspetti più melensi e commiserevoli per stimolarne le lacrime.

Antonello Matarazzo critica e rifiuta entrambi questi atteggiamenti apprezzando, al contrario, l’approccio di quei registi «che spostano la macchina da presa dalla parte della realtà personale del disabile» 7. Film, anche importanti da un punto di vista commerciale, come Qualcuno volò sul nido del cuculoRain man, o Idioti 8, a suo avviso ignorano «il prevedibile e mieloso assioma del politicamente corretto e della solidarietà tout court e aiutano ad ampliare la nostra conoscenza attraverso la condivisione dei sentimenti dei protagonisti, buoni o cattivi che siano» 9. Non tralasciando di utilizzare, dove necessario, un linguaggio anche crudele e beffardo, mirano ad una comunicazione più ampia e completa con il pubblico, conducendolo verso una consapevolezza critica della questione. Senza puntare in ogni modo ad un coinvolgimento emozionale con gli “sfortunati” protagonisti, portano gli spettatori a prendere coscienza della loro umanità.

Matarazzo ritiene invece che titoli come Freaks e Le chiavi di casa 10 strumentalizzino il disagio, utilizzando la sua maschera di lacerato dolore per impressionare. Amelio filtra la storia di Paolo attraverso uno sguardo di paternalistica commozione, mentre Tod Browning, nonostante la volontà di denunciare lo sfruttamento degli handicappati come fenomeni da baraccone, marca la mostruosità dei protagonisti per attirare l’attenzione del pubblico 11.
Matarazzo ritiene che l’interesse non deve essere focalizzato sulla menomazione: i disabili sono uomini e donne comuni, condividono con ogni altro individuo sentimenti negativi e positivi, non si deve guardare loro attraverso concetti preconfezionati.

Gli handicappati detestano, e il regista l’ha capito proprio durante l’esperienza di Miserere, qualsiasi atteggiamento di pietà che non scaturisca da una conoscenza diretta e da un reale sentimento di affetto. Detestano l’atteggiamento di chi li considera, prima di tutto, minorati: l’ingombro del deficit spesso nasconde la loro personalità, il bagaglio di emozioni che condividono con la globalità del genere umano.

Matarazzo, come già accennato, non racconta Luigi, Armando e Susy per condurre un’indagine sociologica sul diverso, bensì i tre diventano il tramite per una rappresentazione astratta della condizione umana. L’artista avellinese tenta di trasformare i personaggi in icone: pur lasciandoli liberi di esprimersi, senza alcun tipo di forzatura attoriale, ne fa delle figure eteree, li isola dai loro contesti specifici, dalle difficoltà quotidiane che l’handicap amplifica, per dare l’immagine di una partecipata ansia di vivere.

Matarazzo non indugia sui corpi che la “natura”, o il “fato”, ha reso immobili, sui volti di coloro che, come recita la dedica a chiusura del video, «non possono affermare con esattezza che dio esiste», con una attenzione documentaristica, ma con una «sensibilizzazione di natura estetico conoscitiva, l’approccio cambia a favore di un atteggiamento che ha a che vedere più con l’amore che con la ricerca» 12. Rappresentandoli, avvia un processo di conoscenza, ma non aspira ad un sapere analitico, descrittivo, bensì, proprio perché interviene l’amore, ad una esperienza sublimata. L’handicap affrontato nel video, la deformità, la mostruosità, attorno a cui ruota tanta della produzione artistica di Matarazzo, diventano un tramite verso la bellezza assoluta, misteriosa ed indecifrabile, che difficilmente si rivela e che coincide con quella terrena solo simbolicamente.

Lo scopo è la comunicazione non l’astrazione di belle immagini, l’arte è concepita come mezzo per scavare dentro le coscienze. Il lavoro dell’artista avellinese può, in un primo momento, creare repulsione, ma una volta visto difficilmente lo si dimentica, funge da detonatore per attivare un processo cognitivo in chi lo fruisce.
La dolorosa concretezza delle esistenze personali di Luigi, Armando e Susy, affiora solo nelle didascalie che chiudono la versione lunga di Miserere a testimoniare l’attenzione di Matarazzo per il teatro della vita. Punto di partenza irrinunciabile per l’artista è il dato reale, poi decontestualizzato nel tentativo di veicolare un messaggio più condiviso, di raggiungere un sentimento universale.

«Luigi è spastico dalla nascita a causa di un trauma post parto. All’età di 10 anni durante un intervento di trazione al quale si sottoponeva periodicamente gli hanno danneggiato definitivamente la colonna vertebrale. Ora ha 39 anni e vive a Soccavo (Napoli) dove lavora in una comunità di tossicodipendenti».
«Armando ha 56 anni. Tredici anni fa ha contratto un virus che gli ha divorato il midollo spinale. Successivamente ha perso i testicoli a causa di un banale intervento chirurgico. La moglie, dopo 34 anni di matrimonio, lo ha messo alla porta imputandogli mancanza di virilità. Un giudice ha riconosciuto gli alimenti alla donna e al figlio di oltre 30 anni che consistono nei due terzi dell’intera pensione infortunistica di Armando. Dopo aver chiesto l’elemosina per circa un anno ed aver abitato nella propria automobile ora Armando vive con 400 euro al mese ed è ospite in un basso di Secondigliano ».
«Susy l’hanno paralizzata 13 anni fa mentre tornava da scuola, sotto la propria abitazione a Secondigliano, con un colpo di pistola alla schiena durante un conflitto a fuoco…aveva 15 anni. Vive a Secondigliano (Napoli) con la propria famiglia».

Velocemente, con poche e lapidarie frasi, è riassunto l’incomprensibile tormento toccato in sorte a queste persone: la malasorte si è accanita testardamente su di loro, facendone un emblema dell’impotenza dell’uomo di fronte alla vita stessa, con i suoi inaspettati e ingovernabili accadimenti.
I portatori di handicap, per la loro enigmaticità, sembrano avere attributi in più, e non in meno, per penetrare il segreto del mondo.

La percezione che l’artista avellinese ha della deformazione trattiene in sé qualcosa di atavico: svincolandosi dall’approccio sociale, tipico punto di vista dal quale analizzare la diversità nell’età moderna, collocando l’handicappato in una visione trascendente, sembra collegarsi alle culture sciamaniche e primitive. In esse il “diverso”, al di là dell’apparente paura in quanto elemento di disordine, è messo in relazione con il mondo ultraterreno. Veggenti, stregoni, guaritori, sono spesso tramandati dalla tradizione con malformazioni fisiche: il dio della notte azteco Tezcatlipoca ha una gamba e un piede solo, ma la stessa mitologia greca è ricca di creature mostruose come Fauni, Ciclopi e Minotauri, che popolano il vasto mondo intermedio tra gli uomini e le divinità, perfino, Priapo, dio della fecondità, è caratterizzato da una marcata anomalia fisica 13.

Matarazzo attraverso Luigi, Armando e Susy delinea allegoricamente il ritratto globale di una problematica contemporaneità.
L’handicap per scavare la complessità del reale, le sue contraddizioni, i lati oscuri e le zone incognite, senza pregiudizi, né condanne. Analizzare e rappresentare l’irregolarità umana, non per farne una beffarda caricatura da cui trarre un godimento perverso, ma per tentare delle risposte alle incognite della realtà, è stato l’atteggiamento di tanti artisti nel corso di secoli.

Da Velazquez che ha ritratto i suoi nani con un’umanità pacatamente stoica, tramandandoli come osservatori incorruttibili del potere secolare del tempo: lo sguardo penetrante con cui li ha mirabilmente tratteggiati lascia intendere come dal loro regno intermedio, meglio di un “normale” cortigiano, essi considerino con occhio critico le convenzioni della società falsa e corrotta della Spagna del “Siglo de oro” 14.
Alle fotografie di Diane Arbus che fissa sulla pellicola giganti, travestiti, ritardati mentali e disabili, con quello sguardo quieto e neutrale 15  che ha reso unici i suoi scatti. Senza amplificare e sottolineare la sofferenza, il dolore, l’infelicità, impliciti in certi contesti marginali, la fotografa americana ha voluto lasciare una traccia delle differenze del mondo contemporaneo, della sua ricchezza sfaccettata e dissonante.

In questa lunga tradizione della rappresentazione del “brutto” si inserisce l’artista avellinese, che, prima con la pittura, poi con il video 16, si è dedicato ai temi della deformazione e del grottesco, che ha percepito nella limitazione della disabilità un mezzo potente per comunicare la realtà che ci appartiene: «Miserere si occupa di handicap solo in senso traslato, in verità c’è molto di autobiografico. L’handicap più grave è la nostra stessa condizione costretta in una circolarità ossessiva, senza sbocchi, che dà solo l’illusione dell’avanzamento» 17.
L’estetizzazione della diversità in qualche modo forza l’assuefazione percettiva. L’emozione provocata dalla rappresentazione non può essere disgiunta dal piacere della riflessione, da un’esultanza del pensiero costretto ad attivarsi: lo spettatore non può sottrarsi da una partecipazione intellettuale, la straniante forza delle immagini non glielo consente.

IV.4. Miserere – IV. 4.1. Il canto
«E ‘ntanto per la costa di traverso /venivan genti innanzi a noi un poco, /cantando ‘Miserere’ a verso a verso…» 18.
La terzina dantesca esplicita magistralmente la sinossi del video di Antonello Matarazzo, che è il racconto di una preghiera rivolta alla divinità, affinché dia un senso alla sofferta condizione umana, liberando gli uomini dalla lenta ciclicità della vita e permettendo loro, attraverso un rito di espiazione, il raggiungimento di quel bene superiore che tutto ordina e spiega.

Il Miserere è, nella liturgia cristiana, uno dei sette salmi penitenziali: esprime il pentimento e la trepida invocazione della misericordia divina. Composto secondo la tradizione da Davide, per chiedere perdono a dio delle sue colpe 19, simboleggia la supplica dell’uomo ad essere accettato con comprensione per quello che è: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato» 20. La colpa da espiare è connessa alla stessa natura dei mortali: «Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre» 21.

Il peccato è qualcosa che appartiene all’uomo in quanto tale e il Miserere sembra ammettere, con rammarico, la consapevolezza dell’inevitabile ambivalenza dell’agire umano. Nel salmo si prende coscienza della limitatezza degli uomini che dovrebbero avere una meta e un obiettivo da raggiungere, mentre invece si perdono per la strada, cadono e falliscono la loro vocazione, la loro chiamata.

Anche il Miserere di Canio Loguercio è una supplica appassionata, verace, come la lingua, il napoletano, nella quale è scritto: è «una sorta di elegia della disperazione» 22, per dirlo con le parole del teorico Gabriele Perretta, condotta dall’autore, e dai bravissimi Maria Pia De Vito e Pasquale Trivigno, con un tono penetrante, insidioso, assordante e tragico, che coinvolge e strazia chi lo ascolta.
Nella composizione di Loguercio rimane il senso di smarrimento che caratterizza i presunti versi di Davide, «Insegnerò agli erranti le tue vie/e i peccatori a te ritorneranno» 23, ma cade ogni riferimento alla condotta peccaminosa dell’uomo. La sofferenza umana sembra non avere ragioni, ma appartenere, per natura, al suo genere.

Alla base dell’angoscia dell’uomo c’è l’inspiegabilità del tormento cui quotidianamente è sottoposto, spesso non imputabile a colpe precise, né cancellabile con un comportamento di cristiana rettitudine, con una vita dedicata a Dio, ma legato a quel senso di impotenza che si manifesta dinnanzi alla vita stessa. Le parole del musicista lucano non fanno riferimento a macchie da lavare, si interrogano, al contrario, sulla condizione di incapacità che è toccata all’uomo, in balia di «sto maletiempo che ce strapazza ‘e nierve, passa e nun si ferma mai. A notte e ‘o juorno…e nun ‘o assiente, se nfizz’ a sotto ‘o verme zitto e nun more maje» 24.

Il canto di Loguercio esplicita un sentimento di arcaica religiosità tipico del cattolicesimo meridionale che, seppur ridimensionato, sopravvive tutt’oggi: innanzi alla straordinaria potenza del negativo nella vita di ogni giorno, ci si abbandona, al di là di ogni tentativo di razionale miglioramento, a quella che Ernesto De Martino definisce «una protezione psicologica» 25 da parte del divino. «La precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili…l’asprezza della fatica… insieme ad un’accentuata labilità della presenza individuale» 26 sono affrontate con un atteggiamento di magica devozione. Così, come l’origine delle disgrazie che si abbattono sull’uomo è attribuita all’intervento malevolo di un’entità superiore, anche la loro risoluzione deve necessariamente passare attraverso la mediazione del divino. L’uomo è imprigionato in una realtà che non riesce a controllare, è agitato da dubbi, interrogativi, cui non sa rispondere, l’unica possibilità per alleviare il suo dolore è la fede in un principio regolatore che non è possibile verificare, ma verso il quale dimostrare un amore incondizionato.

Nelle frasi del musicista lucano ricorrono parole e termini tipici di molte formule rituali connesse a cerimonie propiziatorie, o di guarigione: si parla di malasorte, freve, maleviento, tornano elementi naturali, spesso appartenenti alla sfera alimentare, come il sale, l’ “ove”, “fronne ‘e limoni”.
Gli uomini non potendo servirsi della ragione per emancipare la loro condizione, non si arrendono, ma si aggrappano alla fede cieca in un essere superiore che li faccia sentire meno soli ed inutili: si addossano colpe non compiute nei suoi confronti, invocano la sua pietà, incrementando la forza del loro canto attraverso cerimonie e funzioni penitenziali.
Percorrendo le strade dell’intelletto l’uomo non raggiunge certezze circa il senso profondo dell’esistenza. La precarietà della sua posizione lo fa sprofondare in uno stato di doloroso turbamento, dal quale cerca di liberarsi attraverso la creazione di un’entità astratta che nella sua inverificabile immaterialità fonda il proprio potere consolatorio.

IV.4.2. Il video
Il video di Antonello Matarazzo testimonia proprio questo lungo percorso di liberazione, di una libertà tentata, ma forse impossibile da raggiungere. L’espiazione intonata da Loguercio è praticata da un gruppo di sei disabili 27 che, per quanto è loro concesso, tentano il cammino di un’emancipazione, sotto la guida di una misteriosa figura, cieca e claudicante (impersonata dallo stesso cantautore).

Dell’opera esistono, come già specificato, due versioni: quella più lunga si è servita per la colonna sonora, oltre che del contributo di Canio Loguercio, della collaborazione del compositore Fabrizio Castanìa, con l’aggiunta di pezzi del repertorio della canzone napoletana; l’altra invece è stata concepita come clip dell’omonimo brano Miserere dell’interprete lucano.

Il materiale filmato alla base dei due lavori è il medesimo. Si possono individuare tre blocchi principali di immagini, rispettivamente riferiti: al tragitto compiuto dallo “zoppo” per raggiungere il gruppo di disabili, alla trepida attesa di questi ultimi all’interno degli stabilimenti dell’ex polo industriale di Bagnoli ed infine, avvenuto il congiungimento tra la guida e i penitenti, alla funzione cerimoniale, condotta prima all’interno dei capannoni dismessi, poi tra le pale eoliche della campagna irpina. L’esperienza dei protagonisti è inoltre messa più volte in relazione con le immagini del rituale processionale, altrettanto affascinante e coinvolgente, dei battenti di Guardia Sanframondi (BN).

Mentre il Cantus si struttura principalmente attorno al momento della penitenza, nella versione originale di Miserere sono dilatati i tempi dell’attesa. Più della metà dell’intera durata del video mostra i disabili che aspettano, aggirandosi ansiosi per i capannoni deserti, l’arrivo dell’uomo con il bastone,  solo negli ultimi minuti i protagonisti si incontrano dando inizio al rituale (il brano di Loguercio non è riportato nella sua interezza, se ne ripercorrono pochi versi).
Per quanto mi riguarda ho scelto di dedicarmi con maggiore attenzione al videoclip per due ragioni. Una di natura pratica: Miserere (Cantus) è stata la versione dell’opera di Matarazzo che ho visto per prima, in base a questa ho scelto di inserire il lavoro dell’artista campano nel mio progetto di ricerca. L’altra, potrei dire, di natura più estetica, dal momento che sono rimasta sorpresa dall’abilità con cui l’artista ha saputo mediare tra una forma, comunemente commerciale, come il videoclip e un messaggio così alto, come quello sotteso a Miserere.

È piacevole e consolatorio verificare la possibilità di una commistione intelligente tra i diversi livelli della cultura: il medium “basso” del clip, simbolo per eccellenza della patrimonio giovanile dagli anni Ottanta in poi, usato per cercare una risposta al quid della vita. Uno degli strumenti preferiti dall’industria dell’intrattenimento per anestetizzare le coscienze delle masse, incanalandole verso tendenze e mode preconfezionate, viene qui utilizzato per far riscoprire all’uomo la sua natura di essere pensante: provocando un’intensa attività intellettuale, Matarazzo allontana la condizione di pigra passività richiesta allo spettatore contemporaneo, in primis dalla televisione, ma sempre più spesso anche dal cinema.

L’abilità comunicativa dell’autore avellinese è certamente rafforzata dalla sue capacità tecniche: la bravura nel comporre le immagini partendo dal taglio di ogni singola inquadratura, la sensibilità naturale per il ritmo e il montaggio, che raggiungono un traguardo straordinario proprio in Miserere, dove le immagini si adattano, senza la minima forzatura, all’andatura ora incalzante, ora “strascinata”, del tessuto sonoro, concorrono ad organizzare un materiale di forte impatto visivo, davanti al quale neanche il frequentatore abituale del grande supermercato della Tv può rimanere indifferente.

IV.4.3. L’uomo e il paesaggio
Centrale in Miserere è il rapporto uomo-paesaggio. Matarazzo investe l’ambiente di una forte valenza simbolica: diviene, al pari dei corpi che lo percorrono, delle anime che cercano di viverlo, protagonista delle immagini.
L’artista avellinese spesso ripercorre nei video i luoghi familiari della sua terra d’origine, l’Irpinia: in questo caso è la campagna attorno a Lacedonia, sormontata dalle imponenti pale eoliche, a fare da sfondo (insieme agli stabilimenti dismessi dell’ex Italsider di Bagnoli) ai movimenti dei personaggi.
Tuttavia, pur partendo dalla concretezza dei luoghi e degli oggetti, l’autore punta ad una loro trasfigurazione, si spinge oltre la realtà dello sguardo, verso una destrutturazione percettiva del tempo e dello spazio.
Il paesaggio naturale, l’archeologia industriale, luoghi che richiamano situazioni e contesti specifici, spogliati dei loro contenuti oggettivi, assumono significati astratti e metaforici 28.

La condizione di impotenza dell’uomo dinnanzi all’aggressività della vita passa attraverso l’handicap dei protagonisti: l’ampiezza della loro costrizione (obbligati a muoversi attraverso un’appendice meccanica, sono limitati, non solo a livello psicologico, ma anche nei più elementari esercizi motori) moltiplica l’angoscia. La fragilità dell’agire umano è condensata nell’immagine ingombrante delle carrozzine che, spesso riprese dal basso, a distanza molto ravvicinata, incombono sulla scena, relegando la persona in secondo piano. Esplicitano, in questo modo, la natura deficitaria dell’essere umano, la sua inettitudine dinnanzi all’incontrollabile, e misteriosa, forza della natura.

Inettitudine testimoniata proprio dal paesaggio archeologico-industriale. Le strutture abbandonate, arrugginite e decadenti, dell’ex acciaieria, sono gli spettrali relitti del tentativo dell’uomo di regolare e sottomettere, secondo le proprie esigenze, la realtà circostante. L’uomo ha cercato di acquisire una posizione di forza nei confronti di un mondo che, per lui incomprensibile nelle sue dinamiche più profonde, è fonte di angoscia e paura, ma si è ritrovato al punto di partenza. Né inferno, né paradiso, ma un limbo di disperazione cui si è destinati per ignoranza, per la mancanza di risposte circa la propria collocazione. La scelta di ritrarre i protagonisti attraverso inquadrature fisse, dove l’unica cosa in movimento è il vento, quel «maleviento» 29 cantato da Loguercio, trasmette magistralmente lo smarrimento dell’uomo davanti al mistero della vita, il suo essere in balia di forze che, esterne a lui, non può prevedere, né risolvere.

Nonostante ciò, con sofferente caparbietà, gli esseri umani non si arrendono cercano una via di uscita da quelle gabbie che loro stessi hanno contribuito a creare. Guardando oltre le barriere architettoniche, il loro sguardo si perde all’orizzonte, nell’attesa di un salvatore che tarda ad arrivare.
L’uomo come un moderno Dedalo è impegnato a fuggire dal labirinto che la sua intelligenza ha partorito, senza avere a sua disposizione più neanche quell’ingegno che permise al lontano antenato la salvezza. La ragione ha fallito, sembra essere definitivamente sconfitta, si è dimostrata troppo debole per trovare risposte all’inquietudine esistenziale del genere umano, inadatta a proteggerlo da forze naturali incommensurabili.

Gli spazi vuoti dell’Italsider si ergono a simbolo della nostra vita di abbandono e solitudine, dello stato di incomunicabilità in cui gli uomini sono caduti. La comunicazione, privata delle parole, viene tentata dai personaggi con un intreccio di gesti, affascinanti, ma incomprensibili. Lo sguardo sembra essere rimasto l’unico elemento di dialogo: sguardo malinconico, ma al contempo fiero, quello con cui Luigi, Armando e Susy, puntano la telecamera invitando gli spettatori a partecipare di un dolore che è anche loro.

L’uomo quindi incapace di raggiungere attraverso l’intelletto un proprio equilibrio, si abbandona alla consolazione di una primitiva e magica religiosità. Solo l’adesione incondizionata al divino sembra regolare l’incontrollabile flusso della vita: dio esiste grazie alla fede, non necessita di prove tangibili per affermarsi, esiste nella misura in cui si crede che esista, tutto ciò che razionalmente non si può comprendere viene ricollegato alla sua volontà. Carichi di aspettative i disabili lo attendono, affinché li smuova dalla loro passività, dalla castrante ciclicità del vivere quotidiano che solo apparentemente avanza in una direzione, ma che in realtà si ripete ossessivamente nel suo scorrere verso il nulla.

Il salvatore che si prospetta loro davanti risponde agli attributi divini dell’enigmaticità e del mistero: non parla con le anime da redimere, non spiega loro cosa fare, ma attraverso il suo agire mostra la via della possibile redenzione. Il dio di Miserere è un dio cieco e storpio, cammina per mezzo di un bastone, il deficit è forse da ricollegarsi, anche in virtù di quanto già affermato, al suo ruolo di mediatore tra due mondi lontani 30, ma l’irregolarità fisica potrebbe anche essere la spia del fallimento dello stesso percorso espiatorio che è stato chiamato a dirigere. D’altra parte Matarazzo svela, sin dall’inizio, la fragilità di quest’essere così simile a quella delle anime che deve salvare: la prima immagine che ce lo propone lo ritrae in cammino ai piedi di due grandi gru metalliche che ne sovrastano la figura, facendo intuire la debolezza del suo intervento.

I disabili tuttavia sembrano non possedere altra via d’uscita se non quella di affidarsi allo storpio: simulano i suoi gesti rituali e senza indecisione lo seguono. Partecipano ad una processione che, al pari di quella dei battenti  di Sanframondi, dovrebbe servire alla loro liberazione, ma che in realtà si dimostra inutile e priva di significato. Il pellegrinaggio di questa armata di miserabili, di «bavuse e pupatelle» 31, è verso un territorio che, in apparenza ampio, aperto, si rivela, come il precedente, costrittivo.

Un territorio, quello della campagna irpina, che si palesa sempre uguale a se stesso: i protagonisti salgono, scendono, per strade che sembrano perdersi all’infinito, ma che in realtà non portano a niente. Il loro è un moto che si compie su se stesso: smarriti, persi, procedono senza meta, sono costretti alla ripetitività inarrestabile della vita, sottolineata visivamente dalla presenza incombente delle pale eoliche.
La divinità non è riuscita ha risolvere il loro disagio, si arrende, fallisce la missione che era stata chiamata a compiere e abbandona il suo ruolo di guida. Alla fine del video è l’uomo con il bastone a seguire la processione di carrozzine.

Il pessimismo è avvolgente: le immagini ci mostrano, inappellabili, come una vera fuga non sia possibile.
Tuttavia, una nota di ottimismo l’artista, alla fine, sembra concederla: risiede nella figura della bimba che apre e chiude il video.
In particolare l’immagine finale nella quale, attraverso un effetto di morphing, si attua la trasformazione dell’uomo (Loguercio) nella bambina 32, rappresenta il ritorno alla purezza dell’età primigenia.

L’epoca in cui la ragione sembrava invincibile e l’uomo pareva poter dominare il mondo è finita, ma ad esso rimangono comunque le sue capacità intellettuali. L’ingegno del quale l’essere umano deve riappropriarsi è l’intelligenza spontanea dei bambini, la loro vitale curiosità che spinge ad interrogarsi sulle cose anche più semplici e banali. La salvezza è il ritorno all’infanzia, età durante la quale, non avendo certezza su nulla, si è spronati a chiedersi il perché di ogni cosa. L’infanzia è purezza, ma non innocenza, quest’ultima afferma Matarazzo è possibile solo nell’immobilità, ma l’immobilità è castrante, mentre i bambini sprigionano un vitale dinamismo.

La salvezza risiede nella nostra capacità di pensare, di affrontare l’ambiguità della vita con un attivo spirito critico, senza preconcetti e pregiudizi. La bambina non ha paura di toccare la rana, nella saggezza popolare simbolo della bruttezza (sovente si dice “sei brutto come un rospo”), qui associata alla imperfezione degli handicappati, perché in lei c’è il desiderio di apprendere la diversità, di gustare la ricchezza multiforme della vita.

L’uomo sembra dire Matarazzo ha pensato, ad un certo punto della storia, di avere gli strumenti per determinare e decidere ogni cosa, ma questo si è dimostrato impossibile, allora si è sentito sconfitto e si è rifugiato in una rassicurante indifferenza: prima ha peccato di presunzione, poi si è arreso ai propri limiti, senza comprendere la forza che ha a disposizione, il pensiero, un pensiero umile che si fa giorno per giorno.

IV.5. Matarazzo e il video – IV.5.1. La natura pittorica dell’immagine elettronica
L’uso del video, anche se avvenuto, Matarazzo ci tiene a ricordarlo, per pura casualità 33, è a mio avviso un approdo naturale per un autore che, esponente di quel Medialismo teorizzato da Gabriele Perretta alla fine degli anni Ottanta, aspira all’abbattimento dei confini tra i vari media, tra province estetiche e formali diverse 34.

Il video dunque come mezzo che, lungi dall’aver decretato la fine della sua ricerca pittorica, è servito a rinnovare il linguaggio dell’artista avellinese e ad arricchire le sue possibilità espressive. La tecnologia ha restituito vigore e, paradossalmente, naturalismo alla sua arte, permettendogli di «non arenarsi nelle secche del concettualismo» 35.

Sin dall’avvento del cinematografo il rapporto tra pittura ed immagini in movimento è stato uno dei nodi del dibattito che si è sviluppato attorno alla settima arte. Sia coloro che percepivano il nuovo mezzo come temibile minaccia nei confronti della tradizione artistica, sia quelli che ne sottolineavano le potenzialità comunicative e linguistiche, erano concordi nel riconoscere l’esistenza di strette relazioni tra le arti figurative, in generale, e il cinema 36.

Relazioni che si sono intensificate con l’avvento dell’elettronica la quale ha consentito un avvicinamento ulteriore tra immagine filmica e immagine pittorica. Secondo Antonio Costa «questo accade non tanto perché l’elettronica sia in grado di simulare i procedimenti della pittura…piuttosto perché l’immagine elettronica produce uno spazio strutturalmente analogo a quello della pittura, uno spazio strutturalmente progettato e prodotto» 37. Quello che accomuna l’immagine di sintesi alla pittura, soprattutto a quella post-impressionista, è la possibilità di «un controllo punto per punto» 38 della raffigurazione, con un’esattezza progettuale molto elevata nella prima, che ha l’opportunità di creare e controllare forme in movimento.

C’è una profonda affinità tra l’agire del pittore e quello del videomaker: entrambi sono in grado di stabilire con l’opera un rapporto immediato e dinamico. Innanzi alla materia filmata l’autore ha la stessa libertà che detiene davanti alla tela: può modificare la sostanza quando e come vuole, potendo verificare, nell’immediato, il risultato del suo intervento. «L’immagine elettronica, analogica e digitale, consente di creare e manipolare, non solo offrendo “in diretta” una libertà di fare e disfare, ma anche permettendo di sviluppare linguaggi tra i più diversi» 39. La tecnologia fornisce all’artista, soprattutto in fase di postproduzione, un’ampia scelta di soluzioni e strumenti con cui plasmare, a proprio piacimento, il materiale visivo. L’autore ha possibilità, quasi illimitate, di intervenire sul colore, può servirsi di varie tecniche di scomposizione dell’immagine per moltiplicare i punti di vista, dispone di una vasta gamma di effetti con cui trattare, in senso astratto e antinaturalistico, il dato reale. «Il mixer video rivela ed esalta quella che è una delle potenzialità più intrinseche dell’immagine elettronica: la sua disponibilità alla metamorfosi. Del resto l’immagine video, instabile, fluida e magmatica, è già il risultato di una serie di mutazioni energetiche, perciò la trasformazione non può che essere una delle sue proprietà più naturali. Sperimentare la metamorfosi, attuare le mutazioni dell’immagine, non rappresenta quindi una forzatura, ma il naturale dispiegarsi delle potenzialità innate del video» 40.

Matarazzo, come già prima di lui una lunga schiera di pittori, ha sfruttato le possibilità connesse alla natura stessa dell’immagine elettronica, per dare una scossa alla propria azione creativa. Il confronto con il video ha vivificato il suo approccio con la realtà che rischiava di appiattirsi in formule ripetute e ripetitive, soprattutto lo ha portato ad attivare un’esperienza paesaggistica assente dai cicli pittorici, dove l’attenzione si concentra sulla figura umana, proponendo corpi e volti decontestualizzati e privati di un qualsiasi contatto con l’ambiente. Il paesaggio nei video di Matarazzo è tornato, come abbiamo già potuto verificare, ad essere un elemento centrale della rappresentazione: segno, simbolo, imprescindibile, del racconto filmico. Il medium elettronico, per le sue caratteristiche intrinseche, ti costringe a guardare il mondo, a fare i conti con la luce, con lo spazio e ovviamente con il colore.

Video e pittura, sviluppati a partire dalle medesime esigenze, dunque convivono in un rapporto dialettico e di vicendevole scambio: contaminandosi e amalgamandosi reciprocamente, hanno incrementato le potenzialità comunicative dell’agire di Antonello Matarazzo. Da una parte le sue tele hanno risentito del realismo marcato che è possibile ottenere tramite la registrazione elettronica della realtà, viceversa i suoi film risentono di una evidente sensibilità pittorica.
Miserere, nello specifico, appare come un insieme di grandi tele. Ogni inquadratura è curata nel minimo dettaglio alla ricerca di una fascinazione visiva che stimoli un coinvolgimento emotivo nello spettatore. Risentendo della sua formazione di pittore, l’artista ha prestato attenzione ai particolari dei singoli quadri, prima attraverso l’organizzazione della scena, poi con un intenso lavoro di postproduzione che è andato ad incidere sul colore, sulla consistenza e sulla stratificazione delle immagini.

In fase di ripresa Matarazzo ha curato attentamente la plasticità della composizione visiva, niente nell’organizzazione della situazione da filmare è stato lasciato al caso: la collocazione dei personaggi, la gestualità e la mimica dei corpi, gli attributi della loro rappresentazione, sono tutti elementi che concorrono all’efficacia del messaggio che l’artista vuole trasmettere con il suo lavoro. La comunicazione è ulteriormente accentuata dagli interventi al mixer video, attraverso distorsioni ed effetti speciali, di vario tipo è stata ottenuta una materia di forte impatto visivo ed emotivo.

L’artista campano, d’altra parte, coglie la differenza tra un pittore che si dedica a video artistici, come lui, e un regista che parte direttamente dalla telecamera, proprio nel rapporto di intimità che il primo riesce a instaurare con ogni singolo frame. Il regista “tradizionale” presta una maggiore attenzione alla globalità dell’opera, essenziale per lui è il “percorso” narrativo, nel secondo c’è invece l’intento di una ricerca estetica minuziosa ed elaborata.
In Miserere non c’è fotogramma lasciato allo stato grezzo, tutto è trasformato, deformato, dall’intenso lavoro a posteriori, c’è la ricerca di uno shock percettivo con cui investire lo spettatore che dinnanzi al flusso composito e articolato delle immagini si trova, alla stregua dei protagonisti, in balia di un qualcosa che non riesce a controllare razionalmente.

Le immagini ammaliano, chi le guarda subisce uno straniamento, è conturbato: l’esasperazione della rappresentazione per documentare la contraddittorietà, l’incoerenza, dei tempi che viviamo.
Le continue sovrimpressioni, le transizioni prolungate tra una sequenza e l’altra, utilizzate durante tutto il video, non appaiono mai fredde esercitazioni tecniche fini a se stesse, ma servono ad esprimere la percezione che Matarazzo ha della realtà, lui crede che «in tutte le cose ci sia doppiezza ed enigmaticità, qualcosa di sublime ed inaccessibile: tutto è vicino e straordinariamente lontano allo stesso tempo» 41

IV.5.2. I debiti con la tradizione
La pittura costituisce per Antonello Matarazzo un polo di riferimento importante anche sul piano iconografico: in Miserere sono molti gli elementi che, attinti dalla tradizione figurativa, l’artista filtra attraverso il proprio sguardo e riutilizza per la costruzione di un personale sistema di simboli.
Interrogato a proposito, pur assicurando l’involontarietà del citazionismo, Matarazzo ammette l’obbligo di certi paragoni: riconosce la presenza di rimandi, piuttosto espliciti, anche se inconsapevoli, a storie e memorie d’arte sedimentate, ricollegando ciò alla natura stessa del prodotto artistico che, a suo avviso, «non può non risentire dell’insieme di suggestioni che abbiamo capitalizzato con tutti i nostri sensi» 42.

Suggestioni che, una volta individuate, non possono non condizionare anche il sentire dello spettatore. Il mio sguardo ha registrato, in particolare, una corrispondenza marcata, pregnante a livello visivo, ma che ha poi verificato un riscontro anche sul piano del significato, con l’opera di due grandi del secolo scorso: René Magritte e Francis Bacon. Per quanto riguarda la sfera formale l’influenza di Magritte, al di là degli immediati e oggettivi riferimenti, come la bombetta indossata da Luigi 43, coinvolge soprattutto l’esperienza paesaggistica, con il cielo che, principalmente nelle immagini esterne all’ex zona industriale, richiama quello del pittore belga: come il suo occupa la metà abbondante dell’inquadratura-tela ed è caratterizzato da nuvole grandi, ma non minacciose, che appaiono soffici e placide, anche se di una calma spesso inquietante.

I richiami si spingono oltre, diventano vera e propria citazione: il piano sequenza dello “zoppo” che cammina di profilo sul molo, il cui corpo funge da finestra sul paesaggio dell’inquadratura precedente, riconduce al famoso quadro Decalcomania (e in generale alle numerose tele che propongono le sagome dei personaggi riempite delle immagini della natura).

Gli elementi, invece, dello stile di Francis Bacon cui il video rimanda sono principalmente due: da un lato i muri chiusi, le gabbie di vetro, le tende, le strisce della tappezzeria, le sbarre, che imprigionano i personaggi del pittore irlandese, trovano un corrispettivo nelle strutture ferrose, nei capannoni arrugginiti dell’ex zona industriale, ma anche nelle carrozzine, tutti elementi artificiali che limitano le possibilità di movimento dei personaggi; dall’altro nell’opera dell’artista avellinese si riscontra quel medesimo turbamento che il critico Luigi Carlucci, analizzando la pittura di Bacon, lo percepisce «provocato dalla distorsione e talvolta dalla contaminazione profonda delle immagini.» 44.

In entrambi c’è un progressivo annullamento dei lineamenti dei soggetti: nel video, tramite la lentezza dei passaggi da un’inquadratura all’altra e le continue sovrapposizioni, le immagini si cancellano le une nelle altre, perdendo gradualmente di consistenza e richiamando la labilità dei tratti del pittore.
Riferimenti che affiorano dall’immaginario culturale di Antonello Matarazzo. Tuttavia le impressioni non si limitano al solo segno: esaminando più da vicino la poetica, le istanze di significato che soggiacciono alla opere dei due grandi maestri, è possibile individuare dei legami più profondi tra essi e l’artista campano.
La ragione della pittura di René Magritte è l’esistenza dell’uomo e l’interrogativo che essa genera, circa il senso della vita e della morte. Louis Scutenaire a questo proposito, parlando dell’amico, afferma: «Grazie a Magritte la pittura rinuncia al suo compito di intrattenitrice dell’occhio di eccitante o di sfogo sentimentale per cominciare ad aiutare l’uomo a trovare se stesso, a trovare il mondo» 40. Non è forse il medesimo principio che muove Matarazzo, il quale, raccontando Luigi, Susy e Armando, vuole cercare di rispondere agli interrogativi che lo assillano come uomo? Vuole rintracciare il senso, se mai uno ce ne è, della vita, il suo significato più profondo.

Magritte cerca di raggiungere lo scopo generando «un clima poetico destinato a spaesarci, a sprofondarci nello smarrimento e a farci rasentare il mistero fonte di ogni conoscenza» 45, anche Matarazzo forza l’assuefazione percettiva, avvicinandosi ad un sapere più consapevole e completo.
Lo straniamento che rivela il mistero della realtà, ed è quindi fonte di conoscenza, si concretizza, però, percorrendo strade diverse: nell’opera dell’artista belga, si manifesta attraverso le immagini degli elementi semplici del quotidiano, trattati in maniera molto naturalistica, ma presentati in accostamenti insoliti ed imprevedibili: «poiché – egli dice – , ciò che il mondo offre di visibile è sufficientemente ricco per costruire un linguaggio poetico evocatore del mistero, senza il quale nessun mondo e nessun mistero sarebbero possibili» 46.

L’artista campano, invece, esprime il suo turbamento con la deformazione degli oggetti del reale: pur partendo dal dato oggettivo, Matarazzo lo sottopone ad un trattamento antinaturalistico, interferisce, attraverso interventi elettronici, nella sua fruizione, ed è questo trattamento a stimolare la ricezione sensoriale dello spettatore e ad avviare in esso un processo attivo di interrogazione e apprendimento.
Il placido turbamento preso in prestito da Magritte viene caricato dei toni gravi, delle lacerazioni, della sofferenza delle pitture baconiane. La realtà ritratta da Bacon «è una realtà visibilmente minacciata, umiliante, sconfortante per l’inquietudine che la pervade tutta: inquietudine strettamente legata alla consapevolezza della propria fragilità e al contrasto lancinante tra il desiderio istintivo animalesco di vita, di energia, di potenza e lo scacco di una perenne, continuamente minacciata caduta» 47.

È la stessa impotenza che emerge dai versi di Canio Loguercio e che traspare dai volti e dai gesti dei penitenti, ripresi nell’attraversamento di una realtà che l’uomo non sembra in grado di controllare. I personaggi di Matarazzo al pari di quelli del pittore irlandese sono figure che « sembrano nella possibilità di perdere la loro ossatura per farsi scivolamenti strani o sommovimenti di materia in fusione» 48. quasi si muovessero in un’atmosfera succosa, in un liquido denso, oppure rimangono immobili, allucinati nell’attesa di una liberazione.
Trattamento pittorico delle immagini, loro manipolazione, echi della grande tradizione artistica: Miserere offre una rappresentazione sfalsata, collocata al di fuori delle abitudini che spengono lo sguardo, che trasmette esplicitamente la nostra epoca. Lo sforzo di lettura che l’opera esige porta lo spettatore ad un’intensa attività di partecipazione e alla formulazione, da parti sua, di vaghi perché, circa le problematicità del suo tempo e le difficoltà legate alla sua condizione di essere umano.

IV.6. Un’esperienza in divenire
Miserere non è solo un video, ma un progetto multimediale vasto e non ancora concluso, l’incipit di un’esperienza articolata e complessa.
Dopo l’anteprima del film e il suo passaggio nel circuito dei festival, è partita, dal 2005, la “Carovana del Miserere”che consiste in una serie di concerti, tenuti da Canio Loguercio in tutta Italia, durante i quali intervengono personalità diverse della scena culturale contemporanea con un loro specifico contributo. L’esibizione del cantautore, interprete di appassionate canzoni in napoletano, viene così arricchita dalla “personale preghiera” di coloro che, tappa dopo tappa, si aggregano al “pellegrinaggio”. Come riportato nel sito, creato per sostenere l’iniziativa, «Miserere è l’occasione di un viaggio interiore individuale e condiviso, un’opera aperta e in divenire; un racconto-mosaico delle testimonianze raccolte nel corso del viaggio» 49.

Il progetto poetico-musicale si è avvalso, oltre che della costante partecipazione di musicisti come Paolo Fresu e Rocco De Rosa, dei cantanti Maria Pia De Vito e Pasquale Trivigno (tra l’altro tutti già coinvolti nella realizzazione del video di Matarazzo), della collaborazione di nomi importanti della letteratura contemporanea, tra i quali ricordo Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri, Rosaria Lo Russo, Enzo Mansueto e Lello Voce.
Anche l’arte, ovviamente, ha un proprio ruolo. In una delle ultime date lo spettacolo è stato introdotto da un’istallazione dello stesso Matarazzo, inoltre, il canto Miserere viene sempre accompagnato dalla proiezione, sul palco, dell’omonimo clip del videomaker.

In questo modo il film viene portato tra la gente. La dimensione del concerto permette un contatto tra opera e pubblico più diretto e spontaneo, rispetto a quello che si crea nell’ambito di una mostra d’arte. Quest’ultima situazione concede una partecipazione delle persone a livello cerebrale, nelle serate in giro per l’Italia, invece, l’artista ha potuto registrare un coinvolgimento libero e spontaneo tra il soggetto che guarda e l’oggetto guardato. L’autore ha confessato di essersi sentito, all’inizio, infastidito nell’assistere alla visione del video durante l’esibizione di Loguercio: «provavo disagio nel sentire il suono in asincrono, lo schermo non ottimale…, ma a ben guardare anche senza la loro giusta collocazione rispetto alla musica le immagini non subiscono significativi stravolgimenti quindi ora sono molto meno apprensivo» 50. Non solo il messaggio implicito al video non viene mistificato, ma, inserito in questo rapporto emozionale con il pubblico, la forza comunicativa del lavoro di Matarazzo ne esce rinvigorita, acquisisce un valore aggiunto 51.

Per lasciare una traccia tangibile di un’esperienza così ricca e partecipata è prevista, inoltre, per l’autunno del 2006, grazie all’appoggio editoriale de “il manifesto”, l’uscita di un cofanetto contenente il cd con le musiche di Loguercio, il dvd, più gli interventi cartacei di alcuni di coloro che hanno preso parte alle serate dal vivo.
La “Carovana” non è stata la sola occasione in cui il video è servito da input per lo sviluppo di indipendenti e autonome sperimentazioni artistiche, questa volta condotte dallo stesso Matarazzo. Sembra quasi che l’autore non riesca a chiudere il suo rapporto con l’esperienza di Miserere 52.

Dopo avere riportato su tela, tramite la tecnica aerografica, alcuni frame del video, nel maggio del 2006, nella galleria partenopea di Guido Cabib 53, ha allestito una mostra, dal titolo 10 secondi, organizzata attorno ad alcuni di questi acrilici, quelli che ritraggono Luigi, l’uomo con la bombetta. Per la durata dell’evento gli spazi espositivi, come riferisce Renata Caragliano dalle pagine di “La Repubblica”, sono diventati «un unico grande schermo da cui è possibile vedere, sentire e percepire più cose simultaneamente» 54.

L’ambiente ha accolto una complessa istallazione: dieci grandi tele, caratterizzate da un esasperato iperrealismo e illuminate da una luce bassa e diretta, rimandano il volto dell’uomo, contemporaneamente al filmato proiettato in loop su di un telo trasparente dietro il quale si intravedono una carrozzina e un cappello. Tutte le immagini, sia quelle dipinte, che quelle videoproiettate, sono tratte dalla medesima sequenza (dieci secondi) di Miserere.

Ad arricchire la serata inaugurale la performance dello stesso Luigi che si è posizionato dietro il tessuto leggerissimo dello schermo di proiezione a sfogliare un album di famiglia, mentre la voce di Giorgio Gaber recitava frasi del suo racconto Il babbo, il gatto e l’albero. È stata compiuta quella che l’artista definisce «una truffa semantica» 55 in cui realtà e finzione si confondono costituendo un equilibrio traballante che fa scattare qualcosa nella sensibilità dello spettatore, traghettandolo fuori dall’assuefazione dei linguaggi specialistici.

Con questa istallazione Antonello Matarazzo da una parte ha voluto testimoniare come in campo artistico non ci siano limiti tra i vari linguaggi, «l’arte – dice – è una menzogna, una bugia necessaria a raggiungere il cuore delle cose. A questo scopo tutti i mezzi di comunicazione sono leciti» 56; dall’altra ha confermato l’autenticità del suo rapporto con il disagio, estraneo a pietismi e stucchevoli moralismi. Sono dieci secondi della vita di un diversamente abile, che, pur svelando una parte infinitesimale del mondo, attraverso l’effetto moltiplicatore, mostrano, citando Longino, «l’eco di un alto sentire». L’intersezione di più piani visivi e percettivi, l’amplificazione delle immagini, produco uno straniamento nel pubblico, che, allontanato dall’assuefazione dei linguaggi specifici, si attiva nei confronti di ciò che vede, sentendosi partecipe di quel mistero della vita che le immagini raccontano.

Conclusioni
Matti da slegare, A proposito di sentimentiAmleto…frammenti e Miserere (Cantus) testimoniano l’uso nobile che del cinema può essere fatto: non solo strumento di intrattenimento, narcotico per coscienze, sedativo per libere idee, ma macchina per pensare. Far riflettere prima di tutto il regista il quale per raccontare ha bisogno di impostare un dialogo consapevole e onesto con il mondo, in un secondo momento chi le immagini le fruisce. Se lo sguardo del narratore è sincero lo spettatore si può trovare innanzi a una materia visiva vitale e comunicativa, generatrice di interrogativi che come uomo gli appartengono.

Il cinema, il video (in questo caso tutte le opere, eccetto Mattida slegare, usano la tecnologia elettronica), se adoperati con intelligenza, si pongono come mezzi per far luce sui lati oscuri della vita, per illuminare le zone in ombra della nostra contemporaneità che per timore, spesso per indolenza, ci esentiamo dal percorrere. L’obiettivo focalizza l’attenzione del pubblico distratto sugli strappi, le incoerenze, i conflitti, della società, mette a fuoco gli aspetti più marginali del quotidiano, amplifica le voci che provengono dalle periferie umane, dai territori di confine.

Partire dalla realtà, sovrapporre ai volti levigati dei divi, quelli agiti dal tempo e dall’asprezza del destino delle persone comuni, può essere un modo per arginare le formule che alimentano un pericoloso disinteresse alla realtà e agli uomini.
Le immagini in movimento possono stimolare un ascolto più partecipato, introducendo lo spettatore a dei sentimenti, delle considerazioni, dei tempi, che lasciano tracce nella sua memoria. Lo possono fare percorrendo strade diverse, praticando una maggiore aderenza al dato reale, o cercando di esplicitare i significati profondi dell’esistenza, attraverso l’astrazione e la metafora.

Il cinema, oggi più che mai, può essere il luogo di un impegno sociale, dove «ampliare gli orizzonti dello spazio umano offrendo un accesso alle opere, alle idee, e alla scoperta dell’altro; (dove) dare forma alle grandi problematiche del mondo moderno e far condividere, attraverso l’intelligenza di uno sguardo, l’esperienza di una dignità umana» 57

I quattro film fanno proprio questo: partendo dall’espressività dei volti dei protagonisti li raccontano come uomini. Il disagio dell’handicap è inserito in un contesto più ampio, nel quale le emozioni dei disabili si confondono con quelle di ognuno di noi e in questo modo, l’occhio di uno spettatore attento, può scorgere nelle immagini, al di là della particolarità dei contesti affrontati, anche tracce di sé.
Sara Panattoni, 2006

NOTE:
1. B. Di Marino, Il Morphing dell’anima, in Mazzino Montinari (a cura di), Catalogo della 42° Mostra Internazione del Nuovo Cinema di Pesaro, Fondazione Pesaro Nuovo Cinema, Roma, 2006
2. S. Lischi ed E. Marcheschi (a cura di), Invideo 2005. A rovescio, catalogo dell’omonima rassegna video, Revolver, Roma, 2005, p.83
3. S. Cargioli (a cura di), Le arti del video. Sguardi d’autore fra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie, ETS, Pisa, 2004, p. 14
4. Ibidem p. 15
5. F. Cinquemani (a cura di), Malintervista al contemporaneo Miserere, “A’Kiazzera”, giugno 2005
6. Cantante lucano, ma napoletano d’adozione, esordisce all’inizio degli anni Ottanta, insieme tra gli altri a Daniele Sepe, con la formazione Little Italy, nome di spicco della Vesuwave. Dopo l’esperienza con il gruppo fonda con Rocco Petruzzi e Rocco De Rosa, quest’ultimo collaboratore in molti suoi progetti, la casa discografica Little Italy Studio attraverso la quale promuove la sua carriera da solista. Dopo aver partecipato ad alcune raccolte e all’album Viaggi fuori dai paraggi, dell’ex compagno Sepe, nel 2004 esordisce con Indifferentemente che, inizialmente concepito come performance teatrale minimalista e suggestiva da eseguirsi all’interno di appartamenti privati, unisce alla tradizione della canzone napoletana elementi di elettronica e hip pop. Importante è stata anche l’esperienza a RadioUno sulle cui frequenze ha condotto, insieme a Gabriele Frasca, Tommaso Ottoneri e Patrizia Valduga, la trasmissione Audiobox.
7. G. De Angelis, intervista ad Antonello Matarazzo per la tesi di laurea in Scienze della Comunicazione, febbraio 2006, online sul sito www.antonellomatarazzo.it, senza indicazioni di pagina
8. Qualcuno volò sul nido del cuculo (Milos Forman, 1975); Rain man (Barry Levinson, 1988); Idioti (Lars Von Trier, 1998)
9. G. De Angelis, intervista ad Antonello Matarazzo op. cit.
10. Freaks (Tod Browning, 1932); Le chiavi di casa (Gianni Amelio, 2004)
11. Nonostante la pellicola del 1932 abbia influenzato notevolmente il suo percorso artistico, nel quale si è spesso confrontato con la malformazione e la deformazione dei corpi (nel 1998 ha realizzato addirittura un ciclo pittorico dal titolo Freaks, attraverso le cui tele ha omaggiato i protagonisti dell’omonimo film), Matarazzo tuttavia ammette una certa fatica a credere che il progetto complessivo di autore e produttore non tenesse conto dell’impatto che tanta e tale mostruosità avrebbe inevitabilmente e, da un punto di vista pubblicitario, positivamente, avuto sul pubblico.
12. G. De Angelis, intervista ad Antonello Matarazzo op. cit.
13. Le trasformazioni cui è stata soggetta l’idea di bellezza (e conseguentemente del suo contrario, il brutto), nel corso della storia dell’uomo, con tutte le valenze religiose, etiche, morali e sociali ad essa connesse, sono ripercorse in U. Eco (a cura di), Storia della bellezza, Bompiani, Milano, 2004. Il volume A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati op. cit., si concentra invece sulla storia dell’handicap, prestando attenzione al valore e alla raffigurazione della diversità nelle varie epoche.
14. N. Wolf, Diego Velázquez, 1599-1660. Das gesicht Spaniens, Taschen, Koln, 1999, trad. It.: Diego Velázquez, 1599-1660: il volto della Spagna, Taschen, Colonia, 2000 e R. Giorgi (a cura di), Velázquez: luci ed ombre del secolo d’oro, Leonardo Arte, Milano, 1999
15. La Arbus aspirava ad annullare la mediazione del fotografo, l’aspetto più rilevante di una fotografia, a suo avviso, era non la composizione e la resa formale, ma la materia osservata, le persone ritratte: «È importante fare delle brutte fotografie. Sono le brutte che mostrano qualcosa di nuovo. Esse possono farvi conoscere qualcosa che non avevate mai visto, in maniera che ve la farà riconoscere quando la rivedrete … Per me il soggetto di una fotografia è sempre più importante della fotografia …. Penso che la foto è importante per ciò che rappresenta … e ciò che essa rappresenta è più importante di ciò che essa è» in Diane Arbus, Fotografie, (s. i. e.), Milano, 1972, pp. 2-14. Per un approfondimento sulla vita e l’opera della fotografa americana rimando anche a P. Bosworth, Diane Arbus. A biografy, Alfred Knoph, New York, 1984, trad. it.: Diane Arbus. Una biografia, Serra e Riva, Milano, 1987 e P. Bertelli, Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus, Nda Press, Milano, 2006
16. La sua produzione artistica è stata sempre caratterizzata da un’attenzione, quasi ossessiva, per le deformazioni e le anomalie fisiche. Sulle tele prima, nei video poi, Matarazzo si è spesso soffermato su corpi sgraziati e goffi, su volti attoniti ed inebetiti, spesso marcandone i difetti con l’utilizzo di lenti anamorfiche, o effetti di morphing. Testimoni di questa sua attrazione per il brutto i cicli pittorici che si sono susseguiti dalla metà degli anni Novanta ad oggi: a partire da Immagini, per svilupparsi nel lavoro sulle fotografie ingiallite dal tempo in Innocenti e Meridionali, arrivando alle tele di Freaks, e Steak&Steel dove la malformazione è evidente ed esasperata, fino all’ultimo lavoro Sindrome, in cui sono ritratti alcuni bambini Down.
17. F. Cinquemani (a cura di), Malintervista al contemporaneo Miserere op. cit.
18. Dante Alighieri, Purgatorio, Canto V, vv. 22-24
19. In particolare, secondo quanto riportato nel Secondo Libro di Samuele il Misere fu composto da Davide per lavare il peccato di adulterio con Betsabea, moglie del generale Uria. Scopertala incinta Davide richiama il marito di lei a Gerusalemme cercando di indurlo a passare una notte con la moglie, non riuscendoci decide di rispedire Uria al fronte, dove si assicura la sua morte. Dopo il convenuto periodo di lutto il re sposa Betsabea, ma quando il figlio, frutto dell’adulterio muore poco dopo la nascita, Davide comprende pienamente il suo peccato e compone il Salmo 51, il Miserere.
20. Salmi 51,3
21. Salmi 51,7
22. G. Perretta, …à rebours de l’écran, Steak&Steel, catalogo mostra, International Printing Editore, Avellino, 2005, on-line sul sito www.antonellomatarazzo.it, senza indicazioni di pagina.
23. Salmi 51,15
24. Canio Loguercio, Miserere
25. E. De Martino, Sud e Magia, Feltrinelli, Milano, 1977, p.9
26. Ibidem, pp. 66-67
27. Luigi, Armando e Susy sono affiancati da tre attori professionisti, Camy Reza, Barbara Matetich e Massimo Borriello, chiamati a confrontarsi con l’handicap motorio.
28. Questo trattamento dello spazio è legato alla natura stessa dell’immagine elettronica che «più di qualsiasi altro medium, è riuscita a rappresentare la deflagrazione dello spazio contenitore di oggetti, ponendolo in essere come un processo in continua trasformazione e come estensione al di là dei limiti del visibile. Uno spazio senza confini, fluido e in movimento…In questo spazio il soggetto è diventato un errante e un veggente nel contempo, colui che si muove incessantemente reiterando traiettorie, gesti e percorsi perché privo di destinazione e colui che si blocca a guardare un mondo di ombre in cui non ci sono nessi e raccordi o, più spesso, che si volge a guardare all’interno di sé, un paesaggio mentale» V. Valentini, La figura umana nel paesaggio elettronico in V. Valentini (a cura di), Le storie del video, Bulzoni, Roma, 2003, pp. 81-82
29. È un termine ricorrente nelle formule dei riti magici meridionali. Il “maleviento”, o “male viente”, a seconda della zona geografica, viene rappresentato, nella tradizione, con le stesse caratteristiche della fascinazione: «come una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona…che “va per la via” in cerca delle sue vittime» E. De Martino, Sud e Magia op. cit., pp.13-23.
30. Nelle culture arcaiche la malformazione è percepita «come segno di appartenenza ad un mondo altro…incute timore, ma anche riverenza perché è segno di poteri particolari. Di un rapporto con il mondo degli inferi, con il mondo ultraterreno. Sciamani, veggenti, guaritori spesso presentano deformazioni fisiche ed in particolare alcuni deficit come la cecità e la claudicazione.» A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati op. cit., p.140.
31. Canio Loguercio, Miserere
32. L’immagine dell’infanzia come via d’uscita dall’ineluttabile immobilismo della vita è rafforzata dal colore stesso delle vesti della bambina: tutti i personaggi di Miserere, anche il dio cieco e claudicante, sono vestiti di nero, portano il lutto per un’esistenza di angoscia e di sofferenza, piena di ostacoli insormontabili, di pericoli a cui arrendersi, la piccola indossa invece una candida veste bianca, che esprime la purezza del suo sguardo dinnanzi al mondo, dove tutto è sorpresa e sapere.
33. L’artista avellinese ha realizzato il primo video, The Fable (2000), per accompagnare una sua personale. Tuttavia il lavoro, dopo essere stato visionato da Enrico Ghezzi, ha avuto una vita e una fortuna indipendente dalla produzione pittorica: selezionato per il Festival di Bellaria, ha segnato l’inizio della sperimentazione audiovisiva dell’autore.
34. Gli artisti che si riconoscono nel Medialismo «lavorano su una definizione di immagine che si basa su un trasferimento da un medium all’altro, un riversare che nel suo percorso condiziona le sorti morfologiche dell’immagine mimetizzata spingendola a una dimensione più mentale…Gli artisti odierni non concretizzano più un’idea o una visione astratta in un’immagine, ma riproducono ciò che ritrovano altrove, nei media, nelle immagini dei rotocalchi, nelle fotografie storiche, in immagini fotografiche del quotidiano, in immagini riprese dal video, nei codici del fumetto, nel tatuaggio, nel cinema ecc. Si tratta di una realtà riciclata dall’universo mediologico, in altri termini: una realtà stornata dalla riproduzione della riproduzione della realtà. La circolarità di tali scambi, se prima aveva favorito una dimensione di coagulo tra culture alte e basse, oggi sposta questa miscela verso i propositi operativi di una nuova arte applicata…» G. Perretta, Realismo mediale, “Flash Art” n. 219, dicembre 1999/gennaio 2000. Per approfondire le coordinate del movimento rinvio a G. Perretta, Medialismo, Politi, Milano, 1993
35. T. Casini, intervista ad Antonello Matarazzo per la 42 ° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, giugno 2006, on-line sul sito www.antonellomatarazzo.it
36. L’argomento è affrontato dettagliatamente in A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002 e in L. De Franceschi (a cura di), Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, Lindau, Torino, 2003. Tappa importante del dibattito sulle trasformazioni portate dal cinema nel mondo delle arti figurative è inoltre il saggio di W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit , in W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp, Frankfurt, 1955, trad. it.: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino, 1966
37. A. Costa, Il cinema e le arti visive op. cit., p.151. Interessanti esperienze che documentano gli intensi scambi tra il video e il sistema delle arti sono riportate in S. Cargioli (a cura di), Le arti del video. Sguardi d’autore fra pittura, fotografia, cinema e nuove tecnologie, op. cit.
38. A. Costa, Il cinema e le arti visive op. cit., p. 153.
39. S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Scuola Nazionale di Cinema, Roma, 2001, p. 34
40. A. Amaducci, Il video. L’immagine elettronica creativa, Lindau, Torino, 2001, p. 99
41. T. Casini, intervista ad Antonello Matarazzo per la 42° Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro op. cit.
42. Mia intervista ad Antonello Matarazzo, 12 settembre 2006, in appendice p.249
43. La scelta del copricapo, avvenuta, secondo quanto riferisce Matarazzo, senza fini precisi (aveva quel cappello e ha trovato che in testa a Luigi stesse benissimo) si è mostrata, comunque, molto azzeccata, se si considera la coincidenza tra lo scopo principale di Miserere, raccontare la condizione generale dell’uomo, e quello che afferma Magritte circa il fatto che «la bombetta non rappresenta una sorpresa. È un copricapo per nulla originale. L’uomo con la bombetta è un uomo ordinario» R. Magritte in M. Paquet, Réne Magritte, 1998-1967 : le pensée visible, Taschen, Cologne, 1993 trad. it.: Réne Magritte, 1998-1967: il pensiero visibile, Taschen, Colonia, 2001, p.84
44. L. Carlucci (a cura di), Francis Bacon, catalogo mostra, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, 1962, p.18
45. L. Scutenaire in G. Ollinger, Z. e F. Leen (a cura di), Magritte, Charly Herscovici, Bruxelles, 1998, trad. it.: Magritte, Rizzoli, Milano, 1998, pag. 15. Per un approfondimento sull’opera di Réne Magritte rinvio anche a A. M. Hammacher (a cura di), Magritte, Harry N. Abrams, New York, 1973, trad.it.: Magritte, Garzanti, Milano, 1981
46. G. Ollinger, Z. e F. Leen (a cura di), Magritte op. cit., p.15
47. R. Magritte ibidem, p.15.
48. L. Carlucci, Francis Bacon op.cit, p. 10.
49. M. Leiris, Francis Bacon. Face et profil, Albin Michel, Paris, 1983 trad. it.: Francis Bacon, Rizzoli, Milano, 1983, p. 27
50. www.miserere.info
51. Mia intervista ad Antonello Matarazzo, 12 settembre 2006, in appendice p.245
52. Prima nell’ambito del cinema d’avanguardia, poi nella produzione elettronica e digitale, si è molto discusso sui modi e gli spazzi della visione. Interessanti riflessioni a questo proposito sono contenute in S. Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video op. cit.
53. D’altra parte il riutilizzo delle immagini in esperienze diverse è uno dei principi cardini del Medialismo. «Il lavoro artistico contemporaneo ha la caratteristica di perseguire una novità quando ri-situa, ri-colloca, ri-analizza. Non è dunque importante il solo segno che usiamo, ma come e perché lo usiamo. Non è indispensabile stabilire l’unicità del segno che usiamo, ma dare sfogo al senso in cui lo caliamo…Spesso l’opera si svolge passando da immagine ad immagine senza mai esaurirsi, spostando in se stessa il centro di gravità. Una fatalità che non può più significare soltanto accettazione di un destino del segno che incombe, ma amor fati, ossia desiderio dell’infinita apertura dell’accadere e del fare, del creare e del formare.» G. Perretta, Espropriarsi e darsi, in Antonello Matarazazzo, catalogo mostra, Edizioni d’Arte, Benevento, 1997, on-line sul sito www.antonellomatarazzo.it, senza indicazione di pagina
54. La Changing Role Home Gallery, in via Foria.
55. R. Caragliano, Ecco gli effetti speciali dell’artista videomaker, “La Repubblica”, 17 maggio 2006
56. R. Lucianetti, 10 secondi di Antonello Matarazzo: intervista all’artista per www.shortvillage.com, 18 maggio 2006
57. Il discorso del produttore francese Thierry Garrel introduce il Manifesto di Documè (circuito indipendente del documentario etico e sociale), riportato sul sito www.docume.org

Una calma apparente, una leggerezza inquieta, una visione adulta ed infantile, un racconto a ritroso che con potenza guarda al futuro. Queste sensazioni caratterizzano l’ouverture dell’ultimo video firmato da Antonello Matarazzo Interferenze (che prende il nome dall’omonimo New Art Festival di San Martino Valle Caudina). Ancor più indicativo è il sottotitolo – Rumori, visioni, bit di campagna, e altro ancora – che ha caratterizzato l’edizione 2005 del Festival, edizione alla quale è dedicato il video che è stato presentato alla 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. (È possibile vedere il trailer di 8’49: https://www.youtube.com/interferenze).

Il video è costruito per frammenti, montaggi veloci, sovrapposizioni (alle volte di gustosa ironia), interferenze d’avanzamento elettronico, il tutto arricchito da una serie di interviste (Initials BB, Midaircondo, Robert Praxmarer; Maja Ratkje, Alexei Shulgin) e marcati transiti musicali (Frame, Initials BB, Jan Jelinek, Maja Ratkje, Midaircondo, Populous, Slow Motion). Una sorta di viaggio audiovisivo verso le principali esperienze della ricerca sonora e delle immagini elettroniche della nostra contemporaneità. Interferenze pur essendo un documentario, e quindi una sorta di lavoro atto a “conservare” e dare informazioni “storicizzanti”, è al contempo una potente operazione video-artistica che non fa assolutamente dimenticare che dietro la telecamera (nel chiuso dello spazio del montaggio) c’è Antonello Matarazzo con tutto il suo bagaglio di visioni e attentati alla visione, con la sua lucida ed appassionata irruenza di cantore di una complessa contemporaneità, insomma ritroviamo il Matarazzo nella pienezza dei suoi assalti frontali verso il cinema, il pittorico, la frammentazione elettronica, l’articolarsi delle sonorità e la ricchezza mediale che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare nelle sue precedenti sperimentazioni audiovisive e foto-pittoriche (per un’analisi ed una visione dettagliata rimando al suo sito: www.antonellomatarazzo.it, dove accanto alle sezioni “immagini”, “video” e “bio” compare anche una nutrita sezione “press” con analisi critiche firmate, tra gli altri, da Gabriele Perretta, Enrico Ghezzi, Marisa Vescovo e altri).

Personaggio “principale” di Interferenze è un cuoco, che nel chiuso della sua stanza rigata da ombre di luce, affaccia sulla piazza dove si svolgerà l’evento dedicato alla musica e alle arti elettroniche. E così tra interviste, sound-ceck, prove tecniche, giochi, momenti live… seguiamo la giornata di questo signore di almeno 200 chili (che non puo’ non ricordare i Freaks cari all’immaginario di Matarazzo). “Il suo risveglio – giustamente nota Adelina Preziosi sul n°141 di Segnocinema – con la telecamera che riprende il profilo del ventre supino, le gambe e i piedi giù dal letto, le piastrelle di cotto, il bagno, la scala, è quasi una citazione di Carlo Michele Schirinzi, a sua volta artista e videomaker (con Matarazzo ha collaborato nel 2002 alla realizzazione di Astrolìte) che lavora sulle immagini e sui suoni per affrancare i corpi dal peso del simulacro indicando a essi (esso) la via verso una sorta di santità”. Quindi ancora ritorni, citazioni, contaminazioni, interferenze. Ancora un importante lavoro di densa visionarietà firmato: Antonello Matarazzo.

Alfonso Amendola (nimmagazine.it, novembre 2006) 

Passeggiate nel Cinema 

(…) È il caso di Apice vecchia, il borgo dell’Irpinia abbandonato da un quarto di secolo, ma lasciato inspiegabilmente intatto dal terremoto, abitato da lucertole e chissà da fantasmi allertati in modo palpabile da un protratto risuonare di passi sconosciuti: e non a torto, visto che si tratta di un commesso viaggiatore intenzionato a ripopolare il paese con animaletti meccanici telecomandati. (…)

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – anno XXVI, N° 141, sett/ott 2006)


Il morphing dell’anima

(…) I lavori di Matarazzo sono indissolubilmente legati al territorio in cui l’artista vive: l’Irpinia. C’è un forte sentimento di appartenenza a un luogo e al tempo stesso la capacità di descriverli, di rappresentarli con un distacco ironico, con uno sguardo marziano. L’Irpinia vista dalla luna, insomma. Lo strano visitatore di Apice (2004), rappresentante di commercio o alieno sotto vesti umane, che ripiomba in questo paesino del beneventano totalmente abbandonato (forse per via del terremoto), è il muto testimone di una realtà molto italiana, fatta da migliaia di piccoli borghi antichi desertificati perché gli abitanti hanno preferito andare ad abitare in orrende case di osceni paesi ricostruiti ex-novo a valle. Ma è anche il protagonista di un quadro metafisico, di uno spazio irreale e carico di atmosfere e di sospensioni. L’Italia del Sud, dove Matarazzo vive e lavora, è piena di questi paradossi urbanistici, di questi scarti esistenziali. Naturalmente il livello “sociologico” passa in secondo piano, l’attraversamento del borgo fantasma – che sembra, incredibilmente, sia stato abbandonato appena il giorno prima – serve all’artista per rimarcare un’estetica dello svuotamento (esteriore ed interiore, che tocca la nostra coscienza collettiva). Il set “naturale” a sua completa disposizione, come un intero villaggio western, gli serve ad aggiungere un altro tassello al suo “surrealismo irpino”. (…)

Bruno Di Marino  (dal catalogo 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ed. Fond. Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2006)


Video o dell’opera totale in Antonello Matarazzo

(…) Due date sono alla base dei video di cui di seguito parliamo, due momenti epocali differenti ma che hanno cambiato la pelle delle cose. E la ricerca video di Antonello Matarazzo ha voluto ricordarcele attraverso la sua idea visionaria e di contaminazione delle forme e degli stili.(…) Apice (2004) ci parla del terremoto che colpì l’Irpinia (e altre zone della Campania e della Lucania) il 23 novembre 1980. Il nome è quello di un paese colpito dall’evento naturale, ma dove non crollò alcuna casa. Questa particolarità tra le macerie degli altri paesaggi vuol essere un racconto sulla sopravvivenza come paralisi, sulla solitudine, sul silenzio. Ambedue i video vogliono oltrepassare gli schemi, rompere le pareti della normalità per approdare ad una riflessione fatta di novità, di esasperazioni percettive. Sulla base di queste video-azioni artistiche Antonello Matarazzo sembra riflettere sulla mutazione dell’idea di “cinema civile”, comprendendo che può esser utilizzato qualsiasi supporto comunicativo per giungere ad uno scopo definito, uno scopo attraverso il quale trasmettere il rapporto (il più delle volte conflittuale) con il mondo in cui si vive. E qui tornano le lezioni lampanti di Warhol, Zavattini e soprattutto di Guy Debord. (…)

Alfonso Amendola  (dal catalogo Steack&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005) 


Un po’ d’irpina al Torino Film Festival

(…) Il 19 novembre sarà proiettata la prima di Apice, il film di Antonello Matarazzo, pittore e videomaker avellinese presente per il terzo anno consecutivo al Festival. Apice è uno dei tanti paesini, della Comunità Montana dell’Irpinia, fatto evacuare dopo il terremoto del 1980. Una cosa in particolare lo differenzia dagli altri: le sue case sono apparentemente intatte. Apice è un film su un paese che sopravvive in una sorta di stasi ottusa, dimentico dell’uomo e dall’uomo dimenticato, in cui le uniche forme di vita sono costituite da qualche animale e dalla vegetazione incipiente. Unico personaggio: un uomo, forse un abitante di Apice prima del terremoto, il quale ritorna portando con sé una valigia e un’idea. Di nerovestito cammina frettoloso e rigido per i vicoli che sembrano a loro volta spiarlo, guardarlo con riluttanza e paura. L’unico suono è dato dai passi del visitatore che rimbombano in un silenzio irreale. Improvvisamente in maniera del tutto estraniante irrompe la musica di tre pupazzetti meccanici (di quelli che abbondano sulle bancarelle ambulanti per bambini). Questa è l’dea che l’uomo porta con sé. Il suo sorriso ebete e plastificato, nel vedere i pupazzetti agitarsi nella pazza del paese, sembra essere complementare alla successiva immagine (l’ultima del film): una cartolina di Apice datata 1952. In quest’ultima sequenza si esaurisce lo sguardo disincantato dell’autore: Apice è un film di un’ironia genuina che senza tanti trucchi racconta le contraddizioni di una terra che tende a ripiegarsi su se stessa e, se decide di aprirsi, spesso lo fa rinnegandosi, accogliendo idee sbagliate, intrusive e inutili. L’idea è buona: riportare vita in un luogo che merita essere riscoperto anche solo per la sua bellezza, peccato solo che essa abbia un’anima artificiale, meccanica.

Adriana Percopo  (L’UNITA’ – 16/11/04) 

Un oggetto complesso, plurimediale, in linea con una tendenza della nuova poesia e della nuova canzone tesa al recupero di un’oralità drammatica e di una visività acustica. L’effetto è quello di un concept album, di un flusso sonoro e verbale, di un teatro senza scena, avvolgente e meditativo. 
Enzo Mansueto – CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

Uno spettacolo work in progress, preghiera della protesta di un mondo smarrito, rabbioso e ironico, dove l’itinerario di un gruppo di disabili sulle loro carrozzelle guidati da Canio Loguercio e al seguito del regista Antonello Matarazzo (che vi gira il suo Miserere (cantus), dedicato «a tutti coloro che non possono affermare con assoluta certezza l’esistenza di Dio»), si snoda come una novella «via lattea» di bunueliana memoria.
Michele Fumagallo – IL MANIFESTO

Protagonista il talkin verace di Canio, che rilegge “Voce ‘e notte” e “Era de maggio” tra Vinicio Capossela, Tom Waits e le basi midi che infestano la rete, salmodia in stile Battiato (Ferretti) del sud; difficile capire dove finisce la tradizione e dove comincia l’avanguardia, ancora più difficile non unirsi alla contagiosa litania che si illumina d’immenso quando è attraversata dalla voce di Maria Pia De Vito e dalla tromba di Paolo Fresu.
Federico Vacalebre – IL MATTINO

Affascinante progetto che si muove tra musica e performance. E’ uno stratificarsi di sguardi e registri diversi quello che si compie nella parte letteraria, istanze e sospiri, negazioni e aperture. (…) Infine c’è il DVD, l’intenso poema digitale di Antonello Matarazzo, invalidi in sedia rotella all’Italsider come in un inferno dantesco (…) Le tre parti dell’opera sono incastrate in maniera armonica e il pacchetto ha un modo intelligente e diretto di proporsi.
Christian Zingales – BLOW UP

Performance musical-teatrale con notevoli contributi di giovani-poeti che si offre come opera aperta itinerante, come ‘preghiera d’amore al netto d’indulgenze e per appuntamento’. 
Roberto Casalini – IL CORRIERE DELLA SERA

***

Noi corpi. Caravan con Canio Loguercio   

In principio era la carne, / carne nuda e sola / carne senza verbo e parola.
Carne carne carne / Che da sola si rivolta / Che si attuffa sui selciati a più non posso, / che urla, che si lagna.
Grida la folla di farla fuori quella carne / che salata riveste il tuo corpo celeste.
Questa carne che da sola esala l’ultima parola / e sospira, quando è rossa la sera, / per l’ultima preghiera
.

Sono parole pronunciate da Sara Ventroni, la prima delle voci che incontriamo in Miserere, la suite musicale che Canio Loguercio, with a little help from his friends Rocco De Rosa, Maria Pia De Vito e Paolo Fresu (e Edvard Grieg, e Gregorio Allegri, e Roberto Paci Dalò, e non so più chi altro), ha amorosamente cucito, come un buon vestito antico, attorno alle parole di preghiera d’amore al netto di indulgenze e per appuntamento. Parole proprie e di un pugno di poeti fra quelli oggi più vivi e scalcianti: da un ipnotico-regressivo Gabriele Frasca a un ronzante-sussurrante Tommaso Ottonieri, dall’ironico-derviscia addetta a fremere Rosaria Lo Russo all’epico-mareggiante Lello Voce.

Nel visionario Miserere girato da Antonello Matarazzo, un Canio nerovestito e nerocchialuto (come menagramo pirandello-decurtisiano) maneggia variamente, agita ticchettante e infine depone mite – ramo d’oro o libro di Prospero – la sua cannuccia à la Charlot… Tenue e rigida, insieme: proprio come ci s’immagina una bacchetta magica degna di questo nome. Quest’hilarotragico Canio (Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol che t’avvelena il cor!…), becketteggiante anzi che no (Zitto, zitto scava, taglia, pogne, / zuca sanghe, piscia e caca), conduce – ma segue, infine – una teoria di parimenti nerovestiti diversamente abili (oscenamente, oggi, così eufemizzati) assisi sulle loro carrozzelle. Esplorando doloranti gli atri muscosi e stillanti, l’imprevedibile verdeggiare degli stabilimenti di Bagnoli. Tra presse ciclopiche, macine immani e imponenti catene rugginose. Area dismessa, quella dell’Italsider: emblema di un Sud mai redento e per molti – e per sé – irredimibile: a dispetto (e forse in virtù) dei più titanici, dei più prometeici sforzi.
Redenzione: ecco, è questa la parola chiave. Come quella ventosa cattedrale di ruggine attende-disattende la sua improbabile-utopica rifunzionalizzazione (per usare un altro monstrum italoburocratico), così ecco noi corpi variamente danneggiati d’imperfetti bipedi sublunari, eccoci a chiedere mercè, a disperatamente vagheggiare la salute, una qualche salute, un’irresistibile salute precaria. (E qualcuno, magari, proprio il corpo celeste della Bestia-Dea, della gnostica A.M.O. alias Anna Maria Ortese.) Ci battiamo il petto, ci fustighiamo per quelle ferite, quei tagli e quegli sbreghi che rechiamo, che ci segnano in profondo, che più non possiamo dissimulare – che oscuramente, insomma, sappiamo bene essere colpa nostra, e di nessun altro:

misere, de ccarne… e ‘o riesto ‘e tutt’a mercanzia,
pietà per sti cecenielle, pe sta malatia
ca sta facenn’ i verme e sfrennesea…

…’O riesto ‘e tutt’a mercanzia… La nostalgia dell’umano abita solo qui, in ciò che s’accampa quale resto: fra i prodotti esposti sull’IperScaffale, noi pezzi di carne sul Grande Bancone, avariati bocconcini perfettamente disutili all’universale mercatare al quale pare ridotto l’universo mondo dei rapporti, degli scambi – un tempo ben diversi, ben strani e avventurosi – fra l’uomo e l’altro uomo. Ecco: la forma della carovana – l’andare in fila indiana verso la forma simbolica di quel mulino le cui pale, malgrado tutto, continuano a girare – è un’altra forma simbolica di quelle eloquenti. Uno dietro l’altro, noi imperfetti, in icastica social catena leopardiana. Come girano, frusciando silenziose, le nostre ruote diverse alla volta dei mulini in movimento, così si incastrano una nell’altra le parole dei poeti – una voce a sfumare sull’altra, ad abbracciare l’altra. Una carovana di parole – alle quali si aggiungono altri testi ancora, spontaneamente aggiuntisi, di altre voci, di altri corpi: da Franco Arminio a Maria Grazia Calandrone.
È la catena dell’essere-con dei filosofi; o forse, semplicemente, una catena di Sant’Antonio. Le catene, si diceva una volta, sono tutto quello che abbiamo da perdere. Ma arrivati a questo punto a noi, quel poco che ci resta, non pare così poco.

Andrea Cortellessa  (Introduzione completa del libro/cd/dvd Miserere – ed. Squilibri, Roma 2006)


Il Miserere di Antonello Matarazzo 
 

Dolore non era il nome del titolare, si riferiva invece ad un’acuta sofferenza mentale, al rimorso profondo, all’angoscia intollerabile e roba simile.
Don De Lillo, Players (1977)

Uno dei videoclip più inconsueti nell’area dell’arte digitale è certamente il Miserere (cantus), realizzato da Antonello Matarazzo. Questo video è un’efficace sintesi del Miserere dello stesso autore del 2004 e, nel pieno rispetto del video originario, rimane assai lirico, intenso e definitivo.(1)
Devo confessare che, guardandolo a distanza di tempo, esso mi appare come la ratifica finale di una ricerca sul patimento, sul dramma e sul dolore, perseguita in maniera assai originale sin dall’inizio della sua elaborazione. Miserere è un grido costante alla liberazione dall’oppressione gemila del male; in quanto narrazione della sofferenza fisica, è una forma affilata di attenzione per quel teatro della vita che non rinuncia a scegliere tra il disagio di quelli che si sentono accompagnati solo dalle voci, dalle ombre e dalle storie dei disagiati. Senza nessuna forma di affettazione letteraria, il video si fonda sulla storia di tre incantevoli figure della “tecnologia del sofferto”, intorno a cui ruotano le vicende di questo tentativo Sinfonico-Visivo. Difatti, la deposizione di realtà è scritta tra le stesse testimonianze che scorrono nella sequenza di immagini, come una processione senza fine.

Scavando in esso, siamo stimolati ad allontanarci verso altri riferimenti storici, trasferendoci verso una sorta di rimando impressionistico/espressionistico/fauves: il pittore Georges Rouault, il quale rivolse sempre la sua attenzione ai diseredati, gli oppressi, i sofferenti, le prostitute, i clown, i saltimbanchi o le maschere della Commedia dell’arte; come anche le scritture del suo amico Léon Bloy, o ancora Joris-Karl Huysmans, autore di A Rebours. Matarazzo però ribalta la lezione di Rouault! Senza ostentare alcuna traiettoria espressionistica nel video viene respinto il facile aspetto deduttivo dell’equazione sofferenza-espressività. Rimane il realismo, ma si tratta di un realismo mediale, digitale, visionario, cosciente del fatto che oggi la comicità sarebbe da imputare a chi vuole vedere nell’esasperazione dell’immagine, sempre e comunque, una componente psicotica. Qui la violenza non registra un’attenzione di culto, ma una consapevole ragione analitica che, nell’attenzione scrupolosa che si confonde con la descrizione della realtà, sollecita i segni furenti, le tracce dissociate di qualcosa di indeterminato.

Georges Rouault, allievo di G. Moreau, dal 1917 al 1927 elaborò varie serie di stampe, tra cui la più famosa comprende i 58 fogli del Miserere. Il tema era quello del dolore che scaturisce dalla guerra e dalla desolata condizione dell’uomo moderno. Nel Miserere di Rouault, si susseguono personaggi singolari e diversi: il cinese che ha inventato la polvere da sparo, i disturbati mentali, i condannati dalla vita e dalla società, gli avvocati che dovevano difenderli, gli oppressi. Nonostante si è portati a credere che l’espressività di Rouault sia tutta manuale, ricavata dall’artigianalità del pennello e del bulino, molti dei lavori grafici del celebre parigino sono in realtà fogli di grafica ottenuti con processi fotomeccanici e manualmente ripresi. Tale sfumatura tecnica dimostra che gli artisti che hanno trattato i temi del dolore si sono anche occupati del passaggio tra sofferenza e tecnologia. A giusto titolo, quindi, pure l’opera video, la clip metallica che porta in sintesi un procedimento di lavoro più ampio, è un ibrido che risente di tutte le tecniche. Un artista mediale, per forza di cose, si trova di fronte ad una pratica incrociata, perché l’accavallamento e la sovrapposizione delle tecniche è insita nella sua stessa configurazione sociale.

Allora, se il Miserere di Rouault è tradizionalmente cristiano-socialista, il Miserere di Matarazzo è post-tecnologico e post-Kantoriano, con un leggero e sottile presagio cyber-archeologico. In effetti, è come se nelle sequenze del Miserere rivedessi gli Ammessi in Scena di Leo De Berardinis e di Perla Peragallo del Teatro di Marigliano. Guardando i personaggi è facile avvertire una leggera evocazione della figura artaudiana di Sebastiano Devastato, di Luigi Finizio, di Nunzio Spiezia, Vincenzo Mazza, etc. che si vedevano in King Lacrime Lear Napulitane (1973), Chiantoè risate e risate è chiante (1974), Rusp Spers (1976), Sudd (1979)
In queste rappresentazioni storiche, le distorsioni e i giochi di variazione sulla voce e sulle parole dal dialetto passano all’idioletto (modus operandi globale).

Nel Misererel’esclamazione e il tono penetrante, insidioso, assordante e tragico di Canio Loguercio trasformano la partitura in una sorta di Elegia della disperazione. Inoltre mi ha rinnovato alcune suggestioni vissute grazie al Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller. I personaggi che scorrono sulla scena sono dei fotogrammi in movimento, che idealmente sembrano dipartirsi dalle fotografie di Maurizio Buscarino per Tadeusz Kantor. Un tempo tali suggestioni partivano dal fatto che in quel caso l’attore era il portatore della sua stessa forma di vita, che usciva da una quinta per sfidare il nulla dello spettacolo, passando da un sépare all’altro; qui in Miserere, nella scenografia di una Napoli sempre più al limite della catastrofe, i sei personaggi con un “verso a verso” (da un verso all’altro) – nello scenario di una post-fabbrica (l’Italsider), che si riverbera nella ritualità sofferente dei battenti a sangue di Guardia Sanframondi – si proiettano in “uno strano rituale” senza sbocchi. Sulle immagini il canto di Loguercio, ad un tempo elegante e sordido, accorato e rabbioso, riecheggia l’ecclesiastico Miserere nobis, ma parla di “bavuse e pupatelle” e di “guagliune ‘e malasorte” che “‘a culo ‘nfunno chiove sanghe” e invocando l’agnus dei chiede “pietà pe sta malatia ca sta facenn’ i verme e sfrennesea… miserere ‘e sto tiempo ca nce nfete a fantasia e nun ce fa durmì… pietà!”. Napoli tira fuori ancora una volta la sua condizione di disperata imprevedibilità. Senza dover celebrare la classe mortaMiserere risponde allo stile del realismo psicotico, con una cronaca annunciata di drammi silenziosi e sibillini, che scorrono nella galleria di quelle sofferenze che la nostra vita, la nostra esistenza non è in grado di bloccare, o di ridisegnare senza confondersi con svolgente la tensione quotidiana per la fabula.

Insomma, qui non si tratta del Melodramma, non risuona il Miserere de Il Trovatore di Verdi, sarebbe troppo bello pensare alla pulizia delle musiche di Gregorio Allegri (composizione corale, 1638), o al Miserere (a quattro voci del 1733) di Antonio Lotti: siamo di fronte ad una sorta di teatro interiorizzato per piccoli schermi. Lo spettatore è invitato a riflettere sull’esistenza di chi quotidianamente è allenato a non avere un’esistenza, a non vivere la vita dei battenti a sangue, poiché per tirare avanti deve battersi su un male che non ha mai commesso e per il quale è costretto a gridare Miserere! Questo stravagante caso di comunicazione video, in cui la lezione teatrale e il laboratorio di animazione sociale (e drammatico) scivola sullo schermo, condensa l’impegno politico in una sorta di poétiquedel’écran.

Gabriele Perretta  (Introduzione al video nel libro/cd/dvd Miserere – ed. Squilibri, Roma 2006)

NOTE
1. Il soggetto è di Matarazzo/Caravacci, tra gli interpreti del film, oltre Canio Loguercio, troviamo Aurora Staffa, Luigi Tufano, Armando de Sanctis, Susy Liguori, Massimo Borriello, Camy Reza e Barbara Matetich. La durata del formato originario, in DV, è di 19’, mentre la versione videoclip (al cui montaggio ha collaborato lo stesso Loguercio) è di circa 8’ (quanto la durata del brano musicale). Entrambe le versioni sono state selezionate a numerosi festival in Italia e all’estero: InVideo a Milano, la 62° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il XXVII Mediterranean Film Festival of Montpellier in Francia, solo per citarne alcuni. Miserere (cantus) inoltre è vincitore del 1° Premio Nuovi Linguaggi al Festival d’Arte di Palazzo Venezia.


Strada facendo con Canio Loguercio

“Miserere” è un’opera complessa e di difficile collocazione, a cavallo fra teatro, videoteatro, performance, poesia e canzone

Un prodotto simile a quello proposto da Canio Loguercio con Miserere – composto da libro, cd e dvd – è veramente difficile da trovare sul nostro mercato editoriale. Soprattutto è difficile trovare prodotti che scommettano sulle nuove tecnologie senza prima essere transitati per la televisione. Diciamo inoltre che non è tanto la produzione a ostacolarne la diffusione, visto che la qualità degli strumenti usati da noi non latita, quanto la difficoltà che esso incontra nell’essere accettato e fruito da librai e lettori. Probabilmente è lo sforzo in più, il salto dal “semplice” seguire il discorso sulla pagina stampata che ancora non si riesce a fare. A questo si deve aggiungere la difficoltà di collocazione sugli scaffali, che può acuire una certa diffidenza nei confronti di un simile oggetto culturale innovativo. Fatto sta che bisogna dire grazie a Squilibri, piccola sigla editoriale romana, per aver avuto il coraggio di pubblicare un’opera così interessante e complessa qual è Miserere, col suo porsi a cavallo fra teatro, videoteatro, performance, poesia e canzone. A ben vedere questo progetto artistico plurisettoriale si configura più come una vera opera che, nella sua modernità laica, riprende e aggiorna gli assunti classici di una viandanza religiosa in cui si chiede non tanto pietà, ma una possibile redenzione, un possibile redimersi da un male che s’è fatto corpo e forse anima.

Non per nulla Miserere cantus, il video di Antonello Matarazzo di 8′ (ricostruzione del film originale di 19′ del 2004) inserito nel dvd, mette in scena la fila indiana di sette disabili nerovestiti – tutti su carrozzella meno uno, il cieco – in pellegrinaggio nell’area dismessa e in abbandono dell’Italsider di Bagnoli, sotto le cui strutture si percuotono in segno di una antitetica forma di preghiera. E nel libro e nel cd questo si ripete, poiché Loguercio costruisce il percorso drammaturgico prodotto dalle parole e dalle musiche come una carovana, o un pellegrinaggio, però verso un luogo non meglio precisato, come un anelito a liberarsi da un male che alligna nei nostri corpi e, contemporaneamente, ci sovrasta come ben stigmatizza in Il pentimento-Miserere, unico testo del poeta barese Enzo Mansueto, successivamente raccolto sotto altro titolo nella plaquette Ultracorpi edita dalle edizioni d’If.

Inoltre il percorso di Miserere sembra aver seguito la prassi della raccolta in senso stretto, poiché i testi sono stati raccolti, appunto, nel suo andare, tappa dopo tappa, quasi fossero liberamente offerti da chi voleva partecipare alla carovana, alla sua pressoché autonoma costruzione. E in buona parte è così, dato che insieme alle voci di alcuni fra i migliori poeti proposti in questi anni dalla scena italiana (in ordine di apparizione Sara Ventroni, Tommaso Ottonieri, il già citato Enzo Mansueto, Rosaria Lo Russo, Gabriele Frasca, Lello Voce) l’ultima sezione del libro ospita i contributi “raccolti strada facendo” di altri ottimi autori quali Franco Arminio, Maria Grazia Calandrone. Azzurra D’Agostino, Eugenio Lucrezi e Luigia Sorrentino. Ma la collaborazione di Loguercio va oltre, coinvolgendo nell’impresa di creare un’opera capace di essere fruita con (quasi) tutti i sensi anche il regista Antonello Matarazzo da cui, come abbiamo accennato, sembra essere partita l’accensione della miccia per questo lavoro, e i musicisti Rocco De Rosa, Maria Pia De Vito più il trombettista Paolo Fresu che lo accompagnano nelle performance canore, sia in quelle inedite sia nelle riprese personali e emotivamente sentite di alcune canzoni appassionate, patrimonio della cultura napoletana e mondiale. In più, altre vibrazioni sono state inserite grazie all’apporto musicale, sempre innestato sui testi, di stralci sonori ripresi dall’opera di Edvar Grieg, Gregorio Allegri, Roberto Paci Dalò e dal gruppo degli Arf Arf. Da notare come la voce degli autori sia stata in più occasioni manipolata, rendendola irriconoscibile, e come spesso parti di uno stesso testo venissero ripresi e spostati in altra situazione, così da creare un effetto di spaesamento nel primo caso e di unità scenica e strutturale nel secondo.

Da quanto detto finora, è facile intuire come le tre componenti di Miserere come prodotto artistico unico e trino (la parte testuale, quella sonora e quella visuale, fruibili separatamente senza che l’una vada a detrimento dell’altra, oppure in una sequenza libera, decisa dal lettore) concorrano non solo a ricreare per quanto possibile l’esperienza messa in atto dal vivo, il gesto scenico, il simbolismo della preghiera, e la memoria storica del lavoro (interessante in questo senso, sempre nel dvd, i dieci minuti di intervista a Matarazzo), ma procedano a sviluppare una suasività tutta autonoma verso il lettore, pur restando fili intrecciati in un tessuto dalla trama inestricabile. E’ comunque la tensione appassionante che permea tutto il lavoro a vincere sui sensi del lettore, a posizionarlo in un’aura emotiva che al fondo rimanda all’esergo dantesco messo in calce all’opera, guarda caso in quarta di copertina («E ‘ntanto per la costa di traverso/ venivan genti innanzi a noi un poco,/ cantando “Miserere” a verso a verso»). A leggere questo passo dal Canto V del Purgatorio, tutto diventa più chiaro. La preghiera, il miserere, non è per chiedere pietà, o non solo. E’, volontariamente, una affermazione di stato in luogo e, insieme, un desiderio di fuggire all’immobilità dei tempi come delle menti.

Sergio Rotino  (LIBERAZIONE/QUEER – 05/08/07) 


Miserere, dolente carovana sulla via lattea di Loguercio

«Piano, fate piano per favore,/ non vi accalcate,/ uno alla volta,/ piano per favore,/ senza fretta, non c’è nessuna fretta».
Prega anche così il Miserere di Canio Loguercio, spettacolo video-musicale messo su poco meno di due anni fa, come «preghiera d’amore al netto di indulgenze e per appuntamento», operazione originale in cui il cantautore lucano ha unito, in una sorta di circo felliniano itinerante, una compagnia di tutto rispetto che va dal videoartista Antonello Matarazzo, a vivaci poeti come Gabriele Frasca, Rosaria Lo Russo, Lello Voce, Tommaso Ottonieri, Sara Ventroni, Enzo Mansueto, a musicisti come Paolo Fresu, Maria Pia De Vito, Rocco De Rosa. Oggi quello spettacolo diventa libro più cd e dvd, Il miserere di Canio Lo Guercio (edizioni Squilibri, euro 19). Un libro arricchito da nuovi interventi poetici originali di Franco Arminio, Maria Grazia Calandrone, Azzurra D’Agostino, Eugenio Lucrezi, Luigia Sorrentino.

Uno spettacolo work in progress, preghiera della protesta di un mondo smarrito, rabbioso e ironico, dove l’itinerario di un gruppo di disabili sulle loro carrozzelle guidati da Canio Loguercio e al seguito del regista Antonello Matarazzo (che vi gira il suo Miserere cantus, dedicato «a tutti coloro che non possono affermare con assoluta certezza l’esistenza di Dio»), si snoda come una novella «via lattea» di bunueliana memoria. Una carovana che gira tra le macerie dismesse dei capannoni dell’ex Italsider di Bagnoli di Napoli, archeologia industriale che rimanda anche a un mondo in quasi impossibile ricomposizione, per terminare (terminare?) tra le pale eoliche delle montagne dell’interno, nuovi mulini a vento dove proseguono la loro processione laica i disabili in carrozzella. Novelli guitti, che sanno sorridere al momento opportuno, sanno vivere tra di loro e con gli altri, autonomia conquistata a prezzo salato ma lontana da un mondo sano forse irrimediabilmente perduto. Le canzoni di Canio Loguercio, a partire dall’uso di una lingua amatissima come il napoletano, accompagnano, insieme alla voce di Maria Pia De Vito, alla tromba di Paolo Fresu e alle tastiere di Rocco De Rosa, questa bella preghiera sulla sofferenza umana come una moderna processione di misteri e dolori (la storia è scomposta nel video dalle scene della processione dei Battenti di Guardia Sanframondi).

E così le canzoni si alternano ai versi dei poeti. Canzoni che hanno i nomi delle preghiere (accettazione, raccoglimento, pentimento) così come le poesie sono canti laici di altrettante preghiere («Questa carne che da sola esala l’ultima parola / e sospira…» recita la voce di Sara Ventroni all’inizio del Miserere). Loguercio, che con Indifferentemente, primo cd da solista (i cd del manifesto) aveva già messo in gioco tutte le sue esperienze passate, con questa ultima operazione, si misura ancor di più con i meccanismi di una originale e amata multimedialità.

A quattro mani con una delle espressioni più interessanti dell’ultima generazione di videoartisti, Antonello Matarazzo, che, iniziato il suo cammino di pittore con le rivisitazioni dei Freaks di Tod Browning (lo straordinario film sui «deformi» del 1932), è riapprodato di nuovo al rapporto con uomini e donne più sfortunati. «Spero di aver affrontato un’altra lettura della disabilità -racconta in una intervista nel dvd- decontestualizzata. Il disabile di solito cammina in luoghi in cui gli si consente di camminare». Certo non tra le macerie di una speranza industriale finita. Il libro è dedicato alla memoria di Pasquale Trivigno, musicista e tecnico del suono protagonista di questa operazione, scomparso l’anno scorsoi.

Michele Fumagallo  (IL MANIFESTO – 07/04/07)


Matarazzo, quando il video diventa opera totale

Tutto il lavoro di Antonello Matarazzo è dialogo, costruzione e, come più volte sottolineato, contaminazione di forme e stili (in piena linea con le idee guida del Medialismo). Con il suo lavoro più recente, Miserere (2005), Antonello Matarazzo stringe un sodalizio professionale con il musicista Canio Loguercio. Per quanto riguarda il video, al momento esistono due versioni: una di 20 minuti con musiche originali di Canio Loguercio e Fabrizio Castanìa e un videoclip di 8 minuti per il solo brano (Miserere) di Loguercio, ma l’operazione è più articolata e punta a realizzare un vero e proprio lavoro multimediale fatto di immagini, storie, musiche, racconti ancestrali, spaccati rituali, antropologia e poi realizzazione di concerti, dvd, libri… una carovana dove troveranno eco tantissimi volti e nomi della creatività contemporanea. […]

Alfonso Amendola  (L’UNITA’ – 06/02/05)


Pesaro Nuovo Cinema 2005: 41° edizione. Attenti al cinema

[…] Tornano firme note come quella di Antonello Matarazzo che con Miserere filma su sfondi non più terrestri una processione di disabili, trasmettendo allo spettatore la potenza del verso dantesco (“…per la costa di traverso / venivan genti innanzi a noi…”) la pietas del “canto d’amore” (composto da Canio Loguercio) e la dimensione dello spazio profondo che li ha generati.

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – ANNO XXV N. 135, sett/ott 2005)


Loguercio il pellegrino

[…] Il video Miserere, proiettato nel corso dello spettacolo, è bellissimo, come il brano omonimo che lo accompagna, girato tra l’ex Italsider di Bagnoli e nella zona delle pale eoliche irpine, vicine al confine con la Lucania, che è la terra di Loguercio. Lo scenario è quello di una terra apocalittica, che fa da sfondo a una carovana delirante di straccioni, un canto misericordioso in cerca di perdono. Il clip, girato da Antonello Matarazzo su musiche di Loguercio e Rocco e Rosa, si è aggiudicato il primo premio “Nuovi Linguaggi” al Festival d’arte di Palazzo Venezia a Roma, ed è davvero straordinario. […]

Gianluca Veltri  (QUOTIDIANO DELLA CALABRIA – 16/01/06


Il morphing dell’anima

[…] il morphing non è solo un procedimento tecnico, è anche la materializzazione visiva di una metonimia: nel finale di Miserere, ad esempio, la trasformazione dell’uomo in una bambina che ride è un ritorno alla purezza primigenia. […] Lo sfondo principale in cui è ambientato Miserere è il paesaggio di archeologia industriale di Bagnoli, il porto con le enormi gru, le colline di Lacedonia dominate dalle moderne e asettiche silhouette delle pale eoliche. I personaggi che si aggirano in questo spazio tanto “vissuto” e consunto – dove il tempo insieme alla salsedine si è raggrumato, incrostato –, quanto irreale e lunare, sono uomini e donne in sedia a rotelle, che si muovono inquieti ma non rassegnati. Intorno a loro non c’è solo un senso di desolazione, quanto un’indefinita atmosfera di sospensione e di attesa, per qualcosa che non accadrà. Intorno c’è il mare, il vento, la terra, il fuoco (interiore), il sangue, la sofferenza, ma anche il piscio, la fame, la saliva, la schifezza evocata nelle parole di una lenta ballata, dalla musica, dal ritmo su cui è costruito tutto il video. Miserere è un’apologia della disperazione muta (nessuno di questi personaggi parla) e al tempo stesso gridata attraverso un canto antico, ancestrale. Le didascalie finali che ci raccontano le storie di questi personaggi, ne certificano la loro autenticità di persone, distinguendole dagli attori, e quindi aggiungono – insieme alla processione del Venerdì Santo di Guardia Sanframondi, ripresa in un bianco e nero sgranato – un valore “documentario” al video, in cui la sofferenza reale è trasfigurata con una capacità visionaria e al tempo stesso asciutta, calibrata, che ne fa uno dei lavori più intensi ed efficaci di tutta l’estetica matarazziana. […]

Bruno Di Marino  (dal catalogo 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ed. Fond. Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2006)


Passeggiate nel Cinema

[…] Apocalittico e smisurato invece solo lo scenario che fa da sfondo, con le gru nere del porto che emergono dalla nebbia e la scansione artificiale delle pale eoliche, ai mastodontici reperti corrosi dalla salsedine dell’ex area industriale di Bagnoli poteva contenere tutta la sofferenza, e insieme la ieraticità sacrale, degli invalidi che lo attraversano al canto del Miserere. L’imperfezione è cosa divina: Dio stesso si manifesta, disturbando con misteriose scariche la visione dei disabili che, con cadenza ritmata in crescendo, si battono il petto (A Sua Immagine, 2005). “[Nel corpo] … è possibile rintracciare la chiave di lettura dell’incorporeità”: a sostegno di questa affermazione di Matarazzo non posso non citare lo stesso regista che fa l’amore con una scarpa da ginnastica (Lovers, spot per Converse, 2004) […]

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – anno XXVI, N° 141, sett/ott 2006)


Montpellier 2005: La section “Expérimental”

Constanza Aqualung Wimbledon Cette année 20 films ont été retenus sur les 127 reçus pour la section “expérimental”. Vingt films qui permettent à la fois une exploration des talents dans la géographie méditerranéenne et une incursion dans les “nouveaux territoires” plastiques, visuels et sonores défrichés par les artistes. A ce titre il faut souligner la présence d’oeuvres “longues”, dont “Insomniac City” et Miserere qui se situent bien au-delà des exercices formels pour atteindre, par leur ambition picturale, “narrative” et symphonique, une force impressionnante.

Montpellier 2005: The ‘Experimental’ section

This year 20 films have been retained among 127 received for the “experimental” section. Twenty films which will allow us both to explore talents from the Mediterranean and to make an incursion into “new fields”: plastic, visual and sound for which the artists cleared the way. To that effect we must highlight the presence of “long” works such as “Insomniac City” and Miserere way above regular formal exercices and which reach, by their pictural, “narrative” and symphonic ambition, an impressive strength.
(Comunicato Stampa 14/10/05 – CASA AMADIS Association Culturelle de Langue Portugaise de Montpellier)


Premi / Art Doc Fest, tutti i vincitori:

Si è conclusa il 5 giugno a Palazzo Venezia la II° edizione dell’Art Doc Fest, manifestazione presieduta da Carlo Fuscagni. […] All’Italia è andato il 1° premio Nuovi Linguaggi con Miserere (cantus) di Antonello Matarazzo per “una intelligente contaminazione tra i linguaggi della musica, dell’architettura e del teatro in un filmato intenso e scioccante ambientato in un paesaggio sospeso” […] (Cinecittà News 06/06/2005)

p.I.T.t.u.r.a. – Ipotesi figurative italiane 

Antonello Matarazzo è artista di confronti estremi. Il corpo umano mantiene centralità in questo viaggio pittorico per cicli tematici. Una fisicità fatta di alterazioni, mostruosità, devianze, brutture… un percorso nel rimosso delle coscienze, nel cancro estetico che non vorresti scoperchiare. Ma è anche un racconto di verità individuali, di storie borderline dove quel che vediamo è solo apparenza, micromondi “normali” in cui a creare le “anomalie” ci pensano la retorica e la demagogia, la paura e il disprezzo, l’angoscia e la malafede altrui. Matarazzo sfida lo sguardo sul terreno della coscienza morale, attivando meccanismi interiori che sono figli del suo animo e del modo chirurgico di raccontarli. Guardate i visi degli “Innocenti”, le protesi del ciclo Steak&Steel, le posture e l’abbigliamento dei “Meridionali”… nessun mondo da cartolina né un semplice passaggio da fotografia a pittura. Si sfidano, di contro, gli eccessi tecnologici, il culto per una bellezza artificiosa, gli immaginari senza personalità. Qualcuno potrà ritrarsi, non accettando la potenza visiva. Ma l’arte è così: nessun compromesso, nessuna risposta certa, nessuna medietà diplomatica. Pure scariche che talvolta fanno male.

Gianluca Marziani  (dal catalogo p.I.T.t.u.r.a., edizioni StudioSei, Milano 2006)


Video o dell’opera totale in Antonello Matarazzo

“Il solo modo di fare della storia, ecco cosa direi. La mia idea è che questo era l’unico modo possibile per rendersi conto che io ho una storia in quanto io, e che se non ci fosse stato il cinema, io non saprei di avere una storia in quanto io. Era la sola maniera, ed io al cinema devo questo” Jean Luc Godard

1. Per inizio
Il video definitivamente è dentro le pratiche dell’arte contemporanea. Prima come semplice supporto, poi come elemento caratterizzante l’avanzamento della sperimentazione 1 ed ora come necessaria protesi 2 al divenire rizomatico delle arti della visione. Nel circuito in cui vanno a svolgersi le sfide di metamorfosi delle innovazioni tecnologiche connesse ai sistemi dei media e della creatività, l’universo (spazio) del video 3 copre un’area sempre più privilegiata ed attrattiva. Il discorso, è cosa evidente, apre ad un fronte di teorie e di pratiche che ci invitano sempre più a ragionare seguendo un transito socio-culturale che deve sapere tener presente la visionarietà della sperimentazione e delle forme d’avanguardia da un lato ed i saperi, gli sviluppi e gli avanzamenti tecnologici dell’industria culturale dall’altro 4.

Con il video e grazie agli sviluppi delle neo-tecnologie l’intera compagine artistico-sociale subisce una profondissima alterazione psico-sensoriale. L’immagine ri-prodotta diventa il mezzo di comunicazione cardine di un’epoca decisa a bruciare ogni tappa nel nome della velocità e della contaminazione. “Non c’è più nulla, o quasi, che non passi dallo schermo catodico. Testo, immagine, musica, desktop publishing, ipertesto, tv ad alta definizione conoscono uno sviluppo senza precedenti” 5. Sviluppo che porta l’artista-homo vidensall’aspirazione di poter determinare, tramite l’utilizzo del computer, l’opera totale in una continua dimensione di contaminazione e ricerca. Ed il tema del tempo, del suo abbreviamento, nell’epoca video-interattiva, resta la dimensione attorno alla quale si costruisce l’intero apparato della video comunicazione contemporanea.

2. “Cinema liquido su tele e foto”
Il dispiegarsi continuo di forme sperimentali verso il video continua ad indicarci la più sostanziale “estensione dell’esperienza di sé 6, lasciando intravedere vastissime prospettive per il futuro dell’arte. Video come prospettiva e continua reinvenzione delle arti, ma anche pelle ed esteriorità (per Artaud il cinema doveva essere “il derma della realtà”) come rappresentazione del sé artistico, di un sé inserito nella cornice dell’apparente, del simulacro, per svolgere un legame prettamente inter-sociale in cui sviluppare, con estrema complessità, un lavoro all’interno dell’apparecchiatura consumistica del quotidiano ma anche come ripiegamento composito di tutti gli statuti della memoria. Ed è proprio il tema della memoria su cui lavora Antonello Matarazzo nella sua prima opera video, opera che l’autore avellinese preferisce definire “cinema liquido su tele e foto” (stabilendo da subito la sua idea di contaminazione e di spazi visivi esplosi tra loro amalgamati 7 ).

The Fable (2000) è un video di 9 minuti dove scorrono volti immobili e perduti nel tempo. La matrice di costruzione resta l’impianto della pittura e della fotografia, ma l’opzione video comincia a definirsi da subito. Realizzando un’opera video che gioca su temi forti quali: il tempo, l’anonimato, la morte. Ma soprattutto quello che risulta più intenso e bruciante resta il senso dell’antico come mai sepolta tragicità. Il tutto lavorando soprattutto verso l’intensità dei volti “volti che hanno qualcosa in più dell’antico e dell’essere legati solo ad un’altra epoca (cosi profondamente inscritti nella terra e nella materia) e le cornici che li contengono, altri luoghi solidi da smarginare per un attimo, da rendere liquidi con la dissolvenza che muove per farli fluire in un altro tempo, in altri formati in altre musiche” 8. Immettere la propria idea di arte nel video vuol dire abbandonarla, mandarla in una dimensione ipervisiva, in uno spazio denso di canali, rimandi, ripensamenti, tradimenti, interferenze, nuove azioni. È Martin Heidegger ad affermare che: “L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno all’altra. Essi ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire, su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” 9.

Nell’era digitale il nuovo terreno è il non-terreno, è il luogo-altro, è lo spazio-altro, è l’estensione fittizia in cui traslocarsi… tutti temi, a nostro giudizio, propri dell’esperienza video. Con The Fable siamo ancora nello spazio dell’arte, tra fotografia e pittura. Il video, quindi, nella sua fase di iniziale sperimentazione, resta per Antonello Matarazzo stretta e continua riproduzione di fotogrammi. Ma con il lavoro successivo Le cose vere (2001) il dialogo verso il linguaggio audiovisivo diventa più determinato ed operativo. Dal fotogramma fisso all’immagine-movimento, si potrebbe titolare questo passaggio. C’è cinema già a partire dalla storia. Un gruppo di amici vuole girare un film giallo, ma la “crisi” del cinefilo primo attore spingerà la troupe a realizzare una sorta di “film-reality” centrato sulle crisi emotive ed intellettuali del protagonista. Il video è anche un prezioso omaggio al cinema e gioca, quindi, sul sempre complesso piano del “metacinema”. Logicamente restano tutti i temi che sappiamo esser dentro le pratiche visive di Antonello Matarazzo: la ripetizione come necessità esplorativa e potentemente creativa, gli scenari del suo territorio, la plasticità dei volti, le dimensioni dell’ossessività, le trasfigurazioni dal visionario al reale, i silenzi assordanti, “le cose vere” di una quotidianità che può essere vorace, fragilissima e disperata.

3. L’altro reale
La tecnologia video-televisiva ha determinato conseguenze tali da non poter più pensare a dimensioni creative sprovviste di siffatti dispositivi. Dispositivi che possono al contempo lavorare sulla pura visione, sulla narrazione, sulla stretta documentazione. Dispositivi che lavorano sui tessuti complessi lacerandoli, piegandoli e nel metterli in scena “audiovisiva” li rivolta verso nuove riflessioni. “Per la sua produzione specifica, l’immagine televisiva comporta delle caratteristiche che gli altri mezzi di comunicazione non hanno e che, anche se non li analizziamo, influiscono sulla nostra percezione. Per noi, l’immagine nasce direttamente dall’invisibile, senza transizioni e senza supporto, senza abbozzo né traccia […], dalla vacuità dello schermo al pieno mobile dell’immagine. È come se si realizzasse un passaggio senza transizioni dal non-esistente all’esistente” 10.

Il fruitore video-televisivo (al di là delle facili retoriche dell’iterazione) vive un rapporto d’impotenza con le immagini che percepisce, un rapporto monologizzante in cui predispone la sua propria persona ad una costrizione dell’assorbimento: egli può leggere le immagini ma mai comunicare con esse per cui l’immagine assimilata ha l’esclusiva assoluta. Chi guarda è costretto a restare fermo, in una zona premarcata che possiamo indicare dell’assorbimento passivo e veloce. Ma se da un lato lo spettatore resta cristallizzato nel suo ruolo, la scena interna vive di ulteriori variazioni. Il reale viene “cancellato” e riorganizzato. Con il video Mi chiamo Sabino (2001) la sfida di Antonello Matarazzo è totalmente contenuta nelle dinamiche espressive del documentario, del raccontare il “conosciuto”, dell’attaccare le consapevolezze dello spettatore e, ancora una volta, nel cercare nello specchio molteplice della comunicazione video nuovi modelli di ricerca espressiva. Il racconto della follia, immerso tra “universi giustapposti e complementari”, dentro uno spazio geografico (che come dice lo stesso personaggio del corto nel tempo si è tramutato in “…una galera tutta lapidi”), tra un sonoro minimal e naturale diventa un pretesto per continuare il personalissimo viaggio visionario dell’autore.

4. La tele-visione ovvero la percezione e la mutazione
L’inscindibile relazione simbiotica video-tv va individuata negli sviluppi e nelle ricerche che hanno portato alla registrazione videomagnetica e all’opportunità di trasmettere, su ampie distanze, immagini corredate di suoni. Il video inteso come schermo, come superficie su cui (e in cui) lo sguardo si attualizza è, di fatto (assieme al concetto di attraversamento per mezzo della rete), il centro di questa nostra riflessione. Tocca ora ridefinire tale concetto e stabilire qual è lo snodo teorico ed espressivo tra cinema, TV e video (e successivamente il web) e in che modo le operazioni audiovisive di Antonello Matarazzo vanno ad inserirsi in questo articolato paesaggio. Prima di fare questa differenza bisogna però tener presente la superficie. Ogni sguardo ha nel rapporto con lo schermo dei suoi limiti spaziali. Lo schermo infatti può essere di grandi dimensioni e di piccole dimensioni. Definizione che, per quanto popolare possa essere, distingue e specifica già di per sé, in linea di massima, i diversi caratteri del dispositivo cinematografico e del dispositivo video-tele-visivo. Si tratta di valori di scala di rimarchevole importanza, valori che la psicologia della percezione ha fatto risaltare nei proprî studi come componenti che vanno ad avere implicazioni decisive nel rapporto tra il doppio regno: del suono e dell’immagine. A seconda che ci si riferisca al dispositivo cinematografico o al dispositivo video 11 possiamo parlare di predominanza dell’immagine o predominanza del suono. La predominanza dell’immagine, riferita ovviamente al cinema, è conseguenza, come abbiamo appena detto, tanto della dimensione dello schermo cinematografico quanto (e questo è un punto di separazione incisivo) quella della condizione del buio scenico in cui il fruitore s’immerge. Il rapporto dello spettatore cinematografico con la superficie è sempre, in senso lacaniano, rapportato ad un potente gioco di specchi. Ma fermiamoci qui per non andare oltre.

Ciò comporta che il dispositivo audiovisuale elettronico può essere assimilato anche a luci accese trovando così la sua dimensione in quello che abbiamo definito regno del suono. In questo regno (dello schermo TV) il grado di partecipazione dello spettatore è ben diverso da quello attivato dallo schermo cinematografico. In sostanza (come più volte sottolinea Christian Metz) la dimensione dell’immagine cinematografica genera una sorta di immersione, di avvolgimento dello spettatore che vive, tramite la percezione delle immagini, un distacco dalla realtà, cosa che non accade per l’immagine televisiva la quale, per la sua stessa spazialità ridotta, indurrebbe ad un certa indifferenza, o meglio costante coscienza del luogo in cui si è situati. È Berger a sottolineare che: “La riduzione dell’immagine comporta un minor grado d’implicazione, che lascia allo spettatore un sufficiente margine di autonomia per cui può restare fuori” 12.

Dopo aver tracciato in linea di massima alcuni aspetti fondamentali che differenziano il grande schermo dal piccolo schermo, non resta che andare nel cuore del discorso. Quello che vede nel video un post-cinema e al contempo una post-TV. Dal cinema il video acquista la volontà di rappresentare una costellazione simbolica che si rivolge all’animo umano, ma che è irreparabilmente sempre altra. Dalla televisione acquista il regime di dominanza del suono tant’è che, il rapporto tra radio e video caratterizzerà tanto accese ricerche di compositori di musica concreta ed elettronica (John Cage e Philip Glass sono due tra i nomi centrali) quanto susseguenti espansioni dell’uso del video (videoclip, videodanza, videoteatro) che sarà anche uno degli aspetti più investigati dall’arte del video.

Un trionfo di ragioni e passioni, un riflettere sui livelli della percezione e una riuscita sintesi sulla contaminazione estrema dei linguaggi che il video Astrolìte (mediometraggio del 2002, co-firmato con Carlo Michele Schirinzi) lucidamente evidenzia. Uno scritto di enrico ghezzi (qui anche attore, tra gli altri c’è anche Gabriele Perretta) apre ed accompagna il film: “La mutazione è una sorta di immagine anarchica, atea, selvaggia che non riconosce l’origine del cambiamento dell’umanità, del corpo umano. Della mutazione, infatti, si ha una paura terribile. È per noi una sorta di futuro, di orizzonte futuro, che ci mostra in modo più evidente quello che sicuramente sta accadendo anche a noi”.

Film immerso nei colori del nero, tra citazioni di Beckett e movenze fumettistiche, spazi ossessivi e immagini ripetute, il film è un viaggio (provocatorio, volutamente sgradevole, visivamente eccedente) verso un’ideale poetica dei margini e della deflagrazione del visivo, con un pretesto narrativo che strizza l’occhio nuovamente al cinema giallo. Astrolìte è soprattutto una riflessione densa di sguardi e prospettive disarticolate verso gli universi del cinema, della televisione e delle immagini in movimento più in generale. Deformare lo sguardo sembra essere la volontà principe dei due registi. Ma anche riflettere sulla mitologia dell’esperienza televisiva. Più in generale, la questione della sperimentazione video trae la sua potenza formativa da una forte volontà critico-espressiva (ma anche introspettiva) che il video-maker fa del mondo in cui vive, un mondo filtrato attraverso schermi che trovano nella materia inconscia un resistente vuoto da cui trarre i materiali più disparati. Una potenza critica, decostruttiva, riflessiva, dunque che si rivolge contro i miti e i simulacri della degenerazione sociale. Staccandosi dalla realtà, il video si presenta come realtà altra, o meglio tende a produrre una realtà parallela a quella in cui viviamo. Ma non è una sur-realtà bensì una realtà che vive in un’altra dimensione.

È una realtà in cui la cosa viene vaporizzata, ridotta a pura apparenza. È in questa new-dimension in cui tutto può accadere che l’essere si muove, si metamorfizza, nasce e contemporaneamente muore. “Video è diverso da televisione. O almeno è nato come qualcosa di diverso, nell’epoca in cui televisione significava, in primo luogo, fruizione passiva di programmi generalisti decisi altrove e diffusi soprattutto via etere a domicilio” 13.

Bisogna pertanto addentrarsi nella concezione che la televisione è soltanto una delle diverse facce del prismatico video. Video inteso come protesi tecnologica, come nuovo, seducente e veloce linguaggio, come medium-strumento assoggettabile ai più svariati usi sociali. Riferirsi, a seconda dei casi, al video con termini quali tecnologia, linguaggio, medium o strumento (termine più generale che comprende qualunque operazione-video), ci permette, attraverso diverse sfumature semantiche, di cogliere le più dissimili forme di specializzazione che il video incontra. In questi termini l’estrema versatilità fa del video un’interfaccia (in termini di tecnologia, di hardware), tuttora padrona e prediletta, una sorta di inter-medium onnivoro, inter-medium che investe, traveste, e sveste tutto ciò che incontra.

Sguardi onnivori… Precedentemente parlavo di sguardi, un tema che torna ciclicamente nei film di Antonello Matarazzo. Infatti il suo film successivo La camera chiara ha come centralità tematica proprio lo sguardo (una citazione di Barthes chiude questo lavoro: “Io vorrei una storia degli sguardi”). Quest’opera rappresenta anche un ritorno alla sua idea originaria di cinema-video. Ma stavolta attraverso l’amplificazione necessaria della dimensione digitale. Matarazzo lavora, con grande raffinatezza (come elegantissima è la scelta musicale dei Sigur Rós) nell’evidenziare inizialmente una parte della foto, scontornandola e mostrandocela quasi come la sua idea di “punctum” e poi ricollocandola, gradualmente all’interno del suo spazio visivo originario. Non c’è racconto, non c’è traccia drammaturgica e nemmeno volontà documentaristica. C’è la composizione del vedere, lo scandire il tempo della visione attraverso la “rappresentazione” foto-grafica, la mutevolezza dei segni in forma di luce, la fissità che indica l’estrema mobilità del tempo, le dinamiche densissime degli occhi. Così, se in precedenza Matarazzo ha lavorato sul video metapittorico, poi metacinematografico, poi metatelevisivo, ora è la volta della riflessione sugli statuti della fotografia: sulle composizioni della fotografia come profondissimo disegno della memoria e come raffinato esempio di voler ripensare nella nostra contemporaneità le possibili affezioni tra sviluppi tecnici e i livelli inconsapevoli della messa in posa: “Verso il 1840, affinché le lastre dei primi ritratti si impressionassero, bisognava che il soggetto si sottoponesse a lunghe pose sotto una vetrata in pieno sole; diventare oggetto, faceva soffrire come un’operazione chirurgica: fu allora inventato un apparecchio, detto appoggia-testa, una sorta di protesi, invisibile all’obiettivo, il quale reggeva e manteneva il corpo nel suo passaggio verso l’immobilità” 14.

5. Il video-testimone visionario
Due date sono alla base dei video di cui di seguito parliamo, due momenti epocali differenti ma che hanno cambiato la pelle delle cose. E la ricerca video di Antonello Matarazzo ha voluto ricordarcele attraverso la sua idea visionaria e di contaminazione delle forme e degli stili.
Con Warh (2003) Antonello Matarazzo nel parlarci di guerra tra i mondi omaggia l’entusiastico fiore di Andy Warhol. L’opera in digitale, che è stata definita un “film sulla vulnerabilità”, parte dal dramma dell’11 settembre 2001 e attraverso un continuo flusso di immagini (rielaborate e decontestualizzate) ci racconta un devastato occidente (dove la dimensione mediale onnivora ed iper-informativa si tramuta in un canto tragico e visionario).

Mentre Apice (2004) ci parla del terremoto che colpì l’Irpinia (e altre zone della Campania e della Lucania) il 23 novembre 1980. Il nome è quello di un paese colpito dall’evento naturale, ma dove non crollò alcuna casa. Questa particolarità tra le macerie degli altri paesaggi vuol essere un racconto sulla sopravvivenza come paralisi, sulla solitudine, sul silenzio. Ambedue i video vogliono oltrepassare gli schemi, rompere le pareti della normalità per approdare ad una riflessione fatta di novità, di esasperazioni percettive. Sulla base di queste video-azioni artistiche Antonello Matarazzo sembra riflettere sulla mutazione dell’idea di “cinema civile”, comprendendo che può esser utilizzato qualsiasi supporto comunicativo per giungere ad uno scopo definito, uno scopo attraverso il quale trasmettere il rapporto (il più delle volte conflittuale) con il mondo in cui si vive. E qui tornano le lezioni lampanti di Warhol, Zavattini e soprattutto di Guy Debord 15.

6. Le prospettive del nuovo
La superficie cambia. Si va oltre lo spazio piano, oltre le metamorfosi e le “mutazioni” della comunicazione. Si entra in una dimensione espressiva in cui tutto può accadere e gradualmente si modifica. Il mondo esplode prepotentemente sulla scena audiovisiva. Il rapporto spazio/tempo viene scardinato. Da un lato avvertiamo il mutare del tempo: prima ridotto ed esasperato al suo minimo comune multiplo e successivamente “costretto” a subire metamorfosi e variazioni. Dall’altro le mutazioni dello spazio: non riconosciamo più gli oggetti, il loro essere tangibili poiché, detto spazio si presenta, si rap-presenta come uno spazio altro, reale-immaginato e sempre più potente. Ogni spettro che noi guardiamo scivolare sulla superficie del dispositivo video vive, non solo una irrimediabile percorrenza di un tempo passato che riappare come presente (costante punto di incisione e ricerca nei video di Matarazzo), ma anche quella che è la dimensione assoluta della solitudine dell’artista che sa d’aver perso la dimensione della collettività alla quale sempre ambisce e che sempre dovrà cercare 16.

Quello che vediamo attualmente nei video contemporanei sono corpi che fluttuano come messaggi codificati-non codificati in uno scenario in continuo mutamento. Messaggi che mostrano, nella vividezza della rappresentazione, una delicatezza persuasiva che sembra sorgere dagli interstizi dell’immaginario contemporaneo. “Mi piace immaginare che si conservino in una sorta di grande freezer dell’immaginario, tesori nascosti pronti alla disponibile gioia del detective teso a riattivare l’infanzia del nostro sguardo con la definizione più avanzata dell’universo parallelo dell’elettronica” 17.

Il grande freezer dell’immaginario è il luogo, non più tavoliere (come suggerirebbe Eraclito) e dunque superficie in cui si costruiscono passioni, giochi, professionalità e sperimentazioni. È lo spazio in cui muoverci per inventare o per trascinare, e portare a nuova vita, alcune immagini(-emozioni) rimosse con gli anni. Invenzioni o riscoperte che con lo strumento video possiamo rendere con massimo splendore artistico. Invenzioni o riscoperte, ancora, che sono figlie dirette e predilette di una volontà estrema in cui continuamente ci immergiamo per ansia di ricerca, per desiderio di conoscenza e per devozione sempre rivolta ai futuri possibili nella ricerca del novum.

Alfonso Amendola  (dal catalogo Steak&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005)   

NOTE:
1. Storicamente la prima esposizione di lavori sperimentali realizzati su monitor è di Nam June Paik e risale al marzo del 1963 presso la Galerie Parnass di Wuppental con il titolo “Exposition of Music-Electronic TV” (dove per la prima volta il televisore è trattato come strumento artistico). Cfr. Nam June Paik “Afterlude alla mostra di televisione sperimentale” ora in Valentina Valentini Le pratiche del video, Bulzoni, Roma, 2003, pp.19-25.
2. La struttura tecnologica come protesi corporea ha sviluppato, nel tempo, un doppio filone di pensiero. Il primo tiene ferma la propria attenzione nel nucleo aristotelico che tende a ridimensionare il rapporto uomo-tecnologia favorendo l’aspetto puramente contemplante; il secondo muove, dal canto suo, a dispiegare l’importanza della tecnicità nella sfera psico-fisica dell’individuo.
3. Il video (dal latino videre) è la parte specificatamente destinata alla trasmissione o alla riproduzione delle immagini. Dare una definizione all’intera portata del termine è impresa assai ardua. Il video è, nella sua propria conformazione, all’un tempo un io-vedo-e-vado-oltre, un dispositivo, un sistema, una tecnologia, una forma d’espressione, una comunicazione televisiva, una solida, o meglio materica interfaccia (schermo o monitor) verso cui tutto sembra tendere per ritrovare – nella luminescenza ove la matericità si perde per lasciare spazio alla corpuscolarizzazione – la sua originaria assenza di peso, il seducente percorso proteso verso un non-dove che lascia percepire la leggerezza dell’assenza.
4. Per quanto riguarda l’articolazione storica e teorica di queste nozioni rimando alla fondante riflessione di Alberto Abruzzese presente in Forme estetiche e società di massa. Arte e pubblico nell’età del capitalismo, Venezia, Marsilio, 1992. Per analizzare l’immaginario contemporaneo nello specchio delle complessità delle tecnologie cfr. in particolare Gino Frezza “Introduzione” a Cinematografo e cinema. Dinamiche di un processo culturale, Bologna, Cosmopoli, 1996, pp.5-39. Per una definizione degli statuti critici nel contemporaneo cfr. Angelo Trimarco Post-storia. Il sistema dell’arte, Editori Riuniti, 2004. Per i temi legati alle pratiche, agli sviluppi teorici e al paesaggio creativo sviluppatosi, rimando ad almeno due testi di Gabriele Perretta (teorico del Medialismo, movimento nel quale il percorso artistico di Antonello Matarazzo perfettamente opera): Media.comm(unity)/comm.medium. Divenire comunità oltre il mezzo: l’opera diffusa, Edizioni Mimesis, Milano, 2004; id. art.comm. collettivi, reti, gruppi diffusi, comunità acefale nella pratica dell’arte oltre la soggettività singolare, Cooper & Castelvecchi, Roma, 2002.
5. Pierre Lévy Le tecnologie dell’intelligenza, Synergon, Bologna 1992, p.73.
6. Silvia Bordini Arte elettronica, n° 156 di “Art dossier”, Giunti, Firenze 2000, p.5.
7. Anche se enrico ghezzi sottolinea la necessità di chiamare direttamente i video di Antonello Matarazzo “film”, come scrive nel testo del catalogo (dove compare anche uno scritto di Marisa Vescovo) che accompagna la mostra “Testimoni per caso” realizzata presso lo studio Vigato di Alessandria nel 2003.
8. Giuseppe Gariazzo in “Cineforum”, Anno 40 N° 7, Ago/Set 2000, ora sul sito www.antonellomatarazzo.it al quale rimandiamo per l’archivio bio-bibliografico oltre che per gli sviluppi del lavoro artistico in più in generale di Antonello Matarazzo.
9. Martin Heidegger L’abbandono, Il melangolo, Genova 1989, p. 39.
10. René Berger La tele-visione, Edizioni Paoline, Roma 1977, pp. 29-30.
11. Qui intendiamo ancora il video in stretto rapporto con la TV.
12. René Berger op. cit., p. 142.
13. Elisa Vaccarino La Musa dello schermo freddo. Videodanza, computer e robot, Costa & Nolan, Genova 1996, p. 15.
14. Roland Barthes La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980, p.15.
15. Cfr. Guy Debord Opere cinematografiche, pref. enrico ghezzi, Bompiani, Milano, 2004.
16. Tutto il lavoro di Antonello Matarazzo è dialogo, costruzione e, come più volte sottolineato, contaminazione di forme e stili (in piena linea con le idee guida del Medialismo). Con il suo lavoro più recente, Miserere (2005), Antonello Matarazzo stringe un sodalizio professionale con il musicista Canio Loguercio. Per quanto riguarda il video, al momento esistono due versioni: una di 20 minuti con musiche originali di Canio Loguercio e Fabrizio Castanìa e un videoclip di 8 minuti, ma l’operazione è più articolata e punta a realizzare un vero e proprio lavoro multimediale fatto di immagini, storie, musiche, racconti ancestrali, spaccati rituali, antropologia e poi realizzazione di concerti, dvd, libri… una carovana dove troveranno eco tantissimi volti e nomi della creatività contemporanea.
17. Gino Frezza “Il grande freezer dell’immaginario”, in Videoculture. Strategie dei linguaggi elettronici (a cura di Sergio Brancato e Fulvio Iannucci), Artigrafiche, Università di Napoli 1988, p. 139.


… à rebours de l’écran 

( questo testo è dedicato a Gigi, uno dei giovani attori di Miserere )

1. In una sottile e ampia pubblicazione sul Thinking Sociologically, Bauman e May si chiedono perché le nostre identità stanno subendo delle trasformazioni. La risposta che danno appare piuttosto semplice: “non solo per l’introduzione delle nuove tecnologie, ma anche attraverso il ruolo crescente che i mercati giocano nella nostra vita quotidiana… le nuove tecnologie richiedono un aggiornamento costante delle competenze. Nondimeno, resta in piedi il problema di stabilire se noi usiamo tali mezzi in vista di uno scopo, o se i mezzi diventino uno scopo in sé” 1. Diciamo pure che una simile argomentazione non ci permette solo di aprire questo testo, ma contribuisce anche – nel bene e nel male – a riflettere su un modo per evidenziare il quesito dei quesiti, che vale anche per l’arte contemporanea. Nell’hardware e nel software del reale affermiamo pure che il rischio di agire o di essere agiti dai mezzi esiste in ogni caso, sia se guardiamo il segmento che stringe insieme l’arte, il mercato e le tecnologie, sia se guardiamo la quota che tiene in piedi la nostra identità e la sfera delle nuove forme di comunicazione. Probabilmente, siamo comunque vittime o carnefici di una struttura comunicativa che passa attraverso lo schermo e che, oltre a stimolare potenza ed a pervadere “le tecnologie del sé”, contraddistingue il peso in base al quale usiamo vivere e relazionarci nel mondo della medialità quotidiana.

Ha ragione David Lyon a scrivere della società sorvegliata 2: di sorpresa vi accorgete che qualcuno o qualche cosa vi sta fissando o addirittura scrutando. Al bar notate una piccola telecamera che discretamente vi osserva, paradossalmente non si tratta di un remake di Nanni Loy! Per quale ragione rimane a fissare proprio voi? Perché apparite come un possibile avversario dell’ordine pubblico. La vita quotidiana è sottoposta al monitoraggio di uno schermo, un controllo continuo ed un attento esame tra schermi collegati e saturi di informazione. La società svizzera Sokymat produce ogni anno milioni di smart tag, dei piccoli transponder infilati in materiali di qualunque stampo. Un transponder è fatto con un circuito provvisto di un’antenna e include dati che hanno la capacità di esser letti a distanza da un ricetrasmettitore o da una postazione trasmittente. Il transponder immesso nel comando a distanza di un antifurto tramanda un codice che giunge ad essere identificato dalla centralina sistemata nel veicolo e dà facoltà di spalancare le portiere e mettere in moto l’auto.

Una quotidianità schermatica ed apparentemente infinita, entro la quale siamo calati e dentro alla quale sopportiamo di svegliarci per affrontare un nuovo giorno, è il nostro universo. Un tempo si poteva dire che la televisione era la finestra sul mondo, oggi è il caso di dire che la televisione è il mondo. La vera strada, la vera piazza, il vero inconscio è la televisione stessa. Non è più possibile chiedersi come incide lo schermo sulla formazione del gusto, perché lo schermo e il gusto hanno subito una mimesi totale. I gusti, le preferenze, le mentalità sono disegnati e sagomati nell’architettura del video, il prime-time è la faccia stessa della gente! I mondi non sono più due: quello televisivo e quello reale; ne esiste soltanto uno: quello schermatico e basta! Questa quotidianità ha superato la forza e la potenza del paradosso che un tempo aveva la capacità di rivolgersi contro il discorso corrente e di invitare lo spettatore a guardare dentro ad una scatola ottica, in opposizione al motivo della tavolozza che compare nell’autoritratto di Annibale Carracci o nell’esibizione con la tela sul cavalletto in Las Meninas di Velàzquez. La sociologa della scienza Sherry Turale, nel 1996, magari con un po’ troppo entusiasmo, raccontava delle posizioni sostenute dal classicista Richard A. Lanham in The Electronic Word.

La lettura di un testo sullo schermo sovverte l’immagine tradizionale di una narrativa, offrendo a chi legge di modificare qualsiasi carattere e corso grammaticale e stilistico: “grazie al software adatto, spostare frasi e paragrafi fa semplicemente parte dello scrivere … la vita sullo schermo non ha origini ne fondamenta. È un luogo dove i segni intesi come reali possono sostituire la realtà stessa” 3. Ma se questa rivoluzione ha investito in maniera totale il corpo e la mente dei mondi umani e naturali, è consequenziale che Bauman e May – con un affilato senso di preoccupazione – si chiedano: “… l’implementazione di valvole meccaniche e l’adattamento di protesi artificiali nel corpo umano potrebbero essere qualcosa di più che il semplice ripristino di una funzione “naturale”, potrebbero eventualmente servire a sviluppare potenzialità umano-meccaniche. Le innovazioni tecnologiche potrebbero consentire maggior controllo, ma con quali conseguenze e per chi? Queste problematiche richiedono una comprensione che venga dall’esterno di un processo che non riconosce nient’altro se non le sue stesse razionalizzazioni” 4.

2. Con la rivoluzione informatica avvenuta sotto i nostri occhi, possiamo ribadire che lo schermo è divenuto una nuova totalità. E, per dimostrare quanto abbia intuito in maniera positiva Sherry Turale, va detto con Raphael Lellouche che sullo schermo la scrittura, il testo, non sono altro che una particolare riproduzione dell’immagine. Sullo schermo, o meglio dentro allo schermo, la scrittura è una tavoletta di cera dissolta, bruciata, arsa dalle fiammelle dei centomila collegamenti in rete 5. Il testo, che un tempo scalpellavamo, nel senso che con la tecnologia dell’errore artigianalmente costruivamo attraverso la nostra piccola portatile Olivetti, adesso si è dissolto nello spazio infinito dello schermo, inghiottendo finanche l’errore. Ecco perché risulta strano ed antipatico che sullo schermo, con tutti i correttori automatici, con tutti i programmi elaborati di video-scrittura, che sarebbero capaci di metamorfizzare e invalidare qualsiasi refuso o battitura sbagliata del testo, possa ancora comparire l’errore. Eppure, questo della scrittura, è un capitolo scottante della Storia, che dovremo ancora scrivere, perché è paradossale e assai incredibile e bizzarro che nell’attuale mondo degli errori sociali, delle incertezze epocali, delle paranoie politiche e dei conflitti economici ed etnici, siamo affidati ad una macchina che ha ingoiato l’errore. È come se il dispositivo informatico avesse ingurgitato la pratica della vita e il soffio vitale. Ma la verità è che lo schermo, fagocitando l’errore e la stessa scrittura, ha inglobato anche la macchina, rendendo evidenti le ragioni formali e visuali della storia della genesi della scrittura.
Il segno scritto è divenuto dettagliatamente immagine e, quindi, parte dello schermo.

La scrittura si è visualizzata ed ha condotto al suo estremo il tempo iconico del segno nel monitor. In esso è stato assorbito ciò che l’uomo aveva provato 5000 anni or sono a scrivere sull’argilla, sulla pietra, sul papiro e su altri materiali. Il proto-sumero pittografico si è risolto nell’immagine dentro lo schermo e, a questo punto, non è tanto importante il passaggio dal mezzo al mezzo, ma da un sapere ad un altro sapere. La struttura dello schermo, però, non si riduce ad un mezzo. Per il computer la digitalizzazione passa, finisce: perché se oggi non ho già più bisogno di digitare il mio testo, domani forse (ed è già realtà…) non avrò più bisogno neanche di dettarlo in un linguaggio-macchina riconoscibile. Domani il lettore dell’altra faccia, ovvero la faccia che è di fronte a me, avrà una capacità di memoria e di cognizione tale che mi permetterà di vedere in me l’altro da me, la mia cyber-faccia, un’interfaccia che comunque come me – o forse ancora meglio di me – più si interfaccerà e più acquisterà la fisionomia di un’altra antropologia 6.

Ma qui siamo già in una fisiognomica che farebbe paura al dottor Paolo Mantegazza. Ecco il cyborg introdotto da W. Gibson e da B. Sterling, un cyborg che nella sua “altra faccia” (o interfaccia) avrà sempre e comunque qualcosa a che fare con lo schermo. Se il luogo d’elezione della nuova mutazione culturale è lo schermo, è attraverso di esso che davanti a noi si eleggerà il nostro nuovo interlocutore sociale. In prospettiva, un riassunto di quello che ho appena detto, potrebbe essere rinvenibile, in maniera quasi arcaica, in quella stimolante opera di Gary Hill che si denomina I Believe It Is an Image in Light of the Other, una videoinstallazione del 1991-92, dove lo schermo acquista una faccia umana configurata nell’architettura di un libro aperto e dove la scrittura si offre con una fisiognomica digitale al cospetto della nostra voglia di toccare lo schermo, invitandoci a fare ciò che attualmente facciamo sul nostro portatile attraverso il touch pad.

Le evoluzioni della tecnologia sembra che dunque portino alla dissoluzione del mezzo in se stesso. In effetti la tecnologia nelle sue rapide tappe di evoluzione crea un dispositivo interno di autodissipazione delle sue conquiste, per aprire la strada a sempre nuove frontiere, Che bello sembra proprio che i media, come il colosso del capitalismo che sarebbe l’America, muoiono, spariscono, si annientano con le loro stesse “matrici”, così come è successo per alcune altre civiltà della storia antica. L’ibridazione è il nuovo mostro, è la nuova gorgone in grado di correggere gli argini del suo stesso poderoso conflitto. I media si allenano a distruggere la loro identità di origine, agendo sulla medesima somiglianza ed equivalenza. Essi si moltiplicano e si assorbono, si generano così come in un’antica teogonia e si disperdono, variano e mutano la loro pelle, grazie all’intensificazione della loro stessa ibridazione. Questo significa anche che lo schermo è qualcosa in più rispetto ai media e allo strumento (instrumentum, registrazione). Lo schermo, con la sua capacità di contenere qualsivoglia forma di calcolo, riesce a includere qualunque antica tecnica di numerazione digitale e corporea, facendo apparire quelli che erano i nostri valori riconducibili alla nostra mano sinistra ed alla nostra mano destra nel modo che fossero dei replicanti della sinistra e della destra dell’altro.

Così come nell’opera di Hill lo schermo è capace di contenere persino le origini della nostra scrittura, anche il corollario più sviluppato del nostro linguaggio corporeo si spinge oltre il sigillo e l’impronta su creta, impresse sulle facciate di un palazzo antico. Ed ecco perché la tecnologia ha sfondato la storia. Lo schermo non è il pittogramma, ma è la struttura del pittogramma e quindi è qualcosa in più di uno strumento, nel senso che è un sistema, un architettura potenziale che raccoglie gli attrezzi che collaborano a costruire (in latino struttura è struere): una struttura solistica o dissipativa, un organismo pluricellulare.

Se non amate perdervi in chiacchiere, e volete giungere subito al sodo, prediligete l’immagine per l’immagine e non la critica, soprattutto quella che si fa troppe domande filosofiche, provate a pensare alla videoinstallazione di Nam June Paik Fin de Sieclé(1989, a New York Whitney Museum of American Art), di cosa si tratta se non di tanti schermi l’uno sull’altro? E cosa si esponeva quando Wolf Vostell nel 1975 realizzò Endogene Depression, se non schermi in attraente prospezione? Lo ricordo bene Nam June Paik alla conferenza stampa per Good Morning Mr Orwell (1983)! Guardava due mappamondi luminosi, indossando degli occhiali a forma di schermo (dei piccoli schermi retrattili). Nell’installazione TV Clock (1963-1982) al Witney Museum, invece, lo schermo si manifestava come il corridoio della memoria. La tecnologia ha bisogno di larghe tasche e di larghe economie! Più soldi e finanziamenti ci sono e più gli schermi aumentano: Tadaikson (1988), questa volta Paik al Museo d’Arte Moderna di Seul inventò uno Ziggurat, una torre infinita di schermi che al centro della sala teneva quattro cerchi di schermi a terra, più altre 32 circonferenze di monitor che si sviluppavano su sei piani di schermi.

Lellouche ci conferma che gli schermi presentano svariati elementi di continuità con le interfacce di previi attrezzi conoscitivi. Lo schermo è l’ultimo prodotto di un’evoluzione dei congegni ergonomici, che sottende al rapporto uomo-macchina. Ma mentre le superfici precedenti non erano rimovibili dal luogo in cui venivano collocate, come i quadri nei Musei, l’interfaccia di uno strumento scientifico è trasportabile e il suo schermo non ti offre solo la possibilità di guardare ciò che la memoria riproduce, ma anche ciò che il programma di memoria permette di scrutare dentro, di guardare attraverso. Lo schermo del computer è capace di collegarsi a memorie del tutto indipendenti dalla propria localizzazione materiale. Le informazioni che compaiono sul mio schermo vengono da un altrove che mi dis-orienta il luogo, o la visualizzazione dei luoghi. L’informazione – e quindi il contenuto dello strumento – imbottisce una compagine, una forma tra le forme, che può essere in ogni dove, tanto da impadronirsi di un attributo di effettiva onnipresenza. Apologizzando i meriti dello schermo, Lellouche conclude dicendo: “… lo schermo indica una nostra nuova relazione col mondo… l’umanità è entrata in una nuova ecologia cognitiva e ambientale del proprio universo artificiale” 7.

3. Sin da quando è scoppiato il fenomeno del virtuale, le grandi indagini critiche si sono più volte soffermate sulla questione della macchina e della protesi. Più volte abbiamo letto nella saggistica internazionale che, a differenza delle ostentazioni di artisti come Orlan, le infinite possibilità offerte dalla cybercultura possono essere facilmente collegabili ai bisogni veri della gente. Le macchine virtuali, se sono ben congegnate e messe a punto, possono servire per aiutare la gente che non muove gli arti, che ha subito dei traumi fisici gravi ed è costretta dopo diverse operazioni a vivere su una sedia a rotelle.

Naturalmente, il mondo dell’arte che si avvale di una tradizione concettual-simbolica, volendo continuare ad adottare questo percorso linguistico, non è in grado di intervenire nell’universo delle malformazioni naturali, genetiche e sociali che l’evoluzione del conflitto stesso con la macchina ha prodotto. Un’artista mediale (meglio ancora un non-artista) agisce all’interno delle possibilità che offre la struttura tecnica ordinaria della comunicazione e, come nel caso di Antonello Matarazzo, tale azione non prescinde dal fatto di avere un’idea particolare di questo comportamento linguistico. Potremmo dire che, l’idea agisce su una sintesi ritrovata nell’effetto multimediale dello schermo.

Dobbiamo registrare il fatto che negli anni ’90 vari artisti della scena europea si sono fatti attrarre dall’estetica del brutto e della sofferenza, ma forse tra questi i fratelli Chapman sono i più risolutivi, sintetizzando dolore e tecnologia nella celebre scultura del 1996 Ubermensch. A partire da tali presupposti, A.M. non deve essere considerato da meno! Come al solito A.M., pur non avendo la possibilità di essere gestito da un mercante o da un produttore che prenda in considerazione la sua difficile ricerca, ha individuato in tempi non sospetti la tematica forte del rapporto tecnologia/dolore, lavorando in anticipo sia per quanto riguarda la riproduzione dell’immagine digitale, il film e, soprattutto, la sintesi schermatica. L’Ubermensch dei Chapman è uno scienziato che raccoglie nella sua forma di vita la tragedia dello sviluppo tecnologico, l’uomo comune di Matarazzo era invece partito dalla configurazione di un simulacro della società dello spettacolo, per poi intervallarsi con la voce di Pacciani (il mostro di Firenze) e poi via via nell’illustrazione dei Freaks, dei Meridionali e degli ultimi Steak & Steel, per poi abbandonarsi 8 in un’apologia lirica dei Complaints (per dirla alla Jules Laforgue).

Per sintetizzare la figura di Matarazzo potremmo dire che è un caso indicativo di media-maker, essendo ormai da anni inserito in un territorio particolare della medialità. Egli si offre alla sguardo dei critici più attenti per sottolineare il fatto che la dimensione artistica ordinaria è stata già superata, per cui chi vuole continuare a perseguire una strada sperimentale deve scoprire dall’interno l’universo della comunicazione e, quindi, deve associare l’immagine del tutore, del correttore ortopedico, con quella della pittura, della fotografia, del cinema e del video in maniera expanded (long-drawn-out).

A.M., dopo vari anni di lavori pittorici, ha poi cominciato a condensare la sua tecno-immagine sulla riproduzione sottile di un piccolo schermo. Sia quando egli ha messo in pratica dei film (o come corto o come mediometraggio), sia quando ha effettuato dei video o delle foto, sia quando ha realizzato delle immagini pittoriche – anche se la narrazione e la disposizione cinetica del lavoro erano orientati a seguire la prassi della tecnica adoperata, i relativi prodotti si mostravano spesso disposti ad un intervallo, una sequenza di pause che esibivano grande attenzione per lo schermo, o per la tautologia di esso. Questo discorso vale anche per il lavoro fotografico che sottintende sia la ricerca pittorica sia la ricerca video 9. Insomma, dalla pittura al video, dalla fotografia al cinema, in A.M. ritorna lo schermo e la diagonale dell’immagine rientra – come dice anche Barthes – nel modo di un riflesso, a guisa di un immaginario generalizzato, dove tutto si trasforma in immagine e, in una sorta di dissolvenza incrociata, appare chez l’écran o a rebours de l’écran.

Perché Matarazzo frequenta così tanta sofferenza e così tanti codici che sono sinonimi di vicinanza a messaggi di aggressione, di pericolo, di paura, di dolore e, diciamolo pure, di morte? Perché non può trascurare un pessimismo che lo stesso Barthes esprime parlando di fotografia: nessuno di noi che vive o giace nelle società avanzate può prescindere dal “consumo di immagini e non più, come quelle del passato, credenze; esse sono dunque più liberali, meno fanatiche, ma anche più “false” (meno “autentiche”) – cosa che, nella coscienza comune, noi traduciamo con l’ammissione di un’impressione di noia nauseante, come se, universalizzandosi, l’immagine producesse un mondo senza differenze (indifferente), da cui può quindi levarsi qui e là solo il grido di anarchismi, di marginalismi e individualismi: aboliamo le immagini, salviamo il Desiderio immediato (senza mediazione)” 10. In effetti, il desiderio di tendere ad una esaustività grafica dello schermo che neutralizzi le immagini della sofferenza, che orizzontalmente attraversino pittura, fotografia, cinema e video. in A.M. è una sorta di anarchismo e di marginalismo volontario, assai prossimo al nostro desiderio critico.

È come se A.M. sostituisse all’immagine che giace nella società avanzata l’errore, il difetto, il trauma, il grido della differenza umana, una deficienza non facilmente sclerotizzabile, un tratto di malattia corporale evidente, tormentata dalla frizione con la macchina, che il lettore non può far finta di ignorare. Guardando le fotopitture della sua più recente produzione, e pensando ad alcuni dettagli degli scritti di Clive Barker, o Skip & Spector, andrebbe quindi suggerito ai critici che si esercitano a separare l’idea del “realismo idiota” rispetto a quello “psicotico” che, secondo Barthes, la fotografia può essere pazza o savia ma il suo “realismo resta “relativo o assoluto” fin tanto che si mostra in una mobilità rivulsiva”, che denuncia ma contemporaneamente estetizza. Dunque, spetta poi allo spettatore scegliere i tratti salienti e i punti di fuga di questo schermo potenziale, di questo rapporto con il tritacarne.

In effetti, se si confronta il lavoro di A.M. nel parallelo tra le ultime foto-pitture (schermi sofferenti li denominerei), il corto su La camera chiara e poi il Miserere (realizzato con le suggestionanti sonorità e parole di Loguercio), la teoria dell’écran è presto fluidificata, come direbbe Raphael Lellouche 11: i mostri sono pronti a lamentarsi davanti a noi, come se stessero recitando l’ultima parte de La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda. Se le vecchie pitture sono confluite nel cinema muto, le nuove fotografie – comprese quelle che si affannano ad essere riconosciute nella pratica digitale – sono i prodotti compressi dello schermo, provengono dall’elaborazione di uno schermo e verso lo schermo ritornano, come nuove e conflittuali paratattiche della medialità. Ecco perché lo schermo è ormai il canone, il registro, la nuova texture attraverso cui si collegano le tradizioni del montaggio pre e post mediale. Detto questo, dovrebbe risultare anche più chiaro perché tanti artisti mediali, come Fabrice De Nola, Giorgio Lupattelli, Silvano Tessarollo e lo stesso Antonello Matarazzo, li considero pronti a difendersi nell’operatività dell’immagine schermatica. Diciamo pure che, la duttilità e la rigidità della visione schermatica oggi è l’ulteriore conferma dell’esistenza della medialità e del medialismo, non solo come prassi dell’agire comunicativo generalizzato ma anche come agire nella lingua tecnica dell’espressione comunicativa.

4. Vi sono delle immagini dei nostri simili che, attraverso un sistema di rimando molto semplice, dovrebbero rappresentare le figure della memoria, così come nel caso della ragazza coperta dalla camera ad aria in Pneumokreutz di A.M.. davanti a quest’immagine si respira una strana atmosfera, in essa la camera ad aria si trasforma in una sorta di forcipe che ingabbia, in uno strumento di tortura, in un assedio dell’immagine stessa. Il materiale usato per rappresentare questa forma di disagio e di sofferenza è una pittura porosa e schermatica che si condensa nel particolare, come se fosse un tappeto della memoria. Montata sotto quello strano casco, la figura tende ad isolare l’espressione, sembra che riproduca l’espressione dell’indifferenza. È come se l’artista volesse testimoniare un palese montaggio per indicare e sottolineare l’estraniazione. La figura di donna, nonostante lo strumento di tortura imposto, non soffre e la pittura non è interpretata come una vera e propria configurazione dei tratti della sofferenza umana.

Questo, però, non vuol dire che nella relazione di scambio tra l’umano e il tecnologico ci sia un’indifferenza. In seconda istanza – e qui davvero concettualmente – è lo spettatore ad essere additato come un alienato, che soffre in maniera prepotente della condizione schermatica in cui si insidia la figura storica riprodotta da A.M.. Infatti, guardando la sequenza della carne e dell’acciaio (steak and steel), è facile avvertire l’incongruenza tra le sofferenze e le alienazioni. Queste immagini mandano all’aria quella celebre frase di Saul Bellow che diceva: “La sofferenza è l’unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito”. Se l’indice della sofferenza si trova nell’assenza di espressione drammatica di Pneumokreutz, questo non vale per le altre immagini della serie, dove una nutrita collezione di adolescenti, di corpi giovani, di bambini e di mutilati dal destino mostrano una fisicità che protende in un organo gestito e proporzionato dalla presenza considerevole dell’acciaio. Quindi, la figura di Pneumokreutz sembra leggera e sottoposta ad un bagno in un liquido amniotico, che rimane ambiguo tra il senso della pellicola cinematografica e la fotografia come documento d’epoca, e sfugge ad una percezione emotiva. Gli adolescenti malformati e con la spina dorsale bloccata in un tutore meccanico che li tiene in piedi, invece, ci consegnano la rivelazione di Giobbe: Homo nascitur ad laborem (5,7). Guardando gli Steak & Steel, confermiamo le parole di Wordsworth, citato da Oscar Wilde nel De Profundis: “La sofferenza è permanente, oscura e cupa / e ha la natura dell’infinità”.

Ma la stessa sofferenza mediata attraverso un’immagine sembra sempre più leggera ed effimera di quanto non lo sia in realtà. Nel cinema o nel video l’orrore è sempre disegnato da un progetto che vive e muore in una fiction. Tale limite ci è stato più volte raccontato da David Cronenberg, che nella sua carriera ha quasi sempre praticato i confini di quella poetica che si pone nel privilegio di sfondare gli schermi. Se Philip K. Dick ha narrato la disperazione dei corpi che, nell’odissea della metropoli simulata, si mostrano ai limiti del disegno letterario, Cronenberg ha riscritto fotogramma per fotogramma il disagio dell’uomo di fronte alla paura del suo stesso immaginario.

Nella pittura di A.M., il tratto più caratteristico è il contributo proveniente da una storia anonima, che ci colpisce e ci scuote proprio perché appare giungerci da una zona oscura, da ombre enigmatiche e inquietanti di un racconto di dolore, che quando si mostra come evento diviene indomabile. La tecnica dello sfumato, che Matarazzo in Steak & Steel ha perfezionato, è sempre più vicina alle sue realizzazioni video. È come se i corpi della sofferenza e la tecnologia del dolore esalassero e contenessero nello schermo di The Fable, de Le cose VereMi chiamo SabinoAstrolìteLa Camera ChiaraWarhMiserereA sua Immagine e Apice una pittura al limite del discorso fotografico e del discorso cinematografico. Artaudianamente, dunque, questa è un’immagine crudele, incattivita (non alla maniera della bad painting), perché modellata su un’astrazione che si prospetta gloriosa all’interno di una visionarietà tanto antica quanto moderna, tanto medioevale e gotica nei contenuti, quanto fumettistica e videografica nell’approccio analitico. Vivendo tutti i giorni nello schermo, noi non siamo più portati a far caso alle torture che rappresentiamo e di cui ci circondiamo.

Nessun tratto della sofferenza rappresentata in Steak & Steel ci fa paura ed orrore, perché le protesi che indossano quei soggetti martoriati sono la trasposizione di quelle invisibili cinghie d’acciaio che ci legano la testa e che ci sezionano il corpo in maniera sottile, come le polveri dell’inquinamento. I conflitti che viviamo nel quotidiano sono subdolamente capillari e globali: i media nel quotidiano hanno trapiantato quegli antidoti che ci fanno accettare l’oppressione di un ignoto dolore. Noi siamo lontani da noi stessi, la nostra sofferenza è uno schermo, è un’immagine, essa si è trasposta nei lamenti e nelle grida della carne dei media, perché tra noi e la nostra natura c’è il difetto mediatico dell’indifferenza. Lo schermo ci ha oggettualizzati, ha congegnato la tecnologia della sofferenza, ci ha bagnati nella sua posizione come l’orafo bagna un qualsiasi metallo in un liquido d’argento a bassa risoluzione. Lo schermo ci ha trasformati in questo effetto metallo che, con piacevoli bulloni e inaspettati innesti, ci arriva al collo come una grande corona di salvezza. Adesso ce l’abbiamo fatta, siamo liberi di soffrire!

5. Assai lirico, intenso e definitivo rimane il film corto Miserere 12 del 2004. Devo confessare che guardandolo a distanza di un anno, dopo aver seguito le ansie dell’autore durante la preparazione del lavoro, esso mi appare come la ratifica finale di una ricerca sul patimento, sul dramma e sul dolore che A.M. persegue, in maniera assai originale, sin dall’inizio della sua attività. Miserere è un grido costante alla liberazione dall’oppressione gemila del male, in quanto sofferenza fisica, è una forma affilata di attenzione per quel teatro della vita che non rinuncia a scegliere tra il disagio di quelli che si sentono accompagnati solo dalle voci, dalle ombre e dalle storie dei disagiati. Forse senza nessuna forma di affettazione letteraria, il video si fonda sulla storia di tre incantevoli figure della “tecnologia del sofferto”, intorno a cui ruotano le vicende di questo tentativo Sinfonico-Visivo.

Difatti, la deposizione di realtà è scritta tra le stesse testimonianze dell’epilogo: Luigi è spastico dalla nascita, a cagione di uno shock post-parto. All’età di 10 anni, durante un intervento di trazione, al quale si sottoponeva regolarmente, gli hanno danneggiato definitivamente il cippo vertebrale. Ora ha 39 anni e vive a Napoli, dove si occupa di una comunità di Tossicodipendenti. Armando ha 56 anni. Tredici anni fa ha contratto un virus che gli ha divorato il midollo spinale, in seguito, a causa di un banale intervento chirurgico, ha perso le ghiandole genitali. La moglie dopo 34 anni di matrimonio lo ha messo alla porta incolpandolo di mancanza di virilità. Un giudice ha riconosciuto gli alimenti alla donna e al figlio di oltre 30 anni che consistono nei due terzi dell’intera pensione infortunistica di Armando. Dopo aver chiesto l’elemosina per circa 1 anno ed aver abitato nella propria automobile, ora Armando vive con 400 euro al mese ed è ospite in un basso di Secondigliano. Susy l’hanno paralizzata 13 anni fa mentre tornava da scuola, allora e sotto la propria abitazione, a Secondigliano, con un colpo di pistola alla schiena, durante un conflitto a fuoco… aveva 15 anni.

Indicativamente la scrittura del film inizia da un’epigrafe tratta dal V Canto del Purgatorio di Dante: “E ‘ntanto per la costa di traverso/ venivan genti innanzi a noi un poco,/ cantando ‘Miserere’ A verso a verso…” . Qui il Miserere, ineluttabilmente, si collega alle figure ed ai personaggi appartenenti alla galleria di A.M.; questa volta, però, l’autore ci risparmia il grottesco ed il paradossale in cui ci conduceva qualche anno fa il riferimento al film culto di Tod Browning. Congiuntamente, gli attori professionisti e dilettanti sprigionano un’apparizione concentrata, ma nel contempo straziante e straniante. Essi si fanno avanti come delle figure delicate, fantasiose e poetiche, atte a forzare la texture drammatica del video. Miserere ci convalida che le riprese di A.M. sono delle vere e proprie prospettive aperte nella fattispecie cinematografica. Nello specifico Miserere – pur non avendo niente di pop o di open source come Scorpio Rising di Kenneth Anger – è una testimonianza densa rimestata su di un doppio versante: il messaggio ermetico del muto e il cinema d’essai della neo-avanguardia. Il Miserere di A.M. è un panegirico dell’imprecazione, che proviene come tutto il suo lavoro dal mondo sensibile e simbolico della pittura e dell’allografia.

Scavando in esso siamo stimolati ad allontanarci verso altri riferimenti storici, trasferendoci verso una sorta di rimando impressionistico/ espressionistico/ fauves: Georges Rouault, come anche le scritture del suo amico pittore parigino Léon Bloy, o ancora Joris-Karl Huysmans, autore di A Rebours. Rouault fu un grande artigiano e la sua attenzione è sempre andata ai diseredati, gli oppressi, i sofferenti, le prostitute, i clown, i saltimbanchi o le maschere della Commedia dell’arte. A.M. nel suo Miserere ribalta la lezione di Rouault! Egli senza ostentare nessuna traiettoria espressionistica, e disdegnando il facile aspetto deduttivo dell’equazione sofferenza-espressività, respinge le parole che Rouault – esprimendo il suo scetticismo per le teorie – ci aveva lasciato negli scritti del 1944: “In particolare ho orrore di quella negligenza del pensiero e dell’azione che sfocia in un idealismo umidiccio, appiccicoso e facile che rende gli angoli smussati e ogni disegno inconsistente, che accomoda tutto, spiega tutto. Per orrore di questo rammollimento, preferisco allora il cinismo, il realismo più comico o più violento” 13.

Ad un secolo di distanza tale questione può essere considerata solo attraverso un ribaltamento della tradizione espressionistica. Infatti, per A.M. il realismo rimane, ma si tratta di un realismo mediale, digitale, visionario, cosciente del fatto che oggi la comicità sarebbe da imputare a chi vuole vedere nell’esasperazione dell’immagine sempre e comunque una componente psicotica. La violenza in A.M. non registra un’attenzione di culto, ma una consapevole ragione analitica che nell’attenzione scrupolosa che si confonde con la descrizione della realtà sollecita il violento, i segni furenti, le tracce dissociate di qualcosa di indeterminato.
L’allievo di G. Moreau e il filosoficamente vicino a Jacques Maritain, dal 1917 al 1927, elaborò varie serie di stampe, tra cui la più famosa comprende i 58 fogli del Miserere. Tra queste acqueforti ed acquetinte, vi è una galleria di personaggi che si pongono e ci pongono domande, come il celebre Chi non si maschera?

Il tema era quello del dolore che scaturisce dalla guerra e dalla desolata condizione dell’uomo moderno. Nel Miserere di Rouault, si susseguono personaggi singolari e diversi: il cinese che ha inventato la polvere da sparo, coloro che si illudono di essere principi, i disturbati mentali, i condannati dalla vita e dalla società, gli avvocati che dovevano difenderli, gli oppressi, le madri sofferenti che piangono i loro figli dispersi. Inoltre, nonostante si è portati a credere che questa voglia di espressività di Rouault sia tutta manuale, tutta ricavata dall’artigianalità del pennello e del bulino, in realtà molti dei lavori grafici del celebre parigino sono fogli di grafica ottenuti con processi fotomeccanici e manualmente ripresi. Tale sfumatura tecnica dimostra che gli artisti che hanno trattato i temi del dolore si sono sempre occupati del passaggio tra sofferenza e tecnologia. A giusto titolo, quindi, anche l’opera di A.M. è un ibrido che risente di tutte le tecniche. Un artista mediale, per forza di cose, si trova di fronte ad una pratica incrociata, perché l’accavallamento e la sovrapposizione delle tecniche è insita nella sua stessa configurazione sociale.

Allora, se il Miserere di Rouault è tradizionalmente cristiano-socialista, il Miserere di A.M. è post-tecnologico e post-Kantoriano con un leggero e sottile presagio cyber-archeologico. In effetti, è come se nelle sequenze di immagini del Miserere di A.M. rivedessi gli Ammessi in Scena di Leo De Berardinis e di Perla Peragallo del Teatro di Marigliano. Infatti, guardando i personaggi per me è facile avvertire che non manca una leggera evocazione della figura artaudiana di Sebastiano Devastato, di Luigi Finizio, di Nunzio Spiezia, Vincenzo Mazza, etc.. che si vedevano in King Lacrime Lear Napulitane (1973), Chianto è risate e risate è chiante (1974), Rusp Spers (1976), Sudd (1979) 14. In queste rappresentazioni storiche, le distorsioni e i giochi di variazione sulla voce e sulle parole dal dialetto passano all’idioletto. Nel Miserere l’esclamazione e il tono penetrante, insidioso, assordante e tragico di Canio Loguercio trasformano la partitura in una sorta di Elegia della disperazione.

È come se A.M. con Miserere mi avesse rinnovato alcune suggestioni vissute grazie al Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller 15. I personaggi che scorrono sulla scena sono dei fotogrammi in movimento, che idealmente sembrano dipartirsi dalle fotografie di Maurizio Buscarino per Tadeusz Kantor 16. Un tempo tali suggestioni partivano dal fatto che in quel caso l’attore era il portatore della sua stessa forma di vita, che usciva da una quinta per sfidare il nulla dello spettacolo, passando da un séparer all’altro; qui in Miserere, nella scenografia di una Napoli sempre più al limite della catastrofe, i sei personaggi con un “verso a verso” (da un verso all’altro) – nello scenario di una post-fabbrica (l’Italsider) che si riverbera nella ritualità sofferente dei battenti a sangue di Guardia Sanframondi 17 – si proiettano in uno strano rituale senza sbocchi. Le parole che accompagnano le immagini parlano “di terra arsa e di domande sul perché del dolore, sulla condanna di essere stati inchiodati a sangue e di essere stati sconvolti, di essere stati spolpati e poi buttati come un torsolo, trafitti da uno spirito a filo di gas, a filo di dente, per una notte che sentiamo luccicante. Rispetto al vecchio urlo attivista dei ’99 Posse (Curr curr guaglio’ o’…) qui le voci rispondono con Stat’ accuort guaglio…

Nel Miserere, Napoli tira fuori ancora una volta la sua condizione di imprevedibilità, ciò che in alcune ma brevi autoesaltazioni si consumava nella facciata. Senza dover celebrare la classe morta, A.M. risponde allo stile del realismo psicotico con una cronaca annunciata di drammi silenziosi e sibillini, che scorrono nella galleria di quelle sofferenze che la nostra vita, la nostra esistenza non è in grado di bloccare, o di ridisegnare senza confondersi con la tensione quotidiana per la fabula.

Insomma, qui non si tratta del Melodramma, non risuona il Miserere de Il Trovatore di Verdi, sarebbe troppo bello pensare alla pulizia delle musiche di Gregorio Allegri (composizione corale, 1638) o al Miserere (a quattro voci del 1733) di Antonio Lotti, ma siamo di fronte ad una sorta di teatro interiorizzato per piccoli schermi. Lo spettatore è invitato a riflettere sull’esistenza di chi quotidianamente è allenato a non avere un’esistenza, a non vivere la vita dei battenti a sangue, poiché per tirare avanti deve battersi su un male che non ha mai commesso e per il quale sono costretti a gridare Miserere! Questo strano caso di comunicazione video, in cui la lezione teatrale e il laboratorio di animazione sociale e drammatico fluisce sullo schermo, condensa il lavoro politico come una sorta di poétique de l’écran.

Gabriele Perretta  (dal catalogo Steak&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005)

NOTE:
1. Pensare sociologicamente (2001), traduzione di Luca Bifulco e Gianpaolo Iannicelli, Ipermedium Libri, 2003, p. 178.  ⇑
2. David Lyon, L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza ( 1994), Feltrinelli, Milano, 1997.  ⇑
3. La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di internet (1996), a cura di Bernardo Parrella, Milano, URRA Apogeo, 1997, p. XXI e 27.
4. Bauman e May, op. cit., idem…
5. Di cui parla appassionatamente e misticamente Pierre Levy.
6. Qui mi permetto di segnalare in maniera provocatoria un mio saggio sull’argomento che ironizzava sul boom del Blog in rete, titolato Ecco… perché non ci guardiamo in faccia, ora in AA. VV., Media Comm…, a cura di Gabriele Perretta , Mimesis, Milano, 2004, pp. 65-71.
7. Théorie de l’écran, pubblicato sul n. 2 della rivista online Traverses… www.cnac-gp.fr/traverses.
8. A proposito si veda Espropriarsi e darsi, un altro mio testo sul lavoro di Matarazzo che parla di questo argomento in G. Perretta Edizioni d’Arte Parente, Benevento, 1997.
9. Qui naturalmente sto pensando al suggestivo lavoro su La camera chiara dedicato a Roland Barthes.
10. La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr.it. di Renzo Guidieri, Einaudi, Torino, 1980, p. 119.
11. Naturalmente, sin dall’inizio, ho suggerito il saggio di Lellouche, perché rimane abbastanza indicativo. Però, vorrei precisare che io stesso, sin dall’inizio degli anni ’90, ho registrato all’interno della poetica del medialismo la questione degli assi schermatici, nel 1997 una sezione del Laboratorio Politico di Fine secolo, Edizioni dell’Ortica, Bologna, fu dedicato tra l’altro alla pittura schermatica.
12. Tra gli interpreti del film troviamo Canio Loguercio, Aurora Staffa, Luigi Tufano, Armando del Sanctis, Susy Liguori, Massimo Borriello, Camy Reza, Barbara Matetich. Il Soggetto è di Matarazzo/Caravacci, le musiche originali sono di Fabrizio Castanìa e Canio Loguercio, il formato originale è in DV cam con inserti che evocano degli effetti tipo super 8, pronti a conferire un atmosfera di diradamento dell’imagerie. La durata è di 19.
13. Si riprende qui un passo di Soliloqui (1944), SEI, Torino, 1972 antologizzato poi in Mario De Micheli, Carte D’Artisti. Le Avanguardie. Lettere, confessioni e interviste, vol.2, Bruno Mondadori, Milano, 1995, p. 43.
14. Cfr. la sezione su Leo e Perla in Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (Materiali I, 1960-76), Einaudi, Torino, 1977, pp. 243-300.
15. Per confrontare la poetica di Neiwiller su Klee e il tempo si veda: Non ho tempo e serve tempo, L’Alfabeto Urbano, Napoli, 1988.
16. Cfr. La Classe morta di T. Kantor. Scritti di T. Kantor, foto di M. Buscarino, Feltrinelli, Milano, 1981.
17. Nel 1989, quando in arte non era di moda l’apologia della sofferenza e non c’era una grande considerazione del realismo psicotico, inserii nel catalogo della mostra Metessi alcune immagini dei battenti a sangue di Guardia Sanframondi.

”Gabbie”, (video)mutazioni tra fantastique e realismo.
[…] Nel panorama italico della videoarte, l’irpino Antonello Matarazzo rappresenta sicuramente uno dei personaggi emergenti. Già “scovato” e segnalato da Enrico Ghezzi, che tra l’altro appare nel suo mediometraggio Astrolìte, l’eclettico artista avellinese (ha lavorato anche come costumista e aiuto-regista al Teatro Bellini di Catania) ha alternato la produzione di corti (ricordiamo tra gli altri The Fable, selezionato per il Bellaria Film Festival, in onda su “Fuori Orario” e prodotto da Rai 3), videospot (da menzionare un lavoro recente per la Converse) e lavori attribuibili in senso stretto al filone della videoart (da menzionare Warh, presentato al Torino Film Festival), all’uso di altri media: Matarazzo è infatti anche pittore, fotografo, autore di installazioni, fruendo di un metodo di ricerca che tende ad annullare le distanze tra i diversi media (Medialismo).

Ha scritto di lui Enrico Ghezzi: “Ho il privilegio di non conoscere (non è vero, ci siamo incontrati almeno sette volte, e spesso parlati, o letti in quel nonluogo tra rete di ‘finestre’ in cui (ci) si scrive in cui anche ora in questo momento sarei se fossi) Antonello Matarazzo. Dico privilegio perché, ancor prima di apparire (cioè sparire seppellito in immagine) in un suo film (Astrolìte, suo e di Carlo Schirinzi), e quindi di diventarlo, ho avuto l’impressione di essere un suo ritratto; non un ritratto di me da lui fatto, ma un’immagine enricoghezzi, ritratto di un qualcos’altro forse nobilmente immaginato cui io sarei ignobilmente e pur fieramente estraneo. ‘Faccio l’artista in provincia’ mi disse quando lo chiamai al telefono dopo aver visto un suo video (lo presi subito per un festival). Come se avere il coraggio di dirsi artisti potesse non essere automaticamente ‘provincia’, magari fiorita ma con quel che di popoloso deserto che le appartiene, mentre la città, la civiltà urbana, è più un deserto ripopolato, popolato e disegnato a forza, campo di concentramento di fantasmi e movimenti e affetti che invece la provincia alberga contiene disperde con entropia più soffice e malinconica…”

La Valle Caudina ha recentemente ospitato Gabbie, personale di Antonello Matarazzo (“‘Gabbie’ è una condizione del corpo, ma anche dello spirito…”) articolata in due sessioni: la prima svoltasi a Montesarchio (Galleria Nuvole Arte Contemporanea), dedicata ad una serie di pitture dell’artista irpino e la seconda, tenutasi a Bucciano (presso l’ipertecnologica sede della Telenia), completamente incentrata su un programma retrospettivo di videoproiezioni: sono stati proposti in sequenza diversi lavori : La Camera Chiara (2003), Astrolìte (2002), Warh (2003), Le Cose Vere (2001), Mi chiamo Sabino (2001), The Fable (2000), Apice (2004), Lovers (2004).

Gabbie, proposta dall’Associazione Teorema e dalla galleria Nuvole Arte Contemporanea, con la media partnership dell’Associazione Culturale Caudina Interzona, è stata senza dubbio un’occasione importante per esplorare compiutamente l’universo dei lavori del videoartista irpino: dal moltiplicarsi frammentato di uno sguardo vitreo, punto focale per scrutare l’immutabilità della provincia meridionale al frantumarsi dell’esistenza quotidiana in mille rivoli di volti e nomi “risucchiati nel loro vecchio tempo”, fino alle ansie, le inquietudini, la follia, l’irrealtà vissuta attraverso brandelli di storie fissate in una miriade di “gabbie” sospese nello spazio in posizioni assai disparate.

Anteprima Filmfestival. Ma la scuola no.
Metafisica ed empirismo, fondamenti concettuali e decaloghi della comunicazione: in disparte, anche nella storica arena di Bellaria, il cinema.

[…] Con La Camera Chiara, l’unico corto in concorso che astrae completamente da intenti sia narrativi sia documentaristici, Antonello Matarazzo riprende l’esperimento (iniziato con The Fable, 2000) teso a infondere vita, sguardi e corpi di luce, attraverso mutazioni multiple, a vecchie fotografie. Matarazzo ricostruisce la “camera” come contenitore vuoto e rotante della misteriosa interiorità delle immagini che si manifestano come pura esteriorità bidimensionale, fissa eppure soggetta al trascorrere degli anni, al trasmutare ‘intorno’ ai loro sguardi accesi, di padri madri e neonati immobili davanti all’obiettivo. Dalle fulminanti note-testamento di Roland Barthes, il film restituisce così l’essenza/esistenza fisica: gli occhi del tempo, che ti guardano.

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – anno XXIII, N° 123, ago/set 2003)


Y cinembargo se mueve…

[…] Ya que citamos a un intelectual cuya aportación al pensamiento humano contemporáneo es innegable, por qué no hablar también de Roland Barhes, quien alguna vez sentenció que “Quisiera una historia de miradas”, cita que da fin a La Camera Chiara (Antonello Matarazzo, Italia; 8’00”), experimento que mezcla exitosamente fotografía fija, video digital y software informático para desvanecer, manipular, encadenar y fusionar imágenes de personas que vivieron en la Italia de principios del siglo XIX, procedimiento técnico nada novedoso si recordamos esta misma aplicación en videos musicales como el Black or White de Michael Jackson, dando a momentos la impresión de tratarse de un entrañable screensaver de computadora, lo que me lleva a preguntar qué tan válido es presentarlo como un cortometraje cinematográfico… por muy experimental que éste sea. Con todo, es una aportación interesante por el uso de viejas y nuevas tecnologías de información de manera simultánea.

José Luis Ortega Torres  (REVISTACINEFAGIA – agosto 2004, Messico)


Video o dell’opera totale in Antonello Matarazzo

[…] Precedentemente parlavo di sguardi, un tema che torna ciclicamente nei film di Antonello Matarazzo. Infatti il suo film successivo La Camera Chiara ha come centralità tematica proprio lo sguardo (una citazione di Barthes chiude questo lavoro: “Io vorrei una storia degli sguardi”). Quest’opera rappresenta anche un ritorno alla sua idea originaria di cinema-video. Ma stavolta attraverso l’amplificazione necessaria della dimensione digitale. Matarazzo lavora, con grande raffinatezza (come elegantissima è la scelta musicale dei Sigur Rós) nell’evidenziare inizialmente una parte della foto, scontornandola e mostrandocela quasi come la sua idea di “punctum” e poi ricollocandola, gradualmente all’interno del suo spazio visivo originario. Non c’è racconto, non c’è traccia drammaturgica e nemmeno volontà documentaristica. C’è la composizione del vedere, lo scandire il tempo della visione attraverso la “rappresentazione” foto-grafica, la mutevolezza dei segni in forma di luce, la fissità che indica l’estrema mobilità del tempo, le dinamiche densissime degli occhi. Così, se in precedenza Matarazzo ha lavorato sul video metapittorico, poi metacinematografico, poi metatelevisivo, ora è la volta della riflessione sugli statuti della fotografia: sulle composizioni della fotografia come profondissimo disegno della memoria e come raffinato esempio di voler ripensare nella nostra contemporaneità le possibili affezioni tra sviluppi tecnici e i livelli inconsapevoli della messa in posa […]

Alfonso Amendola  (dal catalogo Steack&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005)


Dietro la fotografia

[…] Tra gli artisti che utilizzano questi nuovi strumenti, un posto di notevole importanza va dato ad Antonello Matarazzo, pittore (dei migliori nel panorama della pittura) e video-maker. In Matarazzo liquidità 1, pastosità pittorica e convulsione insertata a nevralgia video-(sonora) vivono un rapporto di compenetrazione, di compartecipazione, di contaminazione, […] È stato Alfonso Amendola a segnalare con estrema precisione che «Tutto il lavoro di Antonello Matarazzo è dialogo, costruzione e, come più volte sottolineato, contaminazione di forme e stili (in piena linea con le idee guida del Medialismo)» 2. Antonello Matarazzo smaglia il reale (come Bill Viola, Douglas Gordon, Gary Hill). Ne mostra le distrazioni, contorsioni, assuefazioni, devitalità, assenze. Il video è per lui il piano dell’eleganza, della chiassosa caotica vibrante eleganza psichica. Della necessaria disarmonia. Che è il centro del proprio equilibrio. Della distruzione del tempo. Del suo rincorrere il tempo. Un tempo totale. Mai organizzato. Il video (lo sappiamo): campo di sterminio nel quale tutto viene rimandato all’uccisione, alla camera ardente, al fuoco, alla pasta ritmica che restringe i segni, rattrappisce, anoressizza e (intanto) bulimizza significati diversi. Video. Io vedo. Io vedo e vado oltre.[…]

Sono già oltre. Sono dietro le cose. Scovo il dietro delle cose. Il dentro, (di)-dentro. L’essenza. L’abbandono (urgente, necessario, acuto, multiforme, assente). L’origine del loro farsi cosa tra le cose. Cose che appartengono ad una dimensione silenziosa che prende (e perde) la voce. A volte ci sono dei libri che racchiudono in un periodo geniale l’intero discorso che tendono a dispiegare. È il caso de La camera chiara di Barthes: «Io vivo la Fotografia e il mondo di cui essa fa parte distinguendola in due regioni: da una parte le Immagini, dall’altra le mie foto; da una parte, la non curanza, il sorvolare, il chiasso, l’inessenziale (anche se ne sono abusivamente assordato); dall’altra, ciò che brucia, ferisce» 3. […]

La Camera Chiara di Antonello Matarazzo rappresenta tutto quello che possiamo fare con la fotografia che si distacca definitivamente dall’universo analogico. […] Una fotografia che, pur trattenendo i connotati fotografici, perde la propria dimensione di bidimensionalità per accedere ad (in) un sistema semantico cyberspaziale. […] La volta celeste nella quale un punto (che è il punctum barthesiano) si muove per dirigersi verso di noi fino pungerci le pupille. Accecarci. Accecarci per immetterci in uno sguardo più violento e visionario. I fantasmi sulla scena vivono l’apparizione, la metamorfosi, la dissolvenza. Ancora: accettano di essere scontornati per ferire. Acquistano colore per immergersi in altre apparizioni. Le essenze raffigurate nelle fotografie (immagini d’altri tempi riprese dall’archivio del Centro Guido Dorso di Avellino). Fotografie di famiglia, fototessere, fotografie di matrimoni che si intersecano, si mescolano in un gioco di spettrale morphing.

Antonello Tolve  (CONTROSENSO – giugno 2005)

NOTE:
1. Per il concetto di liquidità si rimanda ad Alfonso Amendola: Video o dell’opera totale in Antonello Matarazzo, nel catalogo Antonello Matarazzo, Steak&Steel, International Printing ed., Avellino 2005, pagg. 47-62.
2. Alfonso Amendola, ibidem, pag. 50.
3. Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi ed., Torino 2003, pag. 99.


Il morphing dell’anima

[…] La Camera Chiara – che approfondisce il discorso iniziato con The Fable – è una sintetica “storia degli sguardi” ricavata dalle foto del Centro Guido Dorso di Avellino. Barthes, nell’omonimo saggio, dedica molte pagine al fatto che la fotografia consente ciò che il cinema proibisce: guardare in macchina, riflettendo poi sul suo infondere una coscienza non dell’esserci della cosa, ma dell’esserci stato. Matarazzo sembra lavorare proprio su questo concetto, rendendolo però ambiguo, sfumato, poiché – a differenza dello scarto che Barthes ritiene ci sia tra cinema e fotografia – oggi, nell’era del digitale, il tempo del video e quello della fotografia finiscono col coincidere, grazie per esempio al morphing, che plasma la materia elettronica come fosse una scultura, permettendo di trasformare un volto fotografico in un altro, in modo da suggerire una continuità anche somatica, a volte genealogica, antropologica dei volti. Ma il morphing non è solo un procedimento tecnico, è anche la materializzazione visiva di una metonimia: nel finale di Miserere , ad esempio, la trasformazione dell’uomo in una bambina che ride è un ritorno alla purezza primigenia. Matarazzo sceglie di isolare alcune figure (in gran parte bambini) all’interno dei ritratti fotografici, di rielaborarle cromaticamente o luministicamente, rendendo non solo ancora più ectoplasmatiche le figure, ma creando un gioco di infinite combinazioni. Ed è qui che emerge senza dubbio la sua natura di pittore, non tanto perché si confronta con l’immagine fissa piuttosto che con quella in movimento, ma proprio per la sensibilità, per la possibilità di dare un senso narrativo solo attraverso la texture, la trasfigurazione verso l’astratto. […]

Bruno Di Marino  (dal catalogo 42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, ed. Fond. Pesaro Nuovo Cinema Onlus, Roma 2006)


Passeggiate nel Cinema

[…] Parla anche italiano invece lo Spazio Video, che tra l’altro dedica una doverosa messa a fuoco all’opera quasi completa di Antonello Matarazzo, artista avellinese. La ripetizione disturbata è probabilmente la cifra stilistica che collega, come un filo percorso da corrente elettrica, le sue prime opere, in cui rompe la quiete degli sguardi (e dei cuori) di vecchie fotografie e il loro sonno nella penombra del tempo […]

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – anno XXVI, N°141, sett/ott 2006)


AND THE WINNERS ARE… 

Entrambi italiani i vincitori della 4a Edizione di Corto.Web, il concorso on-line di ARCIPELAGO. Una riflessione barthesiana su fotografia & memoria e un’irriverente animazione Flash i due corti più votati su Internet. Per la prima volta, gli utenti europei più numerosi di quelli statunitensi.
Dopo quasi cinque mesi di permanenza sul sito cortoweb.tv si è conclusa il 9 novembre scorso la Quarta Edizione di Corto.Web, il concorso internazionale on-line organizzato da ARCIPELAGO – Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini di Roma, in collaborazione con Interact. Offerti da Alphabet City, i due i riconoscimenti in palio – di 500 Euro ciascuno – sono stati assegnati sulla base del gradimento del pubblico della Rete, che ha potuto esprimere il proprio voto scegliendo tra 22 film in competizione.
Con ben 2.948 voti, nella categoria Desktop (riservata ai cortometraggi fino a 15 minuti) si è distinto La Camera Chiara del pittore e filmmaker avellinese Antonello Matarazzo: un raffinato video che si serve della tecnologia digitale per realizzare un’emozionante riflessione visiva sulla fotografia e la memoria ispirata all’omonimo saggio di Roland Barthes. […] (Comunicato Stampa 15/11/03)

I figli di nessuno   

Ho il privilegio di non conoscere (non è vero, ci siamo incontrati almeno sette volte, e spesso parlati, o letti in quel nonluogo tra ‘rete’ di ‘finestre’ in cui (ci) si scrive in cui anche ora in questo momento sarei se fossi) Antonello Matarazzo, e di essere invece da lui conosciuto o meglio riconosciuto. Dico privilegio perché, ancor prima di apparire (cioè sparire seppellito in immagine) in un suo film (suo e di Carlo Schirinzi, e con la collaborazione di Marco De Angelis), e quindi di diventarlo, ho avuto l’impressione di essere un suo ritratto; non un ritratto di me da lui fatto, ma un’immagine enricoghezzi, ritratto di un qualcos’altro forse nobilmente immaginato cui io sarei ignobilmente e pur fieramente estraneo.

‘Faccio l’artista in provincia’ mi disse quando lo chiamai al telefono dopo aver visionato un suo video (lo presi subito per un festival). Come se avere il coraggio di dirsi ‘artisti’ potesse non essere automaticamente ‘provincia’, magari fiorita ma con quel che di popoloso deserto che le appartiene, mentre la città, la civiltà urbana, è più un deserto ripopolato, popolato e disegnato a forza, campo di concentramento di fantasmi e movimenti e affetti che invece la provincia alberga contiene disperde con entropia più soffice e malinconica (torno ora da Cannes, dove stava, foglia anche adamitica sull’albero, una (inin)fluente retrospettiva ‘fellini’; e mi accorgo di quanto Fellini sia proprio da studiare come perfetto allucinante percorso dell’illusione artistica, quasi un calco debordiano, rovescio preciso: la provincia coi suoi sogni familiarartistici di vita/opera nel suo tempo sempre sorpassato, e la fuga verso la città, cioè il cinema, dove l’arte è e sta, senza bisogno di artisti si direbbe; Fellini, per paradosso il più facilmente riconosciuto dei ‘registi artisti autori’, è quel che fu Parigi e sarà poi New York, un luogo esemplare del condensarsi urbano – vedi la ‘confessione’ ROMA – del desueto desiderio di ‘voler essere artista’, cioè di indorarsi e bruciarsi nell’arte automatica che è il cinema).

Di The Fable mi colpì la malinconia appunto, un po’ cattiva peraltro, ironica forse nei lunghissimi finti titoli di coda, peraltro infiniti e genealogici come nei kolossal tecnohollywoodiani, esatti nel sapere che in una semplice raccolta di fotografie culmina ogni volta e ad ogni sguardo tutta la storia del mondo. Sottolineo che si trattava di ‘video’, come già detto. E come per tutti i lavorgiochi di Matarazzo (ma ora dirò ‘antonello’). Non tanto per il senso tecnico e quindi magico che la differenza film(pellicola)/video ha ancora, e soprattutto anzi ora, in questa luce di crepuscolo in cui tutte le immagini digitalmente si (con)fondono, in direzione dell’immagine invisibile che ci attende, priva di sostanza e di forma, senza di ‘noi’ perché ‘noi’ ci troveremo a essere sostanza e forma di quell’immagine, ci riconosceremo (quell’)immagine. ‘Video’ quanto ‘film’ erano e sono quelli del suo non imparentato Raffaello Matarazzo (sempre nomi di pittore, ‘guarda’ (senza) caso). Glielo chiesi subito, e subito mi deluse: ‘no, non sono parente’.

E va bene. Giusto. Per irritanti che siano, i video (e poi i film, quando le imposture postwellesiane alla Barney si impongono a suon di miliardi e di ‘copie originali’ uniche per ricchissimi il cui pregio maggiore sta nell’ipotizzabile e augurabile facile riproduzione e contraffazione) “d’artista” risultano spesso i più ingenuamente genuini, nel circolare e peregrinare di ‘corti’ da un festival all’altro nel mondo; scontano subito le due ambizioni principali spesso intrecciate nei piccoli film di migliaia di neoregisti, appunto quella ‘autistico-artistica’ e quella di prevendersi con un biglietto da visita indifferente che dimostri la loro astuta complessa nitida (affid)abilità per più lunghi e filmici e dorati e spettacolari ‘realizzi’. (Sappiamo del resto quanto sia più interessante artisticamente – e ahimè quanto stia diventando anche più ‘intenso’ – un momento medio di un film di Mario Bava degli esercizi affascinanti e spericolatamente (ma la ‘rete’ appunto c’è sempre ora, per tutti) postfilmici di un Douglas Gordon o di un Gordon Douglas o perfino di un Bill Viola.

Inevitabilmente, a loro volta (loro e tanti altri artisti postvideofilmici), più intensi e (av)vincenti di quasi tutti gli altri artisti contemporanei, anche dei più accaniti e rigorosi e solitari (che allora non possono che pro(re)gredire di nuovo in senso criptofilmico trovando vertiginosamente il readymade duchampiano nell’opera stessa in quanto onda rifranta del mondo readymade); mi limito a constatare come i palindronomi/cognomi dei due ‘douglas’ citati siano precise citazioni – o volute barocche non volute – del nome del regista hollywoodiano di genere, secco esplosivo perfetto senzastile, che tra gli altri realizzò uno dei grandi titoli eponimi della fantascienza filmica, quel THEM che ancora o già ‘ci’ indica con ostinazione).

Non conosco quindi l’opera d’artista di Antonello, quella in cui cose e immagini immagino pretendano d’esser ferme o quasi, almeno quanto cinema televisione video (pre)tendono invece di farsi credere in moto. Ho visto i suoi video, che ora vorrei chiamare film. Ho visto il film in cui mi ha proiettato e ritratto per quanto io abbia cercato di ritrarmene. Ho rinviato, fino all’ultimo e a dopo, anche il depositarsi di questo testo.

So, e poi risento, che una genealogia senza nessun appiglio tuttavia ci unisce. E che le immagini dei suoi film, di quelli che amo di più e che definirei (per me) i suoi primultimi, tradiscono il rispetto per il giacimento di archivi intrecciati che c’è in ognuna di esse come in ogni volto, in ogni sguardo, in ogni punto ciecoveggente di esse. (Il grande cinema estremo di oggi su questa cecità e invisibilità del visibile lavora. Sokurov e Straub&Huillet, esempi forse opposti ma uniti nell’ingaggiare una sorta di ‘sguardo di ferro’, di confronto con lo sguardo fissato – Cezanne come nome unico qui solo per far breve, ma Piero..e Monet Turner El Greco alla rinfusa e settantasette altri – della pittura verso il proprio impossibile muoversi sulla lunghezza d’onda e vibrazione del subliminale fermo/in moto…).

Trovo lì, ritrovo, la composta capacità di sapere l’inanità dell’artista, di sapersi ‘figlio di nessuno’ in una cava dove miliardi di mani senza nome, umiliate o ribelli, hanno scavato da sempre, bestie da lascaux o minatori prigionieri o cavatori anarchici, forse per ricavarsi una fossa. O il gusto amarognolo di rifiutarsi all’imperativo virale capitalistico dello stampar cartamoneta, che tanto non siamo, noi/them, eterni. Figli di nessuno, infine un po’ fratelli, forse ci si riconosce senza conoscersi. Perché l’immagine non è figlio né madre, né padre né figlio, né copia né originale. La riconosciamo, senza che sappiamo cosa conosciamo delle ‘figure’, dei segni che crediamo di riconoscere e che non conosciamo. (Abbiamo (specie in arte, dove qualcuno pensa la parentela sia con un vero una cosa un reale, invece che un nulla), per i figli di nessuno, almeno il rispetto che abbiamo per i loro genitori e parenti tutti: per nessuno).

enrico ghezzi  (dal catalogo “Antonello Matarazzo”, edizioni Studio Vigato, Alessandria 2003)

ASTROLìTE al Torino Film Festival 

Il primo mediometraggio di Antonello Matarazzo, scritto e girato con il leccese Carlo Michele Schirinzi, approda al Torino Film Festival che si terrà dal 7 al 15 novembre prossimi. Titolo: “Astrolite” anzi Astrolìte. Durata 45 minuti. Protagonista – se un protagonista c’è – Enrico Ghezzi, il critico cinematografico, padre di Blob e Schegge, appena censurato per il suo lungo servizio su Berlusconi. Scenario una Avellino al nero di seppia, vista dal basso verso il basso, come non l’avete mai guardata e vi sarà difficile dimenticarla.

Partiamo dall’inizio, anche in questo caso, se l’inizio c’è. L’astrolìte è un materiale esplosivo, con il quale traffica un alchimista o bombarolo – un ottimo Gabriele Perretta – che tenta di far deflagrare un televisore – gesto liberatorio per eccellenza – per una catarsi girata con occhi da entomologo. I personaggi sono come insetti, scrutati nella tana, prima che un rivolo di acqua li distrugga. La loro vita, marginale per statuto, è elogio all’insignificanza, vocazione alla nullità, conato alla non-esistenza. Goffe, autistiche figurine virtuali mai nate, staccate da uno schermo, grande ventre che li ha generati e a cui tendono per morire, finalmente.
Trama: accennata e consapevolmente pretestuosa, che aspira ad appartenere ad un genere, il giallo, e inevitabilmente de-genera nel rimando alla propria impossibilità di reggere.

Andamento circolare: il film si apre con i preliminari dell’esplosione e si chiude con la deflagrazione. Ma questo non è un film esplosivo: qui tutto implode e tende verso un centro che non è un nucleo narrativo ma un’icona, un’idea di cinema in carne ed ossa, quella incarnata autisticamente da Enrico Ghezzi, demiurgo di vite rarefatte e sospese tra esistenza e proiezione.

Opera metacinematografica e post-narrativa, Astrolìte va guardato – e non seguìto (sarebbe impossibile) – con abbandono estetico, mettendo da parte ogni convenzionalità. Lo sguardo trova nel film se stesso ma deformato, laddove non è più possibile la deformazione della realtà, piuttosto quella di una virtualità pervasiva, che inficia finanche il diritto di esistere di chi guarda e di chi è guardato.

Insomma questo è un film sull’ambizione illogica di fare un film, in un mondo in cui la rappresentazione si sostituisce al reale. Dunque, non c’è più nulla da rappresentare, se non quello che avanza negli interstizi del già visto: i rifiuti, i ritagli, i rottami, lo scarto delle altre vite, la segatura dell’umanità, usata per assorbire fallimenti. E la voce fuori campo di Ghezzi recita una sorta di refrain: “Il cinema è esalazione, una squama. Noi robot d’un tempo, siamo in preda alla mutazione…”.
Matarazzo e Schirinzi utilizzano sia attori professionisti: Massimo Borriello e Nunzia Di Somma, che non-attori come Raffaele Pulzone: spettrale moribondo, Michele Di Prisco: uno straordinario contabile della morte, Gigio Borriello: credibilissimo suicida, con piccoli e memorabili camei come quello di Laura Mauriello – anche aiuto regista – e Rino Matteis.

Due gli scenari, entrambi irpini, ma che in realtà potrebbero essere qualsiasi posto del mondo, purché vi sia degrado e abbandono, obsolescenza e marginalità.
Il primo è il Mercatone: la macchina segue i sapienti tacchi a spillo di Nunzia Di Somma, che si destreggiano tra i rifiuti d’ogni genere e la pietra al collo di Borriello che tenta il suicidio in una pozza di acqua ristagnante.

Il secondo scenario è una casa nella campagna Atripaldese, innevata e astratta. Purgati da ogni connotazione, si tratta in realtà di non luoghi per non esistenze, delle quali va annotata soltanto la data di inizio e quella di morte. Immancabile, quindi, il cimitero, terzo e unico luogo possibile, proprio perché niente è più. Solo in presenza della morte avvenuta gli autori danno voce ad una vena potente che altrove hanno sacrificato. E cioè il grottesco, che meglio d’ogni altro timbro si abbatte come una cesoia su ogni tentativo di senso. Con le croci di Pax e Max e Vallifuoco che si dispera sulla tomba della sua pasticciera assassinata, si ride. Anche.

Natascia Festa  (CORRIERE – 11/10/02)


ASTROLìTE ad un passo dalla menzione

Si è conclusa ieri la ventesima edizione del Torino Film Festival Cinema Giovani che ha visto in concorso nella sezione “Spazio Italia” il film Astrolìte di Antonello Matarazzo e Carlo Michele Schirinzi di cui ci siamo già occupati in queste pagine. Al Lingotto, martedì scorso, in una delle sale del Multiplex Pathé, la prima proiezione con gli autori e i maggiori critici italiani. Il film non ha vinto ma ha sfiorato la menzione d’onore dividendo fortemente la giuria. Buono anche il consenso che il film ha riscosso tra gli addetti ai lavori non in giuria. Le tre proiezioni della settimana scorsa hanno avuto un pubblico folto, interessato e, soprattutto, qualificato. Per il resto molta vetrina è stata data ai film con protagonisti volti noti tanto del cinema quanto della televisione. Nella stessa sezione “Spazio Italia” appunto, c’erano grandi produzioni con Franco nero e Valerio Mastrandrea. Di “nuovi linguaggi sperimentali” come recita il sottotitolo della sezione non si è visto molto. Astrolìte sicuramente si pone su questo coté, per palati meno facili. Tra le comparse avellinesi del film anche la nostra testata. “Corriere” è il quotidiano che racconta i delitti di un piccolo claustrofobico centro di provincia…

Astrolìte è un film respingente, che non vi piacerà, come certe volte non vi piace la vita che conducete o la faccia che avete. Uno va al cinema per sentirsi raccontare una storia, lasciarsi avviluppare in una trama, sognare mondi, scambiare identità, apparenze, ed ecco invece che un film vi restituisce nudi e crudi a quel che siete, e non lo sapete, svuota prosciuga e deride la vostra povera effigie, dandovi in pasto a quel sentimento di inapparenza, inappartenza, estraneità, che tanto v’eravate sforzati di ricacciare indietro, in chissà che recesso.

Siete pieni di angoli dove la luce della realtà non arriva, di luoghi oscuri, mai percorsi, di buio da stanare prima che lui stani voi: da lì, oscuramente, come un’esalazione, una squama, si fa strada una qualità indefinibile di ciò che sentite senza vedere e che vedete come privi di sguardo, degradati a simulacri, irretiti in una fissità scandalosa, sinistra e burlesca insieme, spettatori inermi mentre altri che non siete più voi, parla e si muove al vostro posto, in una lingua incomprensibile, secondo movenze e passi già fissati. Un altro sguardo vi possiede e vi tiene, siete ingabbiati senza una via di fuga che non sia ancora lo schermo che vi racchiude, ovvero il luogo entro cui questo spossessamento, questa mutazione, tutta interiore eppure così aliena, si consuma. E’ un tempo debordante, denso di oblìo, fuori dal tempo e dall’assordante rumore di fondo – il monitor sempre acceso della quotidianità: sembrerebbe uno dei vostri odiosi tempi morti, e invece è il tempo morto del cinema, che in un bagno di bianco, di nero, di grigi e di accese mulinanti escandescenze, in poco più di quaranta minuti, parla del cinema e, attraverso le immagini, scrive di sé.

Metatestuale e allusivo, terribilmente autoriale, Astrolìte, mediometraggio di Antonello Matarazzo e Carlo Michele Schirinzi, in concorso al Torino Film Festival appena conclusosi, nella sezione “Spazio Italia”, corre sul filo delI’equazione sguardo – percezione, I’occhio dietro la telecamera riprende il reale mutuando dalla realtà il suo coefficiente di assurdo, e lo restituisce, snaturato, impoverito, oramai reinventato, a chi guarda. L’oggetto della ripresa coincide con uno stato d’animo spaesante, è un chiasma visivo, un’equazione espIosiva (I’inglese shot vuol dire ripresa cinematografica e colpo, scoppio nel contempo), e per davvero, il potente esplosivo che dà nome al film e che attorno al suo nucleo mortifero rapprende una lunga beffarda teoria di incarnazioni, è un’attesa di cinema, I’incalzare di una minaccia seducente e corrosiva al reale – seducente perché visionaria, corrosiva perché svuota delle sue coordinate il percepire.

Seduzione e vessazione, del resto, compulsano l’opera degli artisti Matarazzo e Schirinzi, irpino l’uno, leccese l’altro, entrambi approdati al cinema come all’inevitabile crocevia di territori espressivi, figurativi e non, che avevano già attraversato, di suggestioni – letterarie, concettuali, massmediali – con le quali avevano sviluppato la consuetudine necessaria ad osare altro, a sperimentare ancora. Non è un caso che il personaggio che vediamo curvo in locandina, il ‘bombarolo’ col quale nella lunga sequenza iniziale il film si apre, sia il critico d’arte Gabriele Perretta e che al centro del tremendo e minimo caos che il film sviluppa ci sia il corpo il volto la voce di Enrico Ghezzi, sublime aguzzino e spietato censore di tutto il mediale che c’è.

Da due sud diversi, condividendo quello stesso stare ai margini di tutto ciò che riguardo all’arte accade sempre altrove, con la caparbietà, I’ostinazione, I’entusiasmo delle imprese un po’ folli, superando la diffidenza di una provincia sonnacchiosa e poco disposta a dar credito a tutto ciò che evade dagli schemi rassicuranti della normalità, Matarazzo e Schirinzi sono andati in giro per Avellino a caccia di luoghi e di facce, calamitando intorno a sé la stessa energia sulla quale si reggeva la loro personale e magnifica ossessione. Due gli attori professionisti coinvolti nel lavoro, gli avellinesi Massimo Borriello e Nunzia di Somma, e poi una selva di facce, a dare volto e spessore a un pugno di moleste e derelitte creature, cospiratori del nulla per un giorno come Lello Pulzone, Gigio Borriello, Michele De Prisco, Fara Vitali, Emilio Grillo, Luigi Cosi – per citarne alcuni. Tra le righe di una scrittura filmica all’apparenza impervia, qualcosa di diverso dal linguaggio ma ad esso contiguo, si offre come un’ulteriore chiave di lettura del film, ed è appunto quella curiosità iconica dissacrante e vitale, il talento nel suo farsi, crearsi varchi, vie all’espressione a dispetto dell’evidenza, dell’indifferenza dei volti, del silenzio, della stasi, dello squallore dei luoghi. Già, i luoghi: una città desolante, che, se non rimossa del tutto, facciamo spesso volentieri a meno di ricordare, fa da sfondo, in gran parte, all’azione. Il Mercatone si è offerto senza trucchi di scena, senza cure o filtri d’autore coi suoi meandri e il suo deserto abbandono. Verrebbe da pensare: Avellino, cupezze e scintillìi. Le cupezze a Torino, alla ventesima edizione del più prestigioso dei festival per giovani autori, e gli scintillìi tra poco più di un mese, quando s’inaugurerà il nuovo teatro intitolato a Carlo Gesualdo. Tanto varrebbe intitolare il Mercatone alla bionda D’Avalos, sposa infedele del principe dei madrigali: è il posto ideale, per passare a dannarsi tutta l’eternità.

Laura Mauriello  (CORRIERE – 17/11/02)


I figli di nessuno

Ho il privilegio di non conoscere (non è vero, ci siamo incontrati almeno sette volte, e spesso parlati, o letti in quel nonluogo tra ‘rete’ di ‘finestre’ in cui (ci) si scrive in cui anche ora in questo momento sarei se fossi) Antonello Matarazzo, e di essere invece da lui conosciuto o meglio riconosciuto. Dico privilegio perché, ancor prima di apparire (cioè sparire seppellito in immagine) in un suo film (suo e di Carlo Schirinzi, e con la collaborazione di Marco De Angelis), e quindi di diventarlo, ho avuto l’impressione di essere un suo ritratto; non un ritratto di me da lui fatto, ma un’immagine enricoghezzi, ritratto di un qualcos’altro forse nobilmente immaginato cui io sarei ignobilmente e pur fieramente estraneo. […]

enrico ghezzi  (dal catalogo Antonello Matarazzo, edizioni Studio Vigato, Alessandria 2003)


Video o dell’opera totale in Antonello Matarazzo

[…] Dal cinema il video acquista la volontà di rappresentare una costellazione simbolica che si rivolge all’animo umano, ma che è irreparabilmente sempre altra. Dalla televisione acquista il regime di dominanza del suono tant’è che, il rapporto tra radio e video caratterizzerà tanto accese ricerche di compositori di musica concreta ed elettronica (John Cage e Philip Glass sono due tra i nomi centrali) quanto susseguenti espansioni dell’uso del video (videoclip, videodanza, videoteatro) che sarà anche uno degli aspetti più investigati dall’arte del video.

Un trionfo di ragioni e passioni, un riflettere sui livelli della percezione e una riuscita sintesi sulla contaminazione estrema dei linguaggi che il video Astrolìte (mediometraggio del 2002, co-firmato con Carlo Michele Schirinzi) lucidamente evidenzia. Uno scritto di enrico ghezzi (qui anche attore, tra gli altri c’è anche Gabriele Perretta) apre ed accompagna il film: “La mutazione è una sorta di immagine anarchica, atea, selvaggia che non riconosce l’origine del cambiamento dell’umanità, del corpo umano. Della mutazione, infatti, si ha una paura terribile. È per noi una sorta di futuro, di orizzonte futuro, che ci mostra in modo più evidente quello che sicuramente sta accadendo anche a noi”.

Film immerso nei colori del nero, tra citazioni di Beckett e movenze fumettistiche, spazi ossessivi e immagini ripetute, il film è un viaggio (provocatorio, volutamente sgradevole, visivamente eccedente) verso un’ideale poetica dei margini e della deflagrazione del visivo, con un pretesto narrativo che strizza l’occhio nuovamente al cinema giallo. Astrolìte è soprattutto una riflessione densa di sguardi e prospettive disarticolate verso gli universi del cinema, della televisione e delle immagini in movimento più in generale. Deformare lo sguardo sembra essere la volontà principe dei due registi. Ma anche riflettere sulla mitologia dell’esperienza televisiva. Più in generale, la questione della sperimentazione video trae la sua potenza formativa da una forte volontà critico-espressiva (ma anche introspettiva) che il video-maker fa del mondo in cui vive, un mondo filtrato attraverso schermi che trovano nella materia inconscia un resistente vuotoda cui trarre i materiali più disparati. Una potenza critica, decostruttiva, riflessiva, dunque che si rivolge contro i miti e i simulacri della degenerazione sociale. Staccandosi dalla realtà, il video si presenta come realtà altra, o meglio tende a produrre una realtà parallela a quella in cui viviamo. Ma non è una sur-realtà bensì una realtà che vive in un’altra dimensione. È una realtà in cui la cosa viene vaporizzata, ridotta a pura apparenza. È in questa new-dimension in cui tutto può accadere che l’essere si muove, si metamorfizza, nasce e contemporaneamente muore. […]

Alfonso Amendola  (dal catalogo Steack&Steel, International Printing Editore, Avellino 2005)

Matarazzo, quando il video diventa opera totale

[…] Con il lavoro successivo Le cose vere (2001) il dialogo verso il linguaggio audiovisivo diventa più determinato ed operativo. Dal fotogramma fisso all’immagine-movimento, si potrebbe titolare questo passaggio. C’è cinema già a partire dalla storia. Un gruppo di amici vuole girare un film giallo, ma la “crisi” del cinefilo primo attore spingerà la troupe a realizzare una sorta di “film-reality” centrato sulle crisi emotive ed intellettuali del protagonista. Il video è anche un prezioso omaggio al cinema e gioca, quindi, sul sempre complesso piano del “metacinema”. Logicamente restano tutti i temi che sappiamo esser dentro le pratiche visive di Antonello Matarazzo: la ripetizione come necessità esplorativa e potentemente creativa, gli scenari del suo territorio, la plasticità dei volti, le dimensioni dell’ossessività, le trasfigurazioni dal visionario al reale, i silenzi assordanti, “le cose vere” di una quotidianità che può essere vorace, fragilissima e disperata. […]

Alfonso Amendola  (L’UNITA’ – 06/02/05)


Il posto qual è

[…] ma ciò che colpisce e rimane nella memoria sono le ‘inconclusioni’, i détour, gli autismi delle macchine da presa, leggere o pesanti, forse pensanti: con Le cose vere Antonello Matarazzo passa dal montaggio di fotogrammi fissi di The Fable (anteprimaannozero 2000) alla fissità addosso a un personaggio, ossessionato dal cinema/non cinema fino a morirne, che parla di e cammina con la sua malattia, e intorno a lui, irrimediabilmente fuori di lui, Avellino coi caffè, i parchi, le feste popolari […]

Adelina Preziosi  (SEGNOCINEMA – anno XXI N° 111, sett/ott 2001)


Cinema delle alternative

[…] In uno sguardo d’insieme, relativamente alle opere più spiccatamente di ricerca è emersa l’esigenza per un tipo di cinema che pur partendo dalla concretezza degli oggetti, dei luoghi, dei volti delle persone, cerchi però una sorta di trasfigurazione, che vada oltre la realtà dello sguardo, verso una destrutturazione percettiva del tempo e dello spazio. Tra i migliori in questo senso vanno menzionati: Le cose vere di Antonello Matarazzo […]

Loris Serafino  (www.anteprimaannozero.org – sett. 2001)


Matarazzo, un film sulle “Cose vere”

Un cortocircuito logico ed estetico deflagra dall’interno la materia narrativa e la ricompone liricamente in Le cose vere, il secondo cortometraggio di Antonello Matarazzo, ideato e prodotto da Ciac, la neonata “Cooperativa Irpina di Autonomia Cinematografica”, Matarazzo, artista avellinese con un background espositivo di tutto rispetto – si ricordino almeno le mostre i Meridionali e Freaks, sperimenta da oltre un anno, in linea con le più avanzate tendenze contemporanee, il passaggio dal linguaggio pittorico a quello filmico. Un passaggio graduale, si può senz’altro dire dopo la visione di questa seconda e riuscitissima prova che ha incontrato il favore critico di Enrico Ghezzi.

In The Fable, film d’esordio di Matarazzo, proiettato con successo ad Anteprimaannozero filmfestival, la rassegna curata dallo stesso Ghezzi al quale il video era piaciuto – ‘anzi molto’ come scrisse all’autore – il linguaggio pittorico era ancora dominante nei ritratti di gente comune che emergevano da un fondo scuro. Là il testo si riduceva ad una lunga didascalia onomastica, con il secco ed efficace andamento di un ufficio anagrafe andato in fiamme. Qui – in Le cose vere – il testo, pur marginale e scarnificato, è affidato alla frammentarietà di monologhi ed interviste che puntellano il fluire di immagini ai limiti di una paradossale, ariosa claustrofobia.

In una filologica ambientazione avellinese, con tanto di uggia d’apres midi di provincia, in un asse che da Piazza Libertà arriva a Viale Italia, per sconfinare, di rado, in dintorni in cui Piazza Kennedy sembra già lontana, si muovono visionari e strampalati pochi personaggi.

In apertura un’epigrafe-espediente narrativo che giustifica l’assenza di trama, recita più o meno così: doveva essere un giallo, ma la vittima a metà riprese, si è rifiutata di fare il film. Ecco, dunque la storia com’è, ma come non doveva essere. La negazione del film e la conseguente impossibilità del racconto, sono il viatico – strategico – per venti minuti di un viaggio placentare, nell’umida afasia di un luogo che è nostro, ma solo a patto della sua estraneità. Alcuni versi giovanili di Franco Arminio, co-soggettista e attore per Le cose vere, parlavano di un “pomeriggio amniotico” ed è probabilmente da lì che i liquidi genetici di questa non-storia derivano. Lo sguardo di Matarazzo sulle cose elimina le informazioni a colori, come il benemerito Final Cut di cui si è servito per una riscrittura estetica del materiale grezzo girato per mesi in città e provincia.

Trampolieri sfocati accennano passi di legno sbilenchi in una Piazza Libertà colta in una dimensione atemporale. E Gigio Borriello, il nonprotagonista, galleggiando in un’inquadratura forza nove, in assoluta assenza di colori, evoca con le parole quelli usati visionariamente da Pasolini. Come a significare: il colore è detto, più di questo qui non si può fare.

E dopo un boato che si trasforma in un terremoto visivo di immagini quotidiane, una voce continua a dire autisticamente: «C’è qualcosa nell’aria…». E dall’aria all’acqua, che scroscia sul vetro di un’auto in fuga, ritmicamente, sempre verso lo stesso paesaggio, curve di periferie irpine, campagne promesse, ma negate allo sguardo. E acqua, ancora, dal rubinetto, mentre lo stesso Matarazzo si mostra nel quotidiano e minimale gesto di lavarsi i denti. Dal bagno di casa, interno per eccellenza, la camera continua a muoversi in un esterno-città che si tramuta in un grande interno senza soluzione di continuità, con l’effetto di una camera barica per esistenze sottovuoto.

Altro interno: Arminio sul letto, al telefono, denuncia la sparizione del protagonista: «Gigio se n’è andato…». E qua e là Borriello verrà poi recuperato mentre parla di un misterioso matrimonio in Senegal, al quale è stato, e di cui cerca di raccontare i colori, vera ossessione del suo autismo cinematografico. Intanto come contrappunto, testimone muto ed alter ego del non protagonista, pensoso e oscuro, compare – e scompare – un altro personaggio, mirabilmente interpretato, con inconsapevole fissità, da un inedito Martino Aurigemma. I suoi tratti singolarmente simili a quelli del protagonista, si confondono e sconfinano progressivamente nell’altro, con un ritmo straniante di inquadrature che mirano a sovrapporre i personaggi. Terza inquietante presenza quella monologante di Sabino Genovese che racconta dei suoi anni in manicomio e della sua malattia mentale, sorprendendo poi, con definizioni lapidarie: «…questa città è un alibi, un sotterfugio… non li vedi? (rivolgendosi ai passanti, ndr) …camminano a quatto zampe».

Il titolo del film è in una frase di Livio Borriello, che compare confondendosi con le sue parole sul video del portatile: «di notte verso le tre, se ti sei svegliato si materializzano le cose vere…». Avellino, vista da questa camera parkinsoniana e corrosiva, smette di essere un luogo geografico e diventa tutti i luoghi in cui è impossibile stare bene come è altrettanto impossibile stare definitivamente male. Dominante nella colonna sonora famosissime arie della Tosca, che talvolta lasciano il posto a qualche pezzo di Bob Dylan e alle musiche originali del compositore irpino Pasquale Innarella.

Lieve ed intensa, angosciante quanto basta e sufficientemente lirica la visione di Le cose vere ti inghiotte come in un regresso della logica in cui, però, tutte le cose trovano un posto. Da questo set realissimo e senza colori esci con una sensazione di disagio: quella di sentirti in bianco e nero e ritrovarti, nonostante tutto, a colori.

Natascia Festa  (CORRIERE – 17/01/01)

Bellaria Anteprima punto e a capo.

[…] The Fable (U-matic, 9′, 2000) di Antonello Matarazzo, “cinema liquido su tele e foto” (nella definizione dell’autore) (ri)afferma la densità del tempo e, in maniera non automatica pur nascendo da una catalogazione, libera e ri-imprigiona i suoi soggetti fra le lettere che scorrono e le cornici fotografico-pittoriche poste all’interno delle inquadrature. Fonte di riferimento sono le foto d’archivio del centro di cultura “Victor Hugo” di Avellino, che mostrano persone di cento anni fa in abiti di festa, e il più recente ciclo di lavori pittorici di Matarazzo, ispirato a quelle fotografie.
Nomi, cognomi e soprannomi anonimi scorrono in apertura e chiusura come una lunga lapide tolta – ma per un tempo che scade, non per sempre – alla sua mortale immobilità. Nel mezzo, i volti che hanno qualcosa in più dell’antico e dell’essere legati solo ad un’altra epoca (cosi profondamente inscritti nella terra e nella materia) e le cornici che li contengono, altri luoghi solidi da smarginare per un attimo, da rendere liquidi con la dissolvenza che muove per farli fluire in un altro tempo, in altri formati in altre musiche. […]

Giuseppe Gariazzo  (CINEFORUM 397 – Anno 40 N° 7, Ago/Set 2000)


I figli di nessuno

[…] Di The Fable mi colpì la malinconia appunto, un po’ cattiva peraltro, ironica forse nei lunghissimi finti titoli di coda, peraltro infiniti e genealogici come nei kolossal tecnohollywoodiani, esatti nel sapere che in una semplice raccolta di fotografie culmina ogni volta e ad ogni sguardo tutta la storia del mondo. Sottolineo che si trattava di ‘video’, come già detto. E come per tutti i lavorgiochi di Matarazzo (ma ora dirò ‘antonello’). Non tanto per il senso tecnico e quindi magico che la differenza film(pellicola)/video ha ancora, e soprattutto anzi ora, in questa luce di crepuscolo in cui tutte le immagini digitalmente si (con)fondono, in direzione dell’immagine invisibile che ci attende, priva di sostanza e di forma, senza di ‘noi’ perché ‘noi’ ci troveremo a essere sostanza e forma di quell’immagine, ci riconosceremo (quell’)immagine. […]

enrico ghezzi  (dal catalogo “Antonello Matarazzo”, edizioni Studio Vigato, Alessandria 2003)


Video o dell’opera totale in Antonello Matarazzo

[…] Ed è proprio il tema della memoria su cui lavora Antonello Matarazzo nella sua prima opera video, opera che l’autore avellinese preferisce definire “cinema liquido su tele e foto” (stabilendo da subito la sua idea di contaminazione e di spazi visivi esplosi tra loro amalgamati). The Fable (2000) è un video di 9 minuti dove scorrono volti immobili e perduti nel tempo. La matrice di costruzione resta l’impianto della pittura e della fotografia, ma l’opzione video comincia a definirsi da subito. Realizzando un’opera video che gioca su temi forti quali: il tempo, l’anonimato, la morte. Ma soprattutto quello che risulta più intenso e bruciante resta il senso dell’antico come mai sepolta tragicità. Il tutto lavorando soprattutto verso l’intensità dei volti “volti che hanno qualcosa in più dell’antico e dell’essere legati solo ad un’altra epoca (cosi profondamente inscritti nella terra e nella materia) e le cornici che li contengono, altri luoghi solidi da smarginare per un attimo, da rendere liquidi con la dissolvenza che muove per farli fluire in un altro tempo, in altri formati in altre musiche”. […]

Alfonso Amendola  (dal catalogo “Steack&Steel”, International Printing Editore, Avellino 2005)

‘MOSTRI’ della miseria meridionale 

Ci sono due elementi dentro il caotico disorientante non sempre esaltante panorama dell’Arte Contemporanea più giovane che sembrano emergere più di altre nelle predilezioni della «nuova creatività»: il corpo e la fotografia.
Del corpo esibito, manipolato, alterato, talvolta oltraggiato e martoriato, interessa l’espressività somatizzata, la pelle concepita come materia artistica su cui apporre segni, testimonianze di volontà simboliche e comunicative che risalgono idealmente alle tradizioni di civiltà primordiali ma che sono anche sintomi tipid della sensibilità estetica metropolitana alle soglie del Duemila.

Chi non frequenta le Gallerie D’Arte Contemporanea si sarà ugualmente accorto di questo interesse per il corpo alterato ed «espressivizzato» nei riflessi paralleli delle mode giovanili, incrociando per strada le varie tribù «neo-punk» dei tatuati, dei «piercing people», (i cultori degli anelli inseriti direttamente nella carne), degli «hard hair stylers» (gli appassionati dei tagli di capelli più arditi e strambi).
Chi invece le Gallerie le frequenta, sa che questo interesse per il corpo è figlio dichiarato della Body Art degli anni Sessanta e Settanta praticata da «performer» come Jonas, Gina Pane, Meredith Monk, Acconci, Simone Forte e tanti altri.

L’attenzione rivolta dai giovani artisti all’immagine fotografica, evidentissima nelle rassegne di Kassel (Documenta) e di Venezia (Biennale), rivela invece un forte desiderio collettivo di stabilire un rapporto diretto con la realtà dopo decenni di «tirannia» avanguardistica in cui, al contrario, veniva esaltata narcisisticamente l’autonomia romantica dell’«arte per l’arte». Usare la fotografia non significa comunque dare per scontato che si ritorni al realismo fotografico; significa piuttosto porsi su un piano di confronto diretto con l’odierna civiltà delle immagini, con la sua tecnologia, con la sua realtà virtuale, riprodotta attraverso mezzi meccanici sempre più evoluti, che inizia a contare più della realtà vera e propria.

Nelle opere di AntonelIo Matarazzo riunite sotto il ciclo di Freaks ci sono corpi e riporti fotografici (pitture).
In inglese Freaks ha un significato che varia tra “mostri” ed “emarginati”, riferendosi ad uomini afflitti da gravi deformazioni fisiche. Gli esperti di cinema collegano immediatamente il termine al titolo di un famoso film degli anni Trenta, il più noto di Tod Browning, in cui appunto umanissimi “mostri” di un circo fanno da inquietante sfondo ad una vicenda di amore interessato tra una “normale” senza scrupoli e un nano. Nel linguaggio Underground degli anni Sessanta e Settanta, Freaks erano tutti coloro che praticavano una vita di radicale opposizione e isolamento nei confronti delle convenzioni borghesi; erano Freaks i tanti barboni erranti che pellegrinavano dall’India alla California, dall’Inghilterra all’Italia. I Freaks di Matarazzo sono decisamente, magari cinicamente, della specie evocata da Browning, i Meridionali invece sono “mostri” ordinari, non relegati nei ghetti dei circhi, ma estratti dalla memoria visiva di un archivio fotografico avellinese di fine Ottocento, forse dei primi del Novecento.

Matarazzo ha riportato manualmente le immagini con la meticolosità ossessiva di un Chuck Close; ha finito per accentuare drammaticamente la distanza con una generazione contadina, quella dei nostri nonni, che non è tanto di tipo culturale o sociale, quanto di tipo fisico. Noi non ci riconosciamo nella razza dei nostri avi e bisnonni, una razza che al nostro confronto (svezzati come siamo stati a furia di carne e di vitamine) ci sembra piccola, deforme, “mostruosa”. Noi ci riconosciamo nella razza degli Erroll Flynn, dei Marcello Mastroianni, e nei modelli fisici divulgati dall’imperante civiltà delle immagini.
E’ una constatazione, quella provocata da Matarazzo, che terrorizza: noi non riconosciamo i nostri progenitori, noi siamo senza radici. Una contraddizione lacerante, che spiega tante delle deficienze in cui si trova avvolta l’Italia di fine millennio.

Vittorio Sgarbi  (IL TEMPO – 23/03/98)


Realismo mediale

Nella storia dell’arte l’immagine indica quasi sempre la rappresentazione del sensibile di un’idea o di un concetto astratto. Questo tipo di immagine va a braccetto con una qualche forma di realismo, che corrisponde a una delle possibili forme di realtà. Il realismo a cui noi ci riferiamo è quello mediale, un realismo che appartiene a vario titolo alle metamorfosi più esilaranti e comunicazionali dell’immagine fittiva (immagine fictionale) e riproduttiva […] Questi artisti lavorano su una definizione di immagine che si basa su un trasferimento da un medium all’altro, un riversare che nel suo percorso condiziona le sorti morfologiche dell’immagine mimetizzata spingendola a una dimensione più mentale.

Ma cosa intendiamo per realismo? E, soprattutto, cosa s’intende oggi per realtà? Dopo la maturazione della spettacolarità mediatica, la società in cui viviamo si pone come una continua altalena di immagini in metamorfosi. In questo senso possiamo dire che la realtà è un morphing.
Gli artisti odierni non concretizzano più un’idea o una visione astratta in un’immagine, ma riproducono ciò che ritrovano altrove, nei media, nelle immagini dei rotocalchi, nelle fotografie storiche, in immagini fotografiche del quotidiano, in immagini riprese dal video, nei codici del fumetto, nel tatuaggio, nel cinema ecc. Si tratta di una realtà riciclata dall’universo mediologico, in altri termini: una realtà stornata dalla riproduzione della riproduzione della realtà. La circolarità di tali scambi, se prima aveva favorito una dimensione di coagulo tra culture alte e basse, oggi sposta questa miscela verso i propositi operativi di una nuova arte applicata […] Nei quadri di Matarazzo la memoria è scovata dagli archivi fotografici del passato, per giungere ad una metamorfosi delle mutazioni antropologiche…

Gabriele Perretta  (FLASH ART – N° 219, dic. 1999/gen. 2000) 


I Mostri di Matarazzo

[…] Antonello Matarazzo è partito da un lavoro del 1997 dove entrando in contatto con un vecchio archivio fotografico avellinese, aveva riprodotto alcune immagini delle figure più strane e particolari ivi conservate. La gente che comunemente compariva in questa sorta di “album” di memorie era costituita da persone del popolo, lavoratori, contadini dalle facce estremamente vissute. In alcuni casi si trattava di gente che si prestava alle più disparate interpretazioni, proprio per i loro volti che davano ad immaginare situazioni di vita particolarmente conflittuali. Tra l’altro il ricercatore originario che ha messo le mani su questo materiale di Calitri non è riuscito con precisione a risalire né all’anno di realizzazione di questa documentazione socio-antropologica né esattamente al periodo. […] Sembra quasi che Antonello Matarazzo rendendosi partecipe dell’esperienza che sta registrando voglia anticipare l’attenzione per l’espansione psicologica dell’immagine del monstrum. […]

Gabriele Perretta  (dal catalogo “Freaks”, edizioni Arte&Personae, Firenze 1998) 


Quei brutti del Sud

Disagio certamente, forse pietà, probabilmente malinconia, ispirano i personaggi che si affacciano dalle tele allineate nella galleria “Le Pleiadi” a Mola di Bari. Sembrano risalire dal fondo di cento anni di solitudine, bambini poveri agghindati per la prima comunione, sposi contadini, scolaresche in posa per la foto di classe. Immagini che sembrano ingrandimenti di vecchie fotografie in bianco e nero, anzi sbiadito grigio seppia. dagherrotipi quasi. Difatti la loro fonte è un archivio fotografico di fine Ottocento o primo Novecento, da Calitri in provincia di Avellino. Antonello Matarazzo, artista avellinese di aguzzi spiriti, lo ha scovato anni fa. Ne ha tratto ingrandimenti su tela con meticolosa pittura che simula l’effetto fotografico. Procedimento non nuovo: artisti iperrealisti come l’americano Chuck Close o il tedesco Richter lo hanno praticato da oltre vent’anni E tuttora molto sfruttato come scambio linguistico che si presta ad allucinazioni fra realtà e finzione, manualità e tecnologia.

Però Matarazzo (seguito con attenzione critica da Gabriele Perretta) lo riprende con suggestione diversa. Perché questi volti un po’ inebetiti e questi corpi sgraziati già parlano, sotto i panni ingenui della festa, di malnutrizione, di stenti. Il pittore li sottopone poi ad un ulteriore lavorio di deformazione. Non diventano propriamente “mostri”, no, ma trasmettono l’imbarazzo di disturbi del fisico e della mente. Sono Meridionali, suggerisce il titolo della mostra. E poiché anche l’autore è conterraneo dei soggetti fotografati, ecco il disagio. E’ la lettura critica di un Sud che non riconosce più i suoi progenitori, dunque “senza radici”? (ipotesi, leggo, lanciata da uno Sgarbi che comincia a sorprendermi). È il rifiuto della retorica della bellezza, rivelazione della dura verità che si cela sotto l’inganno cosmetico dell’arte?

Senza dubbio il lavoro di Matarazzo s’inscrive nell’onda lunga di quella “Estetica del brutto” (teorizzata per primo da Rosenkranz nel remoto 1853) che ha attraversato tutto il Novecento e fonda tuttora molta arte. Questa messa a nudo può assumere le cadenze dell’ironia, del grottesco, farsi comunque impietosa. È un po’ quello che l’avellinese ha fatto in un notevole ciclo del 1997 Freaks, (ispirato all’omonimo film di Browning del 1932, un classico dell’horror).
Ma in Meridionali, anche se la fonte è la stessa, la cadenza è diversa. Sotto l’apparenza di una impassibile catalogazione (manco fossero i tipi “criminali” di Lombroso) si tende il filo della complicità: ne è conferma il video The Fable. Le immagini dei quadri sfumano in dissolvenza sulle fotografie originali, rivelano il cambiamento; e la sequenza è aperta e chiusa dai nomi, cognomi e soprannomi dei soggetti, quasi attori di un film. Il film di una società che il tempo ha consumato, il film della sua metamorfosi nei fantasmi di oggi. Quasi un memorial alla Boltanski (I’artista francese che lavora su oggetti e figure del passato funebre). Ed ecco la pietà: perché alla fine, manipolando il deposito dei ricordi collettivi, I’artista parla di sé, proietta le sue inquietudini.

Pietro Marino  (GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO – 12/10/02)


L’umanità aliena di Matarazzo, ritratti dell’Irpinia color seppia

Un senso di inquietudine ci coglie entrando nella Galleria Le Pleiadi di Mola, dove è in corso la personale di Antonello Matarazzo, a cura di Gabriele Perretta. Strane “presenze” affollano le pareti, invadono anche gli angoli, sembrano accerchiarci: coppie o ragazzi dall’aspetto goffo, una signora vestita a festa, gruppi di bambini in un brefotrofio, accuditi da suore (freschi di “Magdalene” certo non ci rassicurano). Dipinte con l’aerografo sui toni del verdino e seppia che danno l’impronta dei viraggi d’epoca, si offrono nelle loro pose rigide e impacciate, provocando disagio. Ad accentuarne l’ambiguità concorrono i rapporti dimensionali: le figure infatti sono quasi a scala umana con un punto di visione appena un po’ rialzato. Non possiamo così sottrarci dall’incrociare i loro sguardi fissi dal rapportarci ai volti bloccati di questi personaggi del “Sud” di estrazione popolare, al contempo familiari e sottilmente estranei. Eppure fanno parte della nostra recente memoria antropologica. Matarazzo, nato ad Avellino nel ’62, li ha recuperati da un archivio fotografico della metà del Novecento a Calitri, in Irpinia. Li ha poi duplicati con fedeltà pittorica, cercando di far emergere i soggetti (in mostra un video fa scorrere le due versioni a confronto). Ma la decontestualizzazione degli sfondi, il leggero ingrandimento delle teste, lo schiacciamento prospettico, producono un’impressione di deformità diffusa. Ne viene fuori il ritratto di un’umanità marginale e aliena, che introduce un handicap nell’ideologia della normalità e dell’efficienza produttivistica corrente.

Antonella Marino  (LA REPUBBLICA – 08/10/02)


La distanza tra noi e i nostri nonni: l’antropologia gelida di Antonello Matarazzo

Si avverte una sorta di estraneità antropologica nello scorrere di volti e posture che Antonello Matarazzo allestisce nel suo archivio di uomini e donne, visibile alla galleria Le Pleiadi a Mola di Bari. C’è innanzitutto uno scarto temporale nei confronti di questa umanità che si metteva in posa nei primi anni del secolo scorso e le immagini che oggi ci rappresentano. Matarazzo le fotografie le ha trovate in un vecchio archivio di Calitri, in provincia di Avellino (suo paese di origine), e ne ha riprodotto fedelmente le forme operando un leggero scarto rispetto all’originale: un accorciamento voluto delle gambe in modo da suggerire un’impercettibile deformità, per accentuare ancora più marcatamente la distanza tra un’iconografia che ci appare aliena dalle nostre forme di rappresentazione. Si compone così una campionatura di facce e tipi meridionali (la mostra si chiama appunto “Sud”), contadini, orfanelli, giovani spose, lavoratori con l’abito della domenica irrigiditi nelle pose seriali da studio fotografico. Matarazzo le trasferisce sulla tela usando l’aerografo, una tecnica che gli consente di smarcarsi da ogni contatto gestuale con il supporto e quindi di agevolare, come egli sostiene, quel bisogno dell’immagine di guadagnare una propria soggettività e quindi una vita autonoma. Tecnicamente il suo è un lavoro che si inserisce in una sorta di zona d’ombra tra pittura e fotografia in cui la prima guadagna in nitidezza e realismo e la seconda perde in referenzialità. Sul piano dei contenuti invece una curiosità tutta lombrosiana nella catalogazione di archetipi somatici, cui fa risalire presunte radici e discendenze, si unisce ad una tra le più celebrate urgenze dell’artista, quella di creare un doppio della realtà. In questo caso, con buona pace di Platone, siamo di fronte ad un doppio del doppio.

In galleria si può vedere anche il video The Fable, una sorta di cassa di risonanza e di amplificazione dei temi sviluppati nei lavori in esposizione. Matarazzo, presentato da Gabriele Perretta, ha realizzato anche cortometraggi, ha lavorato per il cinema e recentemente ha realizzato il film Astrolìte, con Enrico Ghezzi attore protagonista.

Marilena Di Tursi  (CORRIERE DELLA SERA – 13/10/02)


Aria di famiglia: fotodeformazioni pittoriche

Ancora per una settimana si può visitare, e ne vale la pena, l’intensa mostra di Antonello Matarazzo a Mola di Bari. Mosè De Carolis, appassionato animatore de “Le Pleiadi”, ha ricoperto i muri della sua galleria con i grandi dipinti, veramente monumentali, che Matarazzo realizza con l’aerografo a partire da originali fotografici d’epoca. Le foto provengono da un archivio di Calitri e sono di proprietà del centro di cultura Victor Hugo di Avellino, dove Matarazzo è nato (nel ’62 ) ed opera. Ma potrebbero appartenere ad un qualsiasi altro contesto meridionale della stessa epoca: rappresentano uomini, donne e bambini messisi in posa per una foto ricordo. Con gli abiti migliori o in divisa per una occasione, allora davvero speciale, che immortalava le fattezze individuali. Riprendendo le fotografie con gli strumenti della pittura, Matarazzo allinea il proprio agire artistico a quello di tanti artisti contemporanei (da Gerhard Richter a Chuk Close, ai tanti iperrealisti operanti negli ultimi trent’anni, fino al nostro Giuseppe Verga le cui opere a “Le Pleiadi” sono proprio di casa). Anche il voler riprendere foto di persone da tempo scomparse rimanda ad altri artisti ben noti (Boltanski), ma il suo modo d’agire è originale ed ha suscitato diverse ipotesi critiche: segno evidente di feconde ambiguità operative che producono polisemia.

Se Vittorio Sgarbi e Giuseppe Gariazzo sono attratti dai significati antropologici dell’operazione (per Sgarbi in particolare le opere ci spiazzano perché tutti noi vogliamo riconoscerci nei bei volti dei divi del cinema e non nei brutti ceffi di questi nostri sicuri progenitori), l’operazione per Pietro Marino si inscrive nell’onda dell’estetica del brutto, tipica del secolo scorso e di tanta arte contemporanea. Suggestioni acute e interessanti, ma personalmente credo che l’interesse prevalente di Matarazzo vada rintracciato – come indica Gabriele Perretta – nel gusto per la deformazione e per lo studio delle peculiarità del segno pittorico in confronto ravvicinato con la referenzialità fotografica.

Soprattutto prova evidente di questa ricerca è il bel video che accompagna la mostra. Matarazzo è, infatti, anche un cineasta e nel suo video sfuma in dissolvenze gli originali fotografici sulle corrispondenti opere dipinte: il sottile brivido visivo che suscita il dissolversi di un’immagine e l’affermarsi di quella che la segue, ci dà il senso vero del suo operare. Nella trascrizione pittorica si insinuano, infatti, scarti formali che alterano quasi impercettibilmente proporzioni anatomiche, particolari significativi del vestiario, espressioni facciali. L’operazione è resa più significativa dall’uso di grandi formati, che travisano volutamente la densità connotativa delle piccole foto pur magnificando i protagonisti e le loro pose. La serietà dell’operazione di Matarazzo è sottolineata dalla cura “scientifica” con la quale si elencano nel video i nomi, i cognomi e i soprannomi delle persone ritratte e dalla precisione con la quale si è voluta accompagnare ogni immagine con le musiche che meglio ne illustrano i contesti ritrattistici: la festa patronale, un matrimonio americano per procura, la guerra.

Un lavoro di grande interesse che rilancia anche nella nostra regione il dibattito sul rapporto tra arte e fotografia al centro oggi di una ricerca internazionale confermata dalla grande mostra allestita dal Museo cantonale di Lugano che sarà visibile fino al 12 gennaio prossimo, e che ha per titolo “L’immagine ritrovata – Pittura e fotografia dagli anni Ottanta ad oggi”.

Vincenzo Velati  (L’UNITA’ – 23/10/02) 


È
 la necessità di una simil-autenticità dell’immagine a spingere la ricerca di Antonello Matarazzo (presentato alla Galleria Pleiadi di Mola nella personale “Sud”)? Ricerca non solo di radici umane, storiche e sociali, ma soprattuno di radici estetiche, o di radici etiche come sostiene il curatore Gabriele Perretta: “Il lavoro artistico contemporaneo ha la caratteristica di perseguire una novità quando ri-situa, ricolloca, ri-analizza”. Qual è – oggi – il punto di vista “situato” della pittura? Qual è il bisogno che innesca – oggi – il processo generativo della raffigurazione? Adesso I’opera si svolge passando da immagine ad immagine senza esaurirsi – dice Gabriele – l’individuazione del volto dato dalla fotografia serve a dare una possibilità in più alla pittura, la pittura che si muove sulla soglia della sua stessa impossibilità, inautenticità. “Siamo verosimilmente all’artificio”, che basta per testimoniare I’invadenza mediologica dell’immagine La pittura diventa così un’occasione, un pretesto… E cosa fa Matarazzo in questa “occasione” con questo “pre-testo”? Gioca. Con il tempo. Il tempo, divenuto quell’esperienza discontinua che Bergson ci ha spiegato e che Deleuze ci ha illustrato, riesce ancora a tenere insieme le dimensioni del futuro, del passato e del presente, a legarle tra loro attraverso l’ossessiva-continuativa presenza della memoria? Oppure no? La sfida dell’artista avellinese è proprio questa: ri-costruire e ri-raffigurare (nello sguardo fisso e vuoto di un campionario umano del sud, povero e rozzo) alcune categorie identitarie che ci/si concedono la riconoscibilità (di noi agli altri, degli altri a noi) attraverso l’immagine, pur dentro e oltre le categorie estetche-etiche-antropologiche-politiche […]

Maria Vinella  (JULIET – anno XX N° 115, dic/gen 2003)


Testimoni per caso 

Il corpo umano rispetto alla cultura in genere, ma in particolare lo vediamo nell’arte, è una riserva infinita di segni, entro i quali i vari “saperi” scelgono quelli più consoni alla loro filosofia. Nasce così quella metamorfosi del corpo che, di volta in volta, è carne da sanare per la medicina, forza lavoro per l’economia, individuo da redimere per la religione, inconscio da liberare per la psicologia, potenziale di violenza da contenere per la legge. Il corpo è per l’artista, ma anche per l’uomo comune, una superficie di “scrittura” in cui si possono leggere in filigrana le innumerevoli tracce, lievi o mostruose, che i vari saperi vi hanno impresso. Tocca a noi visualizzare il nostro corpo come loro ce lo hanno disegnato. L’artefice, quasi sempre, attraverso il pensiero del corpo, cerca di mostrarci il suo “viaggio” in paradiso, o all’inferno, ovvero il raggiungimento di un “altro stato”, che può essere compreso da vari segmenti che stanno tra l’estasi dell’amore e la catarsi del dolore.
Noi sappiamo che umano non è il mondo nelle sue dimensioni cosmiche, ma quell’ambito più circoscritto dove stanno le cose che ci circondano e che il corpo può raggiungere e utilizzare. Questo mondo non supera le dimensioni di un ambiente.

Antonello Matarazzo presenta in questa mostra alessandrina, allo “Studio Vigato”, un gruppo di tele, eseguite con la tecnica dell’areografo (abolisce quindi la gestualità), che nascono dal grembo di un archivio fotografico della prima metà del Novecento, proveniente da Calitri in Irpinia e scoperto dall’autore nella sua città ad Avellino. Queste tele – cromaticamente virate su un bianco/nero sfocato, che sbiadisce nel viola – vivono di piccole “differenze” rispetto al lavoro degli anonimi fotografi del passato. Matarazzo accentua la prospettiva cercando una visione dall’alto, lavora mettendo l’accento sulla muscolatura facciale, che contrae o stira la pelle dei “ritrattati”.

Ma che cosa troviamo sulla superficie di questi quadri? Innanzitutto personaggi che attraverso i loro volti di gente del sud, quindi provenienti da un’enclave di arretratezza socio culturale, di solitudine, di abbandono, di cattiva alimentazione, sono “persone” che evidentemente si adattano alla mediocrità del vivere quotidiano – nel cui orizzonte ci può essere sempre un incesto – ma ciò nonostante cercano di tenere un posizione attiva nei confronti della vita, se pure con atteggiamenti ingenui e teneramente perdenti. E’ cosi che ci troviamo “faccia a faccia” a spose incellofanate di bianco come uova di Pasqua, bambini e bambine (sempre con il fiocco in testa per “bellezza”) ben lavati e stirati, ma vestiti come piccoli uomini e donne mai cresciuti, oppure acconciati “alla marinara”, come forse facevano i nobili signorotti locali, o magari stretti nella triste divisa di un collegio, oppure fasciati in un grembuilino nero in squadra attorno a un maestro “buono”, o ancora con delle suore truci come “capò”, troviamo donne col vestito della festa con la “volpe” al collo e una borsetta rigida, o pendula, in mano, giovanotti col fazzoletto nel taschino e le scarpe a pezzi, la formazione di calcio locale con il numero sui pantaloncini, le calze corte, una cannottiera della salute, i capelli ricci e bombati, le gambe inutilmente pelose. Tutti, o quasi, rispondono allo stereotipo che il “brutto” è anche cattivo o stupido.

In questo gruppo di opere ogni individuo sembra essere fiero e compiaciuto del proprio abbigliamento da foto ricordo. Ciò si spiega osservando che anche se non siamo più capaci di trasformazioni profonde, sentiamo, in molti casi, il bisogno insopprimibile di cambiare. Ma come possiamo vivere l’illusione del mutamento continuo garantendoci la stabilità dell’io e del nostro mondo, senza i quali saremmo disperati? L’abbigliamento risponde a queste opposte esigenze e, a un livello accessibile a tutti, traccia sul registro degli “abiti” e delle “abitudini”, quella variazione dell’identità e del mondo – che Matarazzo asseconda con i suoi piccoli aggiustamenti – che consente, senza mutare intimamente, di accedere sovente a delle novità. Le vesti, infatti, significano il mondo, la sua storia, la sua geografia, la sua natura, la sua arte, ma il valore protettivo delle vesti cede, in questo caso, il posto a quello simbolico-distintivo. Per quanto artificiali i segni vestimentari sono uno dei tratti biologici della specie umana, e con profondi legami col mondo zoologico.

Si assiste così alla trasformazione dell’ordine degli abiti in un sistema di segni, che sanciscono la gerarchia sociale, che il corpo nudo non potrebbe mai esprimere.
Ma ciò che nella ricerca di Matarazzo salta subito agli occhi è la supremazia del volto su ogni cosa. Molti filosofi hanno scritto che il mondo è visibile in un volto, e il volto apre alla conoscenza del mondo, in fondo esso è come un paravento sottile, trasparente nei due sensi: verso lo spirito e verso la materia. Matarazzo, consapevole che il volto è come una finestra, attraverso la quale si può guardare dentro, lo dipinge come un gioco di luci e ombre, che oltre a renderlo inespressivo, o immobile, in apparenza, di fatto riesce a trasmetterci l’esito di un processo di metamorfosi che accanto ad esso, e in esso, si muovono, si scontrano e vivono. Nel volto si deposita il tempo, immagini e segni di sentimenti scomparsi, ma che possono mandare un’ultima scintilla prima di allontanrsi per sempre. Sui volti, talora, avvertiamo la presenza di una maschera, intesa come doppio del volto, essa maschera i disastri di un’epoca che, in nome del progresso, rinuncia deliberatamente al senso del tragico e, di conseguenza, all’unità di esistenza e vissuto.

Non c’è dubbio che il senso vero di questi lavori è da cogliersi negli sguardi, nel modo con cui si guarda, nel “vedere” e poi essere “visto”. L’artista attraverso questo pensiero tesse tra lui e il “soggetto” (che torna ad essere centrale) un’amplissima ragnatela concettuale, leggera, e al tempo stesso resistente, che oscilla tra la realtà della fotografia e la realtà della pittura. In altre parole colui che ci guarda dalla tela che cosa sta veramente guardando? E in che misura è guardato prima dall’artista e poi da noi? Ciò che vede è anche ciò che vive? E ciò che vive e vede è anche ciò che conosce?

Lasciamo stare, per ora, i motivi che si potrebbero estrarre da queste riflessioni. Le fotografie da cui nascono queste opere pongono il problema di una forma che non è più una forma nota, ma qualcosa di indefinito, di misteriosamente indecidibile, anche se impone con forza il problema dell’identità. Lacan in proposito ha scritto: “…voglio dire, e Maurice Merleau-Ponty ce lo conferma, che noi siamo esseri guardati, nello spettacolo del mondo. Ciò che ci fa coscienza, ci instituisce contemporaneamente come speculum mundi “.

Nel caso di Matarazzo l’occhio che guarda, e quello in particolare della coscienza, non esercita la propria capacità di vedere su oggetti neutri, bensì su oggetti gia guardati da un occhio meccanico. L’artista si dà il compito, non facile, di intensificare il mistero che traluce nella forma fotografica., e poi quello di rendere più laceranti, senza fare dell’Espressionismo, le forme e le immagini che, forse per caso, manifestano e testimoniano le lacerazioni tuttora imperanti nel mondo (basta in questo caso pensare alle immagini dei disperati del Medio Oriente), e restituirle alla loro verità di frammento. Non c’è dubbio che ogni volta che Matarazzo dà forma alla realtà anzicchè pietrificarla in un’idea, ogni volta che unisce reale e ideale, e aggiunge in più il pathos soggettivo che muove emotiva la sua condotta intellettuale e pratica, si pone necessariamente dentro una sana contraddizione.

Come ci mostra anche il video The Fable, che accompagna le opere di questa personale, l’assenza di luogo che la fotografia e l’opera ostendono è ciò che permette di afferrare lo spazio in tutte le sue estensioni, di coglierne la specifica realtà. Tutto diventa così “racconto”, una complessa rifigurazione della esperienza pittorica e filmica dell’artista, in cui vengono spinte in primo piano metafore cariche di senso, mentre le immagini si intrecciano, si fondono, ritornano, riportando i tratti di un’esperienza temporale “diversa” da quella articolata, ma “chiusa”, del passato. Nel carattere plurale di questa narrazione si tiene insieme la dimensione dell’attesa, della tradizione, e della forza pregnante del presente. Il presente in questa prospettiva diventa una “forma” di transizione che si muove tra divenire e memoria. Ma è lo sguardo che rende visibili differenza e complessità, senza mai distruggerle. L’arte riduce l’infinito a “immagine finita”, in cui il soggetto sta dentro i corpi, come un attore in “scena”. Forse potremmo concludere che la realtà non è un piano di consistenza: è l’estremo, è un confine.

Marisa Vescovo  (dal catalogo “Antonello Matarazzo”, edizioni Studio Vigato, Alessandria 2003)

‘MOSTRI’ della miseria meridionale 

Ci sono due elementi dentro il caotico disorientante non sempre esaltante panorama dell’Arte Contemporanea più giovane che sembrano emergere più di altre nelle predilezioni della «nuova creatività»: il corpo e la fatografia.

Del corpo esibito, manipolato, alterato, talvolta oltraggiato e martoriato, interessa l’espressività somatizzata, la pelle concepita come materia artistica su cui apporre segni, testimonianze di volontà simboliche e comunicative che risalgono idealmente alle tradizioni di civiltà primordiali ma che sono anche sintomi tipid della sensibilità estetica metropolitana alle soglie del Duemila.

Chi non frequenta le Gallerie D’Arte Contemporanea si sarà ugualmente accorto di questo interesse per il corpo alterato ed «espressivizzato» nei riflessi paralleli delle mode giovanili, incrociando per strada le varie tribù «neo-punk» dei tatuati, dei «piercing people», (i cultori degli anelli inseriti direttamente nella carne), degli «hard hair stylers» (gli appassionati dei tagli di capelli più arditi e strambi). Chi invece le Gallerie le frequenta, sa che questo interesse per il corpo è figlio dichiarato della Body Art degli anni Sessanta e Settanta praticata da «performer» come Jonas, Gina Pane, Meredith Monk, Acconci, Simone Forte e tanti altri.

L’attenzione rivolta dai giovani artisti all’immagine fotografica, evidentissima nelle rassegne di Kassel (Documenta) e di Venezia (Biennale), rivela invece un forte desiderio collettivo di stabilire un rapporto diretto con la realtà dopo decenni di «tirannia» avanguardistica in cui, al contrario, veniva esaltata narcisisticamente l’autonomia romantica dell’«arte per l’arte». Usare la fotografia non significa comunque dare per scontato che si ritorni al realismo fatografico; significa piuttosto porsi su un piano di confronto diretto con l’odierna civiltà delle immagini, con la sua tecnologia, con la sua realtà virtuale, riprodotta attraverso mezzi meccanici sempre più evoluti, che inizia a contare più della realtà vera e propria.

Nelle opere di AntonelIo Matarazzo riunite sotto il ciclo di Freaks ci sono corpi e riporti fotografici (pitture).
In inglese Freaks ha un significato che varia tra “mostri” ed “emarginati”, riferendosi ad uomini afflitti da gravi deformazioni fisiche. Gli esperti di cinema collegano immediatamente il termine al titolo di un famoso film degli anni Trenta, il più noto di Tod Browning, in cui appunto umanissimi “mostri” di un circo fanno da inquietante sfondo ad una vicenda di amore interessato tra una “normale” senza scrupoli e un nano. Nel linguaggio Underground degli anni Sessanta e Settanta, Freaks erano tutti coloro che praticavano una vita di radicale opposizione e isolamento nei confronti delle convenzioni borghesi; erano Freaks i tanti barboni erranti che pellegrinavano dall’India alla California, dall’Inghilterra all’Italia. I Freaks di Matarazzo sono decisamente, magari cinicamente, della specie evocata da Browning  […]

Vittorio Sgarbi  ( IL TEMPO – 23/03/98)


I Mostri di Matarazzo

Un nuovo ciclo di opere pittoriche di Antonello Matarazzo è sempre un curioso contributo per i seguaci dell’arte italiana contemporanea più giovane. Il suo esilio sperimentale lo priva a volte di giusti riconoscimenti che spesso si ottengono blandendo il potere e seguendo le opinioni correnti e alla moda. Invece, nei due anni che separano la mia precedente riflessione sul suo lavoro, Matarazzo si è impegnato per dare una svolta definitiva all’immagine ed al segno della sua pittura. Diciamo che nell’attuale bailamme, causato dallo sviluppo della “pittura mediale” e da una sua contorta e strumentale continuazione, è molto difficile trovare un pittore che disdegni i luoghi comuni, la retorica e soprattutto i rituali che sfiorano la banalità. Il lavoro di Matarazzo parte da una dissacrazione dei pretesi nobili sentimenti dell’esercizio artigianale della cromia e i falsi valori che servono a coprire gli egoismi e i privilegi di un’immagine ammaliante e fascinosa. Proprio nell’attuale esperimento, denominato Freaks, l’artista campano denuncia la disonestà o la viltà di quelli che, preposti a controllare e a sorvegliare, colludono o fingono di non vedere per quieto vivere.

Forse oggi neanche il gesto del guardare o dell’osservare ad occhio nudo, dicendo le cose come stanno, può bastare. Diciamo che il pittore contemporaneo può credere di più che i mali dell’immagine del mondo vengano da lontano e formino una zavorra tanto pesante e ingombrante da impedirne la rappresentazione, senza tirar fuori le facce più aberranti e mostruose che si annidano e si nascondono sotto la coltre di una superficie pianificata e curata da un’ombra plasmatrice.
Da un sondaggio sulle immagini di Matarazzo si ricavano alcuni caratteri usati dall’artista: ricerca della bruttezza, predisposizione della tela alla schermaticità, segno curato e tecnica di riproduzione dell’immagine che sfiora il vecchio dagherrotipo (ricorda le sfumature del viraggio), ingrandimento dell’immagine da documenti originali fino al dettaglio della scrittura o del giornale da dove è ricavato, dialettica tra le forme di una certa immagine: attuale nella riproposizione e archeologica nella memoria.

Antonello Matarazzo è partito da un lavoro del 1997 dove entrando in contatto con un vecchio archivio fotografico avellinese, aveva riprodotto alcune immagini delle strane figure ivi conservate. La gente che comunemente compariva in questa sorta di “album” di memorie era costituita da persone del popolo, lavoratori, contadini dalle facce estremamente vissute. In alcuni casi si trattava di gente che si prestava alle più disparate interpretazioni, proprio per i loro volti che davano ad immaginare situazioni di vita particolarmente conflittuali. Alcuni di questi rilievi fotografici sanno anche di tecnica da fotografia indiziaria, forse è per questo motivo che fanno apparire i personaggi ritratti in maniera un po’ paradossale, come se fossero stati tanti “poco raccomandabili”.

Altri esempi di ricerche simili si possono trovare nei lavori di archivio di Aldo Ghilardi (anzi spostando un po’ il senso ci si può riferire ad un libro in particolare “Wanted!”, Milano, Mazzotta, 1978). Anche alcune foto di Carla Cerati scattate prima della riforma manicomiale ci riportano alla mente immagini di mostruosità umane. Oggetto di numerosi equivoci e incomprensioni fu invece il gesto di Cesare Lombroso che scattò e fece scattare delle immagini per utilizzarle in alcune ricerche di criminologia. Alphonse Bertillon fece uso della fotografia per sviluppare l’identificazionismo e Paolo Mantegazza ha studiato su di essa la fisiologia del piacere e del dolore. Nell’ambito della fotografia sociale Lewis H. Hine ha spinto sul versante delle condizioni di vita diseredate e tanti altri fotografi dopo di lui hanno tentato di scovare l’aspetto orrorifico di alcune realtà sociali ed umane, non ultimo per qualità ed impegno è certamente il gesto dell’americano Joel Peter Witkin. Questi esempi dimostrano che un certo percorso di ricerca culturale ha sviluppato durante il nostro secolo un particolare interesse per una fotografia che documentasse il lato oscuro e più angosciante della vita umana. Di non secondaria importanza in questa dimensione si colloca anche il cinema che da Tod Browning allo slatterpunk non ha taciuto una certa attrazione per varie forme di orrore. Antonello Matarazzo, invece, utilizzando alcune delle immagini dell’archivio avellinese le ha riprodotte a matita su carta e poi ha aggiunto delle cornici volontariamente kitsch e una scultura con una lente che, disposta davanti al quadro, ne deforma il contenuto. Nel catalogo queste immagini erano accompagnate dalle dichiarazioni di Pietro Pacciani dopo la condanna come presunto “mostro di Firenze”. Una in particolare accompagnava l’immagine di una donna di Calitri che viene osservata dall’ombra stessa dell’artista sullo sfondo di una finestra di luce con delle cancellate che ricordano quelle di un carcere, di un luogo di segregazione.

Sembra quasi che Antonello Matarazzo rendendosi partecipe dell’esperienza che sta registrando voglia anticipare l’attenzione per l’espansione psicologica dell’immagine del monstrum. E come infatti la mostra di Firenze si chiama Freaks richiamando il titolo del film di Tod Browning del 1932. A parte il saggio di Leslie Fiedler sui Freaks, il film di Browning con Olga Baclavova, Wallace Ford e Roscoe Ates diventa un classico dell’orrore, nonostante fosse stato ritirato quasi subito dopo la prima per volere del boss della MGM che lo giudicò inadatto per gli spettatori delicati di stomaco di allora. Il regista americano usò veri nani e veri mostri fra cui due gemelle siamesi. La horrorstory “Freaks” è stata considerata il capolavoro di Browning. Protagonista è la bella di un circo, un’acrobata, che acconsente a sposare un nano. I nani sin dall’antica simbologia sono degli esseri che accompagnano le fate, i nani sono legati alle grotte, alle caverne nei fianchi delle montagne, essi spesso personificavano le manifestazioni incontrollate dell’inconscio, perché si permettevano dei gesti inconsueti presso i re. Molto dopo essi sono stati assimilati ai demoni e si sono trasformati nel simbolo del fallimento e dell’orrore. Nel Rinascimento la compagnia dei nani divenne una moda. Nel film di Browning il nano ha la funzione di oggetto sacrificale e quindi viene avvelenato dalla donna che tenta di ammazzarlo per potersi godere l’eredità con l’uomo forzuto della compagnia (il cubano Ercole) . Gli altri freaks, nani, se ne accorgono e le rovinano la festa, riuscendo a storpiarla affinché anch’essa diventi come loro.

Antonello Matarazzo con la tecnica indicata riporta su una tela dal colore della carta ingiallita alcune immagini del film: Pete Robinson, conosciuto anche come l’uomo scheletro; Violet e Daisy Hilton, le cosiddette gemelle unite che a noi sono arrivate con una bellissima ricostruzione fotografica dell’epoca. Inoltre Matarazzo, spinto dall’interesse per una documentazione sui freaks, riporta poi nel suo lavoro altri personaggi che non fanno parte del film di Browning ma, grazie all’excursus fatto da Fiedler, possono rivelarsi come una sottile continuazione e possono anche essere la variante più radicale del lavoro cominciato con i personaggi di Calitri. Qui dunque incontriamo Francisco (Frank) Lentini, l’uomo con tre gambe; i Klinefelters, affetti da ginecomastia o morbo di Klinefelter; Grace Gilbert, la donna barbuta; Millie-Christine, le gemelle unite africane; Robert Wadlow, l’uomo più alto del mondo; il generale Tom Thumb e Lavinia Warren, due piccoli esseri umani, tra i più piccoli che siano mai arrivati alla maturità; i fratelli Tocci, due gemelli dall’aspetto un po’ wildeiano, dandy attaccati per l’eternità. Matarazzo, con questo salto definitivo nell’ambito di una ricerca così audace, si colloca singolarmente tra un archeologo ed uno scienziato analitico del brutto e non nel senso del cattivo gusto. Forse qui potremmo dare l’accezione che Foucaolt dà di archeologia (spostandone il senso in maniera metaforica). Non si tratta di una parola che vuole indicare qualcosa che è fuori del tempo e ormai cristallizzato nel mutismo del museo e del passato, ma piuttosto di far coincidere delle immagini di tempi diversi come dei discorsi. Senza nessuna presunzione critica, avendo preso a pretesto dal saggio sui Freaks del critico americano, Matarazzo è come se ne estendesse il senso attraverso la pittura. Sin dai suoi primi lavori Matarazzo ha sempre subito un’attrazione per oggetti animati ed inanimati che rappresentavano una particolare propensione al deformato e là dove essi direttamente non lo erano l’artista si è fatto avanti con il suo segno e con i suoi oggetti per spingere la deformazione, l’effetto speculare, il processo anamorfico.

Con i Freaks questa tendenza viene dichiarata anche come analisi delle storie, come attenzione alle alterazioni umane e biologiche. Infatti Freaks originariamente significa mostri e questa stessa parola dal latino non significa niente di orrendo ma semplicemente: prodigio, fenomeno ovvero addirittura “qualcosa che mostra la volontà degli dei”. I mostri utilizzati da Browning sono il collegamento fra l’immaginario antico di queste esistenze emarginate dalla società e la ricerca di qualcosa di inibito, un timore nascosto. Nel linguaggio pantagruelico dei giovani moderni e contemporanei freaks ha significato anche altre cose. I freaks erano quei giovani che si identificavano con una forma anomala di socius che di propria volontà rifiutava l’ordine della società costituita. C’è un mirabile disco del recentemente scomparso Frank Zappa che si chiamava per l’appunto Freak Out, come pure sull’onda della cultura di San Francisco e del movimento hippies vi erano le favolose storie a fumetti dei Freak Brothers (della serie di Gilbert Shelton). Ma nel caso di Matarazzo i freaks assumono una visione un po’ più astratta e più vicina a Browning. Essi rappresentano le regioni sotterranee, le cavità, gli antri oscuri che son stipati dentro al nostro inconscio e lo sono ancora di più perché oggi con l’aiuto quasi torrenziale dell’esplosione mass-mediologica la loro immagine è lo specchio schermatico della nostra relazione conflittuale con il vivere quotidiano odierno. I Freaks ci dicono che bisogna vincere la fisionomia draghesca che è dentro alle loro deformazioni fisiche, il loro volto spesso è una pianta spinosa, dentro di loro ci sembra che si disserbi ogni mostro, compresi noi stessi, quel Noi con cui dovremmo imparare a vivere, per scoprire una parte nascosta del Sé.

Gabriele Perretta  (dal catalogo “Freaks”, edizioni Arte&Personae, Firenze 1998)

NOTE:
1. Per quanto riguarda i riferimenti a Witkin ed altri artisti si veda il mio: Pour Artaud, Neuralità e delirio nell’arcipelago dell’introspezione ( Edizioni dell’Ortica, Bologna, 1997 )
2. Si veda il catalogo “Antonello Matarazzo” con un mio testo ( Edizioni d’Arte Parente, Benevento, 1996 )
3. Leslie Fiedler è nato nel 1917 in America ed è l’autore di racconti e romanzi come Nude croquet (1969). Ha sperimentato una sorprendente e singolare critica letteraria che miscela motivi sociologici. antropologici e psicoanalitici. Fin qui è conosciuto per Love and death in the american novel (l960). Waiting for the end (1964), The return of the vanishing arnerican (1968). Nel 1978 scrive Freaks, ricostruendo l’incredibile storia dei mostri e dei devianti antichissimi e contemporanei, nel quale si potrebbe far riferimento alle riflessioni di S. Freud sul perturbante e sull’io nel suo viaggio fra gli incubi
4. Sulla questione del brutto e il sociale artistico sta per uscire un mio studio. Esso terrà conto, inoltre, di tutta la questione dell’estetica del brutto da come si è sviluppata in filosofia a partire dai post-hegeliani. Su questa tematica nell’arco di un lungo periodo storico molti sono i contributi eminenti. per citarne alcuni:
D. Diderot, C. Le Brun, M. Foucault, C. Lecouteux, M. T. Jones, G. Lascault, J. Céard, M. Bachtin, K. W. F. Solger, E. Bloch, V. Feldman, M. Dessoir. Per quanto riguarda riferinienti più specifici si veda del biograto di Hegel, K. Rosenkranz, il famoso Estetica del Brutto (Aesthetic des Hassliechen, 1853, rist. in facsimile, Stoccarda – Bad Connstatt, 1968) e di V. Hugo Sul grottesco (trad. it. di M. Mazzocut-Mis, intr. di E. Frarizini, Guerini, Milano, 1990) e di Maddalena Mazzocut-Mis

Il filo lieve della memoria   

[…] Gli artisti invitati a questo confronto sull’arte del futuro si riappropriano della loro memoria personale, accedendo alle fonti di un recente passato, mediante l’emozione. Interrogandosi sulle proprie radici culturali, traslando l’immagine degli avi, o esaminando la memoria biologica, cosmica o elettronica, essi ridisegnano un passato sempre più concettualizzato dove l’impressione, seppure sbiadita, è garantita dal continuo scavare nelle profondità della mente alla ricerca di parole o particolari che possano riconsegnare a chi guarda una sorta di commozione genetica.
Essi propongono lo studio dissacratorio di un’antica iconografia in cui l’oggetto, il feticcio, è variabile. Le fotografie e i video, che ritraggono i piccoli momenti familiari o l’uso del valore sentimentale dell’oggetto così come il materiale di scarto (come memoria del vivere quotidiano), il residuo urbano, naturale o il frammento del sogno sono, per questi artisti, l’archivio da cui attingere emozioni altrimenti perdute. Essi rendono concreta la memoria sensibile mediante il sottile passaggio, dall’attimo fissato e consumato alla produzione della dimensione temporale, operato dall’intervento artistico.
In qualche modo, esponendo il dato sensibile, congelano la storia della propria identità.
E tale appare anche il processo grafico-indagativo dei tratti somatici e della valenza rappresentativa delle figure sottovuoto di Antonello Matarazzo che, sottoposte ad autopsia, raccolgono le fila di un’aberrazione sistematica, di una ripugnante condanna alla sterilità intellettuale […]

Simona Barucco  (sulla mostra Aperto ’97, Trevi Flash Art Museum – FLASH ART, N° 205, estate 1997)


Espropriarsi e darsi

Cos’è che ci viene in mente guardando dei disegni conservati sotto una bolla di plexiglass e poi disposti in galleria come una processione disordinata nello spazio?

L’idea del segno, del di-segno durante questo secolo ha fatto molta strada: è stato utilizzato in tutte le maniere e in tutte le versioni e, quindi, non è forse l’utilizzazione del segno in sé che ha una particolare importanza, ma la collocazione che l’artista ne dà. E’ inutile ripetere che molte opere prese in sé, nella loro espressione segnica, ci rimandano a tante immagini già viste ed a tante consuetudini che l’arte contemporanea ha seguito a partire dalla fine dell’Ottocento; è molto difficile stabilire cosa potrebbe essere realmente nuovo e cosa potrebbe stupirci, sorprenderci, farci interrogare su altre sensazioni. Un segno, in sé, serve a de-signare qualcosa, poi spetta all’immagine globale dell’opera stabilire in che verso si incammina il lavoro, il discorso.

Il lavoro artistico contemporaneo ha la caratteristica di perseguire una novità quando ri-situa, ri-colloca, ri-analizza. Non è dunque importante il solo segno che usiamo, ma come e perché lo usiamo. Non è indispensabile stabilire l’unicità del segno che usiamo, ma dare sfogo al senso in cui lo caliamo. In fondo non siamo vittime del manierismo, ma siamo succubi di una vicenda più complessa che ci chiede continuamente cosa dobbiamo fare e come dobbiamo farlo. L’arte contemporanea esplica la sua forza in una continua manifestazione dei suoi ruoli, dei suoi modi, delle sue costruzioni e delle sue possibilità espressive. A volte ha bisogno di non esprimere per farlo ed in altre ha bisogno di eccedere la sua forma espressiva per azzerarla, per raffreddarla e superarla. Siamo continuamente dentro e fuori dal senso, siamo continuamente dentro e fuori l’orinatoio di Duchamp.

Spesso l’opera si svolge passando da immagine ad immagine senza mai esaurirsi, spostando in se stessa il centro di gravità. Una fatalità che non può più significare soltanto accettazione di un destino del segno che incombe, ma amor fati, ossia desiderio dell’infinita apertura dell’accadere e del fare, del creare e del formare. Qui l’individuazione del volto costruito dalla fotografia serve a dare una possibilità in più alla pittura. Ci procuriamo l’immagine fotografica del volto che ci interessa, poi prendiamo una qualsiasi matita con un pezzo di carta e proviamo a rifare nell’espressione il volto del personaggio fotografico che abbiamo scelto. Il disegno che ci viene fuori non è mimetico, il desiderio di illustrare che ci spinge a disegnare il volto non è stimolato dalla verosimiglianza, quello che ne viene fuori è piuttosto un lavoro che proviene da altri sguardi e dall’accumulazione di altri segni. Rifacendo quest’immagine, rifacendo questo volto ci siamo accorti che ciò che ci interessa non è il disegno in sé, non è la pittura come esecuzione della pittura stessa, ma un qualcosa che è mutuato dalla sua inautenticità, e questa inautenticità è figlia dello sguardo della fotografia e di altre tecniche che risentono dell’eco del tempo in cui viviamo.

Questo è quanto hanno imparato a fare i giovani artisti come Antonello Matarazzo. Lo scopo come ho detto altre volte, è quello di portare dentro al proprio segno la memoria di una pittura che non si può fare più e che si muove sulla soglia della sua impossibilità. Ma spesso partendo da questa impossibilità si giunge ad altre derive e ad altre esasperazioni, così come fa Antonello Matarazzo quando mutua dal segno dell’illustrazione e della satira politica per ridisegnare volti e personaggi disposti nel vuoto della pagina e compressi sotto l’ovalità di un plexiglass che ricorda vagamente l’attuale design del televisore. Ecco che il disegno in un pacchetto sembra sottovuoto ed è trattenuto da una possibilità molto alta di occasioni di serialità.

Tutte le immagini che Antonello Matarazzo costruisce ed inscatola in piccole dimensioni, ricordano l’evoluzione di un segno che va verso il fumetto o la grafica al servizio dei mass-media. L’artista, a differenza dei lavori più marcatamente pittorici che eseguiva negli anni passati, ritiene opportuno caricare il segno di una valenza che è fuori dell’oggetto stesso della pittura. Questo è quello che l’arte oggi riesce a fare con intelligenza. Il senso del lavoro di molti artisti come Matarazzo è proprio in questa direzione, ovvero stabilire una cosa da rappresentare e poi riferirsi ad un’altra, scegliere di testimoniarne una e invece produrne qualcun altra che è sempre fuori di sé. Tutto ciò lo si riesce a fare con un segno evidente o perseguendo un tratto delirante spesso apparentemente sconclusionato, privo di una relazione con la sua stessa intuizione originaria. Siamo verosimilmente all’artificio, ed esso è ciò che basta per attestare l’invadenza mediologica dell’immagine. Di fronte a che cosa ci mette questo segno, di fronte all’impossibilità di eseguire il segno stesso nella sua purezza. Qui il segno è perché non è niente o, peggio, è menzogna, illusione, che mira a distoglierci dalla vera esistenza’ dal nostro essere al mondo, che non siamo più in grado di avvertire.

Disposto sopra un piano concettuale multiplo il lavoro di quest’artista presenta una pluralità di possibili tracce di lettura. La sua esecuzione è l’ironica analisi di un genere di design, espressione della modernità e memoria di una metamorfosi del lavoro sull’immagine che vuole trasgredire l’originalità del suo senso. Nonostante queste immagini siano custodite in un tabernacolo, l’unica religiosità che richiamano è quella della ripetizione. L’immagine di Matarazzo è in continua allegoria, si tratta spesso di una forma di linguaggio disposta ad accogliere le fascinazioni ammalianti della satira politica. Seguendo questo flusso allegorico possiamo anche evitare di inserirci in un’iconografia che svela l’essenza della sua autenticità. Essa è, invece, la dimostrazione di ciò che si riduce e si trasforma, filtrata volutamente da altre infatuazioni. L’artista trova qui la propria identità, sottraendola dall’identità del segno. La sua posizione di partenza è dunque quella dell’osservatore’ di colui che guarda, come in Benjamin, tra il flaneur e il detective ad un mondo esterno ed agitato. Con un operazione di ricalco, questo spirito-detective cesella figure ed espressioni tipiche che diventano un filtro raffinatissimo per penetrare nella sfera di tessere che compongono un grande mosaico di popolazione. Il segno diventa così un’occasione, un pretesto ovvero un motivo strumentale e un punto d’appoggio; qualcosa che è prima e oltre se stesso e che ne costituisce il piano di riferimento.

La particolarità del lavoro di Matarazzo è la sospensione dell’immagine all’interno dell’oggetto simulato. Il bilico tra momenti diversi si rivela come una distrazione e come una trasmutazione incantata e differente. In questo universo assurdo e translucido, dove tutto somiglia ma non è così come poteva essere nella fotografia, le trasparenze dell’immaginario si fanno avanti come delIe prese poetiche e si bloccano in una immobilità primaria che rimane lì ferma come un mattone. Il soggetto di questi lavori è espropriato e ridotto, snervato dalla sua stessa immagine, ridimensionato a Sfinge e isolato nello spazio come in una giacomettiana sintesi.

Gabriele Perretta  (dal catalogo “Antonello Matarazzo”, Edizioni d’Arte Parente, Benevento 1997)