MOTUS, WHATEVER WE ARE…

  foto 1-8: Motus, whatever we are… , 2009, backstage
  foto 9-10: Motus, whatever we are… , 2009, installation project
  • MOTUS, whatever we are…, 2009
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  • MOTUS, whatever we are…, 2009
  • MOTUS, whatever we are…, 2009
•  MOTUS, whatever we are… – 2009, video-synchronization on 7 monitor lcd 25’’, DV, 22′ loop
video / concept / sound: Antonello Matarazzo
cast: 11 characters of different nationalities
a.matarazzo © 2009

MOTUS. Détournement Venise 2009 – 53. Biennale di Venezia

intervista di Bruno Di Marino per Art a Part of Culture, maggio 2009  ⇒

Antonello Matarazzo non è un pittore, non è un regista, non è un videoartista, è tutte queste cose insieme, in lui indissolubilmente legate più dal linguaggio espressivo che da quello tecnico.  La sua abilità nel dominare il medium video, sia dal punto di vista estetico che tecnico è sorpendente, è in grado di innovare anche il dispositivo e modularlo a seconda del progetto che intende realizzare. In molti suoi lavori video si avvicina al linguaggio filmico, non solo per i tagli di inquadrature, per la bravura nel comporre le immagini, tutte di forte impatto visivo – e questo è tutto sommato normale per un pittore come lui – ma proprio per una sensibilità squisitamente cinematografica. Video come “Apice” o “Miserere”, inoltre, sono esemplificativi non solo della sua cifra stilistica, ma anche della sua abilità di montatore. Matarazzo riesce perfettamente a combinare insieme l’elemento sperimentale, quello narrativo e quello documentaristico (attualmente sta realizzando un documentario prodotto da Luigi e Aurelio De Laurentiis), proprio grazie alla capacità di manipolazione info-grafica, che non si risolve tanto nella gamma di effetti speciali offerta dai software di post-produzione, ma in una consapevolezza visiva e in un’abilità tecnica propria di chi ha a lungo lavorato in pittura prima di appropriarsi dei dispositivi multimediali. Nelle sue ultime installazioni come “La Posa Infinita” o “Motus” – sulla quale sta attualmente lavorando e che presenterà alla prossima Biennale di Venezia – l’artista avellinese ha condensato una serie di elementi del suo universo poetico, estetico, concettuale e tecnologico, inaugurando una nuova fase della sua ricerca. Tentiamo di capire di cosa si tratta:

Nell’installazione “Motus” che hai concepito per la Biennale di Venezia utilizzi cornici digitali, dunque un particolare dispositivo che hai adoperato già in altre occasioni, anche per lavori che implicano una relazione tra immagine fissa e immagine in movimento. Stavolta però il tuo intervento sarà di tipo diverso puoi spiegarci in cosa consiste e come è strutturato l’ambiente?
Nelle installazioni come “La posa infinita” ho fatto uso del medium fotografico per poi sovvertire, avvalendomi di speciali software, la natura stessa della fotografia introducendovi suoni e movimenti e ipotizzando in questo modo l’istante immediatamente precedente allo scatto del fotografo, in cui l’attesa dei personaggi ritratti, come il titolo del lavoro suggerisce, si dilata all’infinito. Nel caso di “Motus” in un certo senso avviene il processo inverso. Intanto i soggetti non vengono dal passato remoto, essendo ritratti di persone viventi ottenuti utilizzando una videocamera in uno studio di posa fotografico. Essi vengono però costretti ad uno stato di prolungata immobilità, come imprigionati all’interno della cornice che ne delimita i volti. In questa condizione non fanno altro che percepire ossessivamente le sensazioni della propria natura biologica (freddo, caldo, mal di testa ecc.). Contemporaneamente, ma in un diverso livello di coscienza, essi sviluppano pensieri e concetti più complessi, di natura più marcatamente esistenziale, difficilmente attribuibili a questo o a quel soggetto. Pensieri e parole saranno ugualmente percepibili in una sorta di delirante monologo collettivo. Inoltre una ritmica roteazione dei volti darà luogo ad un interscambio dell’identità dei vari personaggi, permettendo il

passaggio di ognuno di loro dall’una all’altra cornice. Riguardo i pensieri formulati dai vari personaggi devo dare atto all’amico scrittore e poeta Franco Arminio, per avermi offerto il necessario supporto letterario.

Mi pare di capire che il suono riveste un ruolo importante, sotto forma di parola, di frase frammentata da attribuire ad un corpo. Ma l’equivalenza tra suono e segno è incerta, ambigua, in questo senso rimanda anche al concetto della perdita d’identità… 
Questo lavoro nasce da una domanda e da una considerazione, la domanda riguarda l’irripetibilità dell’individuo (in-divìduus= indivisibile), la presunzione di unicità e di originalità che è alla base di ogni personalità. L’idea che il proprio universo esistenziale costituisca l’essenza della propria natura. Eppure se pensiamo a quanto gli uomini hanno da dirsi in un ascensore, per fare solo un esempio banale, notiamo tutta una serie di comportamenti che sono comuni tanto all’aborigeno quanto al manager della City. L’interrogativo che pone questo mio esperimento sta in cosa consista tale straordinarietà, al di là delle risposte comportamentali e psicologiche, spesso compulsive, determinate dall’ambiente.

Il ruotare di questi corpi simboleggia l’idea di trasformazione ma è associabile anche alla rotazione dei corpi celesti, dei pianeti, come se l’evoluzione umana, i cambiamenti dei singoli individui fosse legata all’architettura cosmica…
La considerazione è proprio questa, cioè che l’individuo sia una parte, un frammento di un Tutto e che a questo continuamente aneli, sviluppando così la propria sofferenza biologica ed esistenziale, anche se questa sofferenza prende poi varie forme e significanze. Sottraendo senso al senso provo ad ipotizzarne uno in una direzione cosmica, comica, e corale.

Tutto questo mi fa pensare a Beckett…
Come sai ho realizzato altri lavori che con Beckett avevano a che fare, come “The Fable” e “4B movie”, o “La Camera Chiara” che aveva a che vedere con Barthes, ma nei miei esperimenti non penso mai ad un autore, casomai è dopo che trovo la concomitanza o magari me la suggerisce un altro. Non è una presunzione… è che siamo frammenti.

Parlaci un attimo del contesto in cui la tua opera sarà vista, ovvero fa parte di una esposizione collaterale della Biennale. 
Si tratta di un progetto vasto e ambizioso ideato da Elisabeth Gluckstein e Gabriele Perretta che vanta una partecipazione di artisti di altissimo livello e che coinvolge oltre 30 siti disseminati in tutta la laguna. La mia installazione sarà visibile a Molino Stucky, uno tra i siti più fortunati, ma preferirei che ad addentrarsi nei dettagli siano gli organizzatori o i curatori della manifestazione.

Come ti collochi nel panorama degli artisti italiani che fanno uso di media? Voglio dire, immagino che la definizione “videoartista” sia limitante per te, ma allo stesso tempo il tuo approccio al medium digitale è piuttosto complesso ed elaborato, all’insegna di una consapevolezza che spesso manca agli altri artisti.
Come tanti, temo di avere la presunzione di non essere collocabile, anche se ciò rimanda alla frammentarietà di cui sopra. La mia è una consapevolezza che agisce sotto traccia e solo a costo di grandi sforzi diventa parzialmente divulgabile.

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