INTERVISTE
L’immagine prende corpo. Conversazione con Antonello Matarazzo PDF pg.61
Antonello Matarazzo, artista, pittore, videomaker, è protagonista in vario modo del Laceno d’Oro 2014. È autore della sigla, insieme al corpo e al volto di Adriana Borriello. È membro della giuria del concorso Gli occhi sulla città, insieme a Jia Zhang-ke e Pietro Masciullo. E presenta qui al festival quattro dei suoi lavori più recenti, Folias para 5, Your Body is Your Buddha, 4B movie, 80 rKg. In mortem Johann Fatzer.
Perché proprio questa selezione?
Mi interessava proporre un discorso su corporeità e percezione che è un comun denominatore di questi lavori. Folias para 5 nasce nel 2012 come visual per un concerto di musica barocca all’Auditorium di Roma. Con le stesse immagini ho realizzato questo video monocanale, in effetti ancora inedito. Più che sulla malattia mentale mi sono concentrato su come essa si rivela attraverso la gestualità. 4B movie è meno recente, in anteprima nel 2008 al Festival del cinema di Roma è un lavoro in cui Piera Degli Esposti presta i suoi occhi per una riflessione sulla percezione dell’immagine filmica e sul concetto di maschera. Ho saccheggiato un po’ di storia del cinema, immagini da Bergman, Persona (da per-sonàr appunto, il risuonare attraverso un maschera), la voce di Carmelo Bene in Nostra signora dei turchi. Inoltre c’è il grande Buster Keaton sia nella specificità comica di Steamboat Bill Jr di Reisner che nell’inquietante Film scritto da Beckett. 80 Kg. In mortem Johann Fatzer, è stato presentato in anteprima al teatro Volksbühne di Berlino nel 2012. È ispirato a La rovina dell’egoista Johann Fatzer, una pièce inedita messa in scena una sola volta dopo la morte di Brecht. Fatzer è questo personaggio, un disertore, che porta avanti un discorso sull’individuo in contrasto con il progetto totalitario, la guerra, etc. e quindi si isola, diserta, ma viene schiacciato dalle sue stesse aspirazioni individualistiche. Infine Your Body is Your Buddha nasce anch’esso come sigla di un festival, il Festival di Reggio Calabria del 2013 e poi riadattato nel 2014. Si tratta di una riflessione su corpo e processo karmico, prendendo spunto dalle prime sperimentazioni cronofotografiche di E. Muybridge e É. J. Marey.
Ecco, il corpo appunto. Il titolo, nel caso di Your Body is Your Buddha, è emblematico. Ma penso anche a 80 Kg., il corto è interamente incentrato sul corpo. La presenza del corpo è sempre centrale dei tuoi lavori, quest’importanza della figura umana…
Anche come pittore, la focalizzazione è sul corpo, sul volto. È qualcosa che diamo per scontato come se fossimo noi stessi, anche se non è esattamente così, eppure questa macchina che chiamiamo “corpo” in un modo o nell’altro ci rappresenta ed è la sola testimonianza che attesta il passaggio in quest’universo. In fondo il corpo definisce la nostra abiezione, la caduta e l’attaccamento alla terra solida. In 80 Kg. la vanagloria del protagonista si identifica con il proprio corpo e si sublima nell’ingurgitare carne a sua volta. Sarà proprio un ragionamento sul concetto dell’iniquità della carne a convincere i suoi compagni di fare la cosa giusta facendolo fuori. Ma il corpo fortunatamente non è solo la “carnazza” esibita, ad esempio, da Svankmajer, è anche un insieme d’informazioni più o meno criptiche che forniamo di noi stessi, un paesaggio di codici visivi, il cui compito di decifrarli, una volta superate le formule di Lombroso, è affidato esclusivamente alla sensibilità e alla finezza della percezione.
Se pensiamo a La posa infinita, al tuo frequente lavoro sul morphing, che sembra dare movimento all’immobile, tutto rientra ancora una volta in questo discorso sul corpo, il moto, la vitalità. È come se tu raccontassi una resurrezione…
La fotografia, soprattutto il ritratto tra le sue peculiarità, i suoi punctum, ha questa dimensione di eterna immanenza che va appunto oltre la storicità del dato anagrafico. La posa infinita è questo. Un tentativo di dare forma all’immanenza riportando questi personaggi degli inizi del ‘900 nel tempo presente. Ma non solo. Ovviamente c’è la sorpresa di una fotografia che si rimette in movimento (in tempi non sospetti perché parliamo di un lavoro esposto la prima volta al Museo Leonardo da Vinci di Milano nel 2007 ma nato nei primi anni ‘00). Non c’è soltanto l’idea di riportarli in vita. O meglio, si tratta di un percorso a ritroso, il riportare noi spettatori a quel momento, essere catapultati lì nel momento in cui veniva scattata la foto, anche se, trattandosi di immanenza, è più una questione di spazio che di tempo. Spero di essermi spiegato.
E, in effetti, si ha un po’ l’impressione che siano loro, i personaggi della foto, a guardare noi spettatori…
Sì anche per questo gioco di sguardi, un po’ come in Las Meninas di Velasquez: chi guarda chi? Anche 4B Movie racconta la stessa cosa.
Questo desiderio di animare l’immagine fissa è un po’ il desiderio che era alle origini del cinema. E quindi torniamo a Muybridge che tu citavi prima. Gli esperimenti che si facevano alle origini del cinema sembrano essere ancora la base, il punto di partenza delle sperimentazioni di oggi. Come si possono recuperare quelle esperienze, magari dimenticate per il predominio di un cinema più narrativo, “mainstream”?
La tecnologia si evolve a ritmi vertiginosi, la strada maestra oggi sembra essere l’8K, la computer grafica, il cinema e stampanti 3 e 4D, l’oled… e chi più ne avrà più ne metterà. E però nel contesto della sperimentazione esiste spesso la tendenza a riconsiderare forme più “primitive” di tecnologia. Ci sono molti autori che fanno volontariamente a meno della tecnologia avanzata… Paolo Gioli ad esempio lavora con il tubo stenopeico, che è un po’ quello che sono i segnali di fumo in rapporto al cellulare. Questo non è solo dettato da una curiosità tecnica (si tratta pur sempre di una tecnologia) o da una forma di sovversione, ma proprio perché per ottenere certe immagini in bianco e nero, certi impasti tonali, non c’è simulazione di software che tenga, e queste tecniche per quanto deficitarie sono in grado di conferire alle immagini un’intensità e una poesia difficilmente raggiungibili con le tecnologie recenti. Detto tra noi, io faccio un uso smodato delle nuove tecnologie cercando però di addomesticarle senza subirle né esibirle. Affidarsi unicamente al teorema “qualità uguale alta definizione” significa produrre immagini che in effetti non sono solo più patinate, danno proprio una sensazione di maggiore prossimità banalmente realistica, anche se iper. Invece per me l’arte deve essere come la Madonna: tanto distante quanto intima e sublime.
…che poi è anche una questione manuale. A me sembra che la matericità a te interessi, proprio in quanto pittore, agire sul repertorio ecc…
Spesso lavoro quasi fotogramma per fotogramma, con una cura maniacale nella fase di postproduzione. È quello il momento che mi appartiene di più, al di là delle riprese. Fatalmente le riprese mi annoiano, ebbene sì, inoltre, una volta piazzata la videocamera, per le impostazioni mi affido spesso ad operatori molto più tecnici di me. A volte la videocamera non è neanche necessaria perché mi servo di materiali di repertorio, magari per sovvertirne la sacralità iconografica. Comunque il momento magico resta quello della postproduzione, quattro mura e tavolino senza distrazioni di aiuti o interpreti… è lì che il mio rapporto con l’immagine si fa quasi carnale e viscerale, in pratica torno pittore.
Ecco, le nuove tecnologie stanno cambiando le nostre prospettive in maniera inaudita. È il 2013, dice Schrader, e sembra di essere nel 1913. Ma tra tutti questi cambiamenti, cosa vuol dire ancora sperimentare, ricercare nuove forme, linguaggi?
Quello della tecnologia è un contesto un po’ totalitario. È talmente pregnante lo sviluppo che stanno avendo le nuove tecnologie, in questa fase di acceleramento progressivo, che rischia di sopraffarti. Da un lato ha democratizzato, dando la possibilità di fare cinema anche a chi non ha mezzi, dall’altro ha aperto la strada alla sperimentazione meno avveduta. Quello che fino a poco più di vent’anni fa era un’arte elitaria ora è diventata possibile a tutti. È un’arma a doppio taglio poiché la tecnologia rischia di prendere il sopravvento, di farla da padrone. Prima l’acquisizione di queste tecniche attraverso pratiche lunghe e complesse, permetteva all’autore di avere una maggiore padronanza sul mezzo che andava a utilizzare. Adesso la tecnologia non si deve conquistare, si può comprarla a prezzi relativamente modici ed è già impostata per essere facilmente pronta all’uso…
Ed è come se ci fosse una sorta di analfabetismo di ritorno…
Certo. Spesso non c’è neanche la possibilità di comprendere a fondo i mezzi che stai usando, saltare questo tassello ti mette in uno stato di pericolosa subordinazione. Ci si fa sorprendere dalla miriade di possibilità dei software e delle videocamere, partono i “wow!” per ogni minima innovazione, senza comprendere che non è il pixel in più o in meno a dare forma a un talento… La fascinazione delle tecnologie, se da una parte introduce nuove opportunità, dall’altra può distrarre dall’idea fondante del lavoro. Ho scritto dei testi proprio su questo argomento in occasione delle presentazioni di alcune rassegne curate da me. ⇒
Proprio a proposito della rivoluzione tecnologica, di questa democratizzazione… Mi sembra che una delle strade principali del cinema delle origini, quella della reinvenzione del dato reale, non sia mai stata davvero battuta, perché soppiantata dal dominio della sceneggiatura. Ecco, noi abbiamo avuto in Italia una grande tradizione di sperimentazione, da Grifi a Canecapovolto, a te. E però questa tradizione di cinema sperimentale, d’avanguardia, chiamiamolo come ci pare, sembra non abbia ancora acquisito quello che gli spetta. Nonostante youtube, nonostante facebook, è rimasto predominio di pochi. Tu come te la spieghi questa cosa?
Guarda, queste piattaforme che citi saranno pure tanto “virali”, come si ama dire adesso, ma non è detto che siano altrettanto efficaci nel veicolare cultura, mi è capitato di vedere dei video fantastici che erano lì da alcuni anni, alla mercé del mondo intero al netto di una decina di visualizzazioni in tutto. Ecco, è senz’altro vero che la tecnica cinematografica abbia finito per fossilizzarsi nella narrazione, ma lo è altrettanto che esiste un sommovimento, un “mondo di mezzo” al quale mi sento di appartenere, un po’ meno luccicante ma in cui tutto è possibile. Qui si svelano ulteriori prospettive, penso a Viola, a Rybczynski ecc.. Anche se c’è da dire che non esiste ambito creativo in cui il genio non sia possibile. Il cinema tradizionale è un lavoro di squadra molto complesso e affascinante in cui i talenti non si contano, abbiamo, infatti, registi, sceneggiatori, direttori della fotografia, musicisti e interpreti che entrerebbero a diritto anche nella storia dell’arte.
Per venire invece al caso degli amici di Canecapovolto, con gli stessi mezzi si fa ancora un’altra cosa. Cioè è un’operazione mediatica la cui intenzione è sfatare gli stilemi della comunicazione di massa servendosi delle medesime tecniche e slogan, pur non potendo ovviamente disporre degli stessi canali… un tipo di linguaggio che trova i propri luminari più nella filosofia, nel giornalismo di riflessione o in certa satira intelligente che nel linguaggio visivo vero e proprio, e proprio in quanto tale artisticamente molto dirompente. Come ogni assoluto l’arte contiene in sé il suo contrario, il suo anticristo e, anche se questo non è cinema, non è settima arte, è comunque l’ennesima. Compreso quello che faccio io, che non è cinema e forse neanche videoarte, è un genere di sperimentazione fuori catalogo. Non ci sono strutture di gestione né spazi di visione, a meno che non si tratti di spazi espositivi, di musei e gallerie, perché difficilmente queste cose circolano nei festival. Mentre il pubblico, il grosso pubblico si muove seguendo queste strade, secondo queste logiche, che sono di potere, diciamocelo. Mancando le strutture, viene meno anche l’ascolto. Però ci sono dei seguiti di nicchia, ci sono ad esempio i ragazzi di circuito Nomadica (www.nomadica.eu) o di LabUS (www.facebook.com/pages/LabUS/115589488468397) e tanti altri che fanno un ottimo lavoro di ricognizione e di testimonianza di queste realtà… come dire, a noi non piace essere in troppi ma neanche soli.
Cosa ci puoi raccontare di questi Brevi dialoghi, il nuovo progetto che accomuna te, le tue immagini e le azioni performative delle ballerine del “Progetto Danza” del Teatro Carlo Gesualdo?
Sì, l’idea è sempre quella di mescolare i linguaggi. Io vengo dall’esperienza medialista di Gabriele Perretta, quindi sarei tra i primi responsabili di queste commistioni. Ho messo nello stesso calderone fotografia, pittura, cinema, per farne un unico prodotto. Ma non amo quando semplicemente si giustappongono differenti espressioni, ad esempio laddove c’è la mostra di pittura e poi il concertino e la performance dell’artista praticone che dipinge a ritmo di musica. Sono cose sempliciotte, buone per i turisti occasionali delle sagre paesane. In questo caso, la compagnia di Adriana Borriello ha pensato di interagire con i video, di creare una deriva delle immagini filmiche, attraverso una sorta di tableaux vivants, in cui le ballerine interpretano gli stessi personaggi che vediamo sullo schermo. Questo è un discorso che mi interessa, come ad esempio quello della straordinaria mostra del 2006 The Children of Uranium di Peter Greenaway al Pan di Napoli. Nel 2005 alla Changing Role a Napoli esposi un’istallazione dal titolo 10 secondi in cui un personaggio in sedia a rotelle era dipinto su dieci tele, poi era proiettato su un supporto trasparente (dieci secondi di sequenza che andavano in loop), infine attraverso la trasparenza di questo supporto potevi scorgere lo stesso personaggio in carne ed ossa, vestito allo stesso modo e nella medesima posizione. È un’operazione che crea spiazzamento, il cervello confonde continuamente il dato reale con ciò che non lo è. Un po’ come La posa infinita che vuole venir fuori dalla fotografia. È un po’ tutto lì il senso della mia ricerca. Un modo per far venire fuori un personaggio e far sì che chi lo sta guardando non si senta in un altrove, ma in qualche modo si senta richiamato nell’opera come in una specie d’ipnosi. Anche se non amo l’interazione e la contiguità tra opera e fruitore. È un discorso di limite quello che mi interessa. Oggi, anche grazie ai social network, c’è la tendenza a partecipare a ogni cosa, come in una sorta di bulimia collettiva e totalitaria vogliamo essere partecipi di tutte le pratiche umane, che poi è una fesseria che ti fanno credere. Ma nell’arte dovrebbe essere “vietato toccare” come nei musei. Come ho detto deve esserci una distanza, ma anche una chiamata a raccolta dell’immagine. Trovo piuttosto insulso e anche fuorviante che uno spettatore sia costretto a muovere braccia e gambe, io voglio che rimanga immobile… e se possibile a bocca aperta.
(Intervista di Aldo Spiniello per “Sentieri Selvaggi Magazine” N.15, nov-dic. 2014 – pag. 61)
“A Riccardo Dalisi, alla sua poliedrica attività nel campo del design, della scultura, della pittura e del teatro, alle sue innovative idee applicate all’architettura e al suo imprescindibile rapporto con la città di Napoli è dedicato il documentario firmato da Antonello Matarazzo”: così recita il pressbook di “Latta e café”, lavoro presentato nella sezione L’Altro Cinema | Extra all’ultimo Festival del Cinema di Roma.
Dalisi è figura di spicco nel panorama internazionale dell’arte contemporanea. E’ un artigiano puro che, attraverso intuizioni straordinarie, ha saputo coniugare il lavoro su scala industriale con quello su piccoli numeri, permeando entrambi della sua consueta poesia. Non ha caso nel 1981 ha vinto il prestigioso Compasso d’Oro per il design della caffettiera napoletana Alessi. Ma a lui va innanzitutto il merito, storicamente riconosciuto, di avere inventato l’arte povera prima ancora che questa diventasse una corrente ufficiale. E’ stato il primo ad assemblare insieme materiali di riciclo, come latta, carta, ceramica, vetro, legno e stoffa trasformandoli, con pazienza artigianale, in vere e proprie opere d’arte. Abbiamo intervistato il regista Antonello Matarazzo per saperne di più.
Come nasce il progetto del documentario?
Quasi per caso, un gallerista propose a me e Riccardo Dalisi una doppia personale in cui mettere a confronto i nostri rispettivi linguaggi, diametralmente opposti sia dal punto di vista tecnico che d’ispirazione concettuale. Per questa occasione io avrei tentato una rilettura in digitale del lavoro artigianale di Riccardo producendo un video che sarebbe confluito in una videoistallazione. Era la prima volta che entravo in contatto con Riccardo Dalisi e con il suo lavoro che conoscevo solo superficialmente. Familiarizzando con lui e con il suo studio ho sentito l’esigenza di sviluppare il progetto approfondendo alcuni aspetti del personaggio, spingendolo a raccontarsi e sollecitando altri a farlo. Da questo ne è poi nato il documentario del quale stiamo parlando.
È evidente, vedendo il documentario, il suo amore per il mondo di Dalisi: perché ha deciso che voleva essere lei a raccontarlo?
Non c’è modo migliore di raccontare le cose che osservarle da un punto di vista estraneo, scientifico, e con curiosità sincera, in cui il processo di conoscenza avviene in corso d’opera e l’empatia, forse l’amore, ne è il prodotto finale.
Raccontare Dalisi non deve essere stato semplice: lei stesso ha deciso di inserire nel montaggio una parte della ricerca del ‘modo migliore’ per affrontare il tema. Come è arrivato alla scelta finale?
Ho pensato che raccontare un personaggio come Dalisi con la sola analisi delle sue opere avrebbe lasciato il film mutilato di un aspetto fondamentale. Non è possibile parlare di un artista se non si indaga sulle ragioni che lo spingono ad esser tale. Per questo ho dato ampio spazio all’opera che Riccardo ha realizzato soprattutto nel sociale, animando i quartieri degradati di Napoli, collaborando con chi è in prima linea nell’affrontare temi come la decrescita e lo smaltimento dei rifiuti con la passione autentica di un bambino convinto di poter concorrere alla salvezza dell’umanità.
Quali sono state le difficoltà maggiori nella realizzazione del documentario (se ce ne sono state)?
Credo quella di ritrasformare il caos del lavoro di Dalisi, non nel senso di ammaestrarlo per ottenerne un racconto, ma proprio di tentare di re-interpretarlo senza tradirne i principi, ri-caoticizzandolo, per così dire, in una nuova forma espressiva.
Quale è stato il giudizio di Dalisi sul prodotto finale?
Si è commosso.
Come è avvenuta la scelta dei personaggi da intervistare? C’è qualcuno che avrebbe voluto inserire ma non ha potuto?
Ci siamo messi sulle tracce di suoi compagni di percorso come Mario Marenco o Michelangelo Pistoletto, di persone che hanno collaborato con lui nel sociale come Alex Zanotelli, dei suoi successori sul piano filosofico come Serge Latouche, o di critici a lui molto vicini come Gillo Dorfles. Non abbiamo potuto incontrare Achille Bonito Oliva per problemi di appuntamenti saltati e tempi stretti, ma non è stato un danno, gli interventi delle persone che ho citato sono stati piuttosto esaustivi e perfettamente in sintonia con l’andamento aritmico del film.
Il documentario è stato presentato all’ultimo Festival di Roma: com’è stata l’accoglienza?
Direi che di meglio non avremmo potuto aspettarci, siamo stati inseriti in due sezioni “L’Altro Cinema | Extra” e “Occhio sul Mondo”, quest’ultima dedicata ai temi ambientali. Abbiamo quindi avuto una visibilità estrema grazie alla quale il pubblico è intervenuto numeroso e già preparato su cosa stessero per vedere, dal momento che c’è stata una grande ripercussione su tutti i media di maggior rilievo. Questo devo dire anche grazie al fatto che avevamo dietro una macchina da guerra come Aurelio e Luigi De Laurentiis e la Filmauro che lo hanno prodotto.
Quale futuro avrà ora questo lavoro?
La Filmauro, che è anche la distribuzione, sta mettendo a punto un cofanetto homevideo che sarà presto in vendita in tutte le librerie. Per quanto riguarda invece le proiezioni al pubblico il prossimo 19 novembre sarà alla Triennale di Milano e alla fine del mese al Festival del Cinema Italiano di Madrid. Prossimamente, credo in Dicembre, dovremo uscire in varie sedi napoletane tra Filangieri e altre sale.
E lei, che progetti ha?
Oltre a proseguire la mia attività espositiva (la mia prossima personale dovrebbe essere proprio quella con Riccardo, rimandata per i motivi di cui sopra), cinematograficamente parlando ho un progetto di lungometraggio, sempre prodotto dalla Filmauro, seppure anche stavolta low cost, che forse, pochi soldi a parte, per me è la formula migliore in questo momento, in un certo senso garantisce l’autonomia necessaria al mio modo decisamente poco ortodosso di intendere il processo creativo.
(intervista di Carlo Griseri per “Blogosfere”, novembre 2009) ⇒
Antonello Matarazzo: La caffettiera dell’architetto.
Ho portato De Laurentiis dal cinepanettone al caffè napoletano ⇒
Chi non conosce la famosa caffettiera “poetica” di Alessi? Quell’oggetto tra arte e industria, tra tradizione napoletana e design moderno che nel 1981 ha fatto meritare al suo creatore il prestigioso Compasso d’Oro per il Design? In pochi invece conoscono lui, l’ideatore di questo oggetto e di molti altri, Riccardo Dalisi, architetto oggi quasi ottantenne che è entrato nella storia dell’arte contemporanea grazie alla sua “rivoluzione culturale”. Ha coinvolto nei suoi progetti i bambini e gli abitanti dei quartieri più disagiati di Napoli, ha lavorato con materiali di scarto e da riciclo, anticipando in Italia l’arte povera e il concetto di ecosostenibilità. A questo personaggio vulcanico e geniale il videoartista Antonello Matarazzo ha dedicato un documentario dal titolo Latta e cafè, scelto da Mario Sesti per il suo Extra e contemporaneamente da Gaia Morrione per il Focus sull’ambiente dell’Occhio sul Mondo. Dopo il Festival di Roma il suo film – nato con la sorprendente complicità del produttore dei cinepanettoni Aurelio De Laurentiis (porta infatti il marchio Filmauro) uscirà in Dvd e con molta probabilità sarà comprato da Sky. Tra i protagonisti del viaggio attraverso la creatività di Dalisi, in Latta e cafè compaiono personaggi come Mario Marengo, Gillo Dorfles e Michelangelo Pistoletto.
Matarazzo, come si è avvicinato a Riccardo Dalisi?
E’ successo in modo casuale, quando un gallerista di Benevento mi ha proposto una mostra insieme a Dalisi, che per molti versi è il mio opposto, proprio per riflettere sulle differenze della nostra arte. Io lavoro con il digitale, con elementi immateriali, lui invece usa molto le mani ed è un artigiano. Avrei dovuto rileggere creativamente in pochi minuti il suo lavoro con un’opera di videoarte, ma poi mi sono appassionato al suo personaggio e ho voluto fare di più. A quasi 80 anni è rimasto un bambino, mi incuriosisce il suo istinto, la sua giovialità, la freschezza da ragazzino che manifesta anche fisicamente, nel modo di camminare.
Quanto ha partecipato Dalisi al processo creativo del documentario?
In Latta e cafè è presente in moltissime immagini, ed è intervenuto anche nella creazione del film con suggerimenti che però poi non ho molto seguito. Lui avrebbe voluto qualcosa di simile a una fiaba, con una struttura narrativa, io invece ho voluto riproporre la sua arte e la sua personalità anche con lo stile e il linguaggio del documentario. C’è una sorta di narrazione, ma continuamente tradita e riproposta, arrestata e riavviata. Ho fatto un po’ come lui, che è approdato a progetti industriali come quello di Alessi quasi per caso, la sua è un’avventura quasi donchisciottesca.
Un elemento importante della sua opera è l’attenzione per l’ambiente e l’ecosostenibilità.
Non avrei fatto un documentario di un’ora su di lui se non ci fossero state anche implicazioni sociali e ambientali. Mi interessava collegare il suo uso artistico di pezzi di latta o altri scarti a un movimento come quello di padre Zanotelli e al tema dell’emergenza ambientale.
E’ significativo che questa esigenza ambientalista sia rappresentata proprio da un uomo di Napoli, la città del disastro rifiuti.
All’inizio del film Dalisi dice che la maggioranza delle persone lavora per distruggere il mondo, mentre una piccola minoranza lavora per il bene, ma lo fa in modo molto più convinto ed efficace. Sono i due aspetti di una stessa cultura napoletana. Dalisi è imbevuto di quell’ambiente, che non è la Napoli leccata di Bassolino, ma quella povera, della camorra e dell’immigrazione ante-litteram. Questo immaginario disordinato è entrato nella sua proposta artistica e le ha dato un senso di incompiutezza.
Come mai questo film è prodotto e distribuito dalla Filmauro dei cinepanettoni?
Ho incontrato De Laurentiis qualche anno fa, quando venne a vedere una mia mostra di videoarte e rimase molto impressionato. Mi propose subito di fare un documentario su Napoli, ma con una visione positiva della città, ma allora non avevo velleità registiche e rifiutai. Tempo dopo ci ho ripensato e ho realizzato un breve documentario sul lavoro di Dalisi. Quando Aurelio De Laurentiis lo ha visto ha deciso di produrre “Latta e Cafe’” e grazie al suo intervento ho anche ottenuto il finanziamento del MIBAC.
(intervista di Michela Greco per “Cinecittànews”, ottobre 2009 –cinecitta.com)
Riccardo Dalisi fa parte di una generazione di inventori e operatori culturali che hanno lavorato a Napoli segnando la scena urbanistica della città: non c’è angolo di strada o caffettiera i scuola di cui abbia disegnato le forme che non abiti lo spazio che occupa come se facesse parte del paesaggio da sempre. A lui è dedicato il film molto premiato di Antonello Matarazzo, il regista che ci ha concesso questa intervista:
Quale eredità, più o meno visibile, concreta o puramente valoriale, Dalisi ha lasciato sul territorio e nel mondo accademico?
Io credo che a prescindere dal valore di ogni singola opera, come ad esempio la caffettiera prodotta da Alessi, sia questa forma di ludico animismo che Dalisi infonde in ogni suo prodotto, artistico o industriale che sia. Tale modus operandi ha radici appunto nell’artigianato ma ne traccia anche, per così dire, l’atto finale. Fare di una forchetta una lucertola, di un compasso un polipo o di una caffettiera un Totò significa anche, in un certo senso, piantare dei puntelli per un “non plus ultra” dell’artigianato, o almeno di un certo genere di artigianato.
Il suo lavoro è stato sufficientemente valorizzato?
Dalisi è stato pur sempre il vincitore nel 1981 del “Compasso d’Oro” che è una specie di Nobel per i designer, ciononostante è spesso dimenticato o “snobbato” da colleghi e istituzioni in quanto considerato un outsider nel campo dell’architettura e del design. Meno puzza sotto il naso ce l’hanno invece i cittadini, in particolare un certo tipo di cittadini napoletani, laddove R. D. (‘o prufessore) si è adoperato, con la complicità di parroci e vescovi, nel risollevare le sorti dei bambini senza istruzione o anche di poveri tout court. In quei contesti viene considerato come una sorta di angelo custode, di padrino buono.
La sua opera Latta e cafè aderisce a quella di Dalisi per principi e soluzioni adottate?
Ho cercato di creare un andamento ritmico sgangherato ma amabile un po’ come quello delle orchestrine rom. Tutto il lavoro di Dalisi è caratterizzato dall’apparente (spesso effettiva) assenza di progetto, da una sorta di Caos primordiale che ho tentato di re-interpretare in chiave cinematografica. Inoltre animando a passo uno alcune sue sculture, in modo da tirarne fuori la vita intrinsecamente contenuta, ho lasciato che gli stessi oggetti parlassero di sé manifestandosi come attori di scena.
La pazienza artigiana è un valore che rischia di sparire. Il cinema ha ancora qualcosa che gli assomiglia? Può essere un’arte in grado di salvaguardarla?
Se parli del processo tecnico che è alla base di una produzione cinematografica, temo che il Cinema sia tra i pionieri della scomparsa dell’artigianato, esso è più d’ogni altro settore artistico quello che maggiormente si basa sulla mediazione tecnologica, ed è l’eccellenza o il difetto di quest’ultima a dettare i parametri di qualità e tempi di lavorazione. Ma tecnologia non vuol dire per forza rimpianto, nel processo tecnologico è conservata tutta la memoria di quello artigianale che lo precede, in più nell’interazione uomo-macchina esiste una forma di affinità ed empatia molto simile al rapporto che ha l’artigiano con i propri ferri di mestiere, in cui la pazienza continua ad essere una prerogativa importante. Sono solo forme diverse di know-how ma che a ben vedere hanno stretti legami di parentela.
Ambiente, riciclo, sostenibilità. Temi importanti e soluzioni reali che vanno promosse, anche nella popolazione che vive in città difficili, come Napoli. È il cinema un utile strumento per diffonderle?
Il cinema non ha solo la possibilità di essere, al pari di altri media, un megafono dei problemi sociali, esso ha delle potenzialità di gran lunga superiori. Intanto ha dalla sua parte il tempo, ce n’è tanto per approfondire un argomento in ogni possibile sfaccettatura. In più si configura come prodotto artistico, spesso dimentichiamo che nei secoli l’arte è stata la forma di comunicazione più immediata, non vi erano concorrenti sul piano mediatico, tuttora il potenziale persuasivo che ha l’arte supera di gran lunga per qualità tutti gli altri strumenti di comunicazione. Adesso è il cinema più di ogni altra forma d’arte a possedere questo potenziale, anche se a dirlo è uno che viene dalla pittura come me. Paradossalmente la finzione è uno strumento senz’altro efficace per trasmettere la verità, la quale non dovrebbe essere contenuta nel film in maniera esplicita e frammentaria, ma come l’implicito prodotto finale di un puzzle che solo lo spettatore è in grado di ricostruire grazie alla propria intuizione. Il cinema di buona qualità è Zen.
Dove è possibile vedere Latta e Cafè? Anche in rassegne specifiche dedicate a temi ambientali?
Abbiamo partecipato alla rassegna “Occhio sul Mondo” (incentrata su tematiche ambientali) ed eravamo in concorso in “Nuovo Cinema | Extra” al Festival del Film di Roma dove abbiamo vinto il “Premio Hag” proprio per il valore che è stato riconosciuto al film nell’affrontare tematiche artistiche in relazione all’ambiente. È stato in programmazione al Nuovo Cinema Aquila a Roma e prossimamente dovremmo uscire in alcune sale napoletane tra cui il Filangieri, dopo una proiezione per la stampa a Palazzo San Giacomo, alla presenza del Sindaco di Napoli ed altre autorità del Comune. Inoltre la Filmauro sta realizzando un cofanetto HomeVideo che presto sarà disponibile in tutte le librerie, e la Technicolor ha fatto un ottimo lavoro di sottotitolazione proprio perché prevediamo che il film sarà presente in festival e rassegne di carattere internazionale. In ogni caso cerchiamo di non confinarci in niente di specifico, quello dell’ambiente è un tema del quale con Bruno Di Marino, mio collaboratore, ci siamo occupati solo marginalmente e il film in generale è privo di un vero e proprio lavoro di ricerca scientifica, apposta tendo a chiamarlo film piuttosto che documentario.
(Intervista di Diego Carmignani per il quotidiano “Terra”, 15 nov. 2009)
MOTUS. Détournement Venise 2009 – 53. Biennale di Venezia ⇒
Antonello Matarazzo non è un pittore, non è un regista, non è un videoartista, è tutte queste cose insieme, in lui indissolubilmente legate più dal linguaggio espressivo che da quello tecnico. La sua abilità nel dominare il medium video, sia dal punto di vista estetico che tecnico è sorpendente, è in grado di innovare anche il dispositivo e modularlo a seconda del progetto che intende realizzare. In molti suoi lavori video si avvicina al linguaggio filmico, non solo per i tagli di inquadrature, per la bravura nel comporre le immagini, tutte di forte impatto visivo – e questo è tutto sommato normale per un pittore come lui – ma proprio per una sensibilità squisitamente cinematografica. Video come “Apice” o “Miserere”, inoltre, sono esemplificativi non solo della sua cifra stilistica, ma anche della sua abilità di montatore. Matarazzo riesce perfettamente a combinare insieme l’elemento sperimentale, quello narrativo e quello documentaristico (attualmente sta realizzando un documentario prodotto da Luigi e Aurelio De Laurentiis), proprio grazie alla capacità di manipolazione info-grafica, che non si risolve tanto nella gamma di effetti speciali offerta dai software di post-produzione, ma in una consapevolezza visiva e in un’abilità tecnica propria di chi ha a lungo lavorato in pittura prima di appropriarsi dei dispositivi multimediali. Nelle sue ultime installazioni come “La Posa Infinita” o “Motus” – sulla quale sta attualmente lavorando e che presenterà alla prossima Biennale di Venezia – l’artista avellinese ha condensato una serie di elementi del suo universo poetico, estetico, concettuale e tecnologico, inaugurando una nuova fase della sua ricerca. Tentiamo di capire di cosa si tratta:
Nell’installazione “Motus” che hai concepito per la Biennale di Venezia utilizzi cornici digitali, dunque un particolare dispositivo che hai adoperato già in altre occasioni, anche per lavori che implicano una relazione tra immagine fissa e immagine in movimento. Stavolta però il tuo intervento sarà di tipo diverso puoi spiegarci in cosa consiste e come è strutturato l’ambiente?
Nelle installazioni come “La posa infinita” ho fatto uso del medium fotografico per poi sovvertire, avvalendomi di speciali software, la natura stessa della fotografia introducendovi suoni e movimenti e ipotizzando in questo modo l’istante immediatamente precedente allo scatto del fotografo, in cui l’attesa dei personaggi ritratti, come il titolo del lavoro suggerisce, si dilata all’infinito. Nel caso di “Motus” in un certo senso avviene il processo inverso. Intanto i soggetti non vengono dal passato remoto, essendo ritratti di persone viventi ottenuti utilizzando una videocamera in uno studio di posa fotografico. Essi vengono però costretti ad uno stato di prolungata immobilità, come imprigionati all’interno della cornice che ne delimita i volti. In questa condizione non fanno altro che percepire ossessivamente le sensazioni della propria natura biologica (freddo, caldo, mal di testa ecc.). Contemporaneamente, ma in un diverso livello di coscienza, essi sviluppano pensieri e concetti più complessi, di natura più marcatamente esistenziale, difficilmente attribuibili a questo o a quel soggetto. Pensieri e parole saranno ugualmente percepibili in una sorta di delirante monologo collettivo. Inoltre una ritmica roteazione dei volti darà luogo ad un interscambio dell’identità dei vari personaggi, permettendo il passaggio di ognuno di loro dall’una all’altra cornice.
Riguardo i pensieri formulati dai vari personaggi devo dare atto ad uno dei miei più cari amici, lo scrittore e poeta Franco Arminio, di avermi aiutato in questa impresa offrendo il necessario supporto letterario.
Mi pare di capire che il suono riveste un ruolo importante, sotto forma di parola, di frase frammentata da attribuire ad un corpo. Ma l’equivalenza tra suono e segno è incerta, ambigua, in questo senso rimanda anche al concetto della perdita d’identità…
Questo lavoro nasce da una domanda e da una considerazione, la domanda riguarda l’irripetibilità dell’individuo (in-divìduus= indivisibile), la presunzione di unicità e di originalità che è alla base di ogni personalità. L’idea che il proprio universo esistenziale costituisca l’essenza della propria natura. Eppure se pensiamo a quanto gli uomini hanno da dirsi in un ascensore, per fare solo un esempio banale, notiamo tutta una serie di comportamenti che sono comuni tanto all’aborigeno quanto al manager della City. L’interrogativo che pone questo mio esperimento sta in cosa consista tale straordinarietà, al di là delle risposte comportamentali e psicologiche, spesso compulsive, determinate dall’ambiente.
Il ruotare di questi corpi simboleggia l’idea di trasformazione ma è associabile anche alla rotazione dei corpi celesti, dei pianeti, come se l’evoluzione umana, i cambiamenti dei singoli individui fosse legata all’architettura cosmica…
La considerazione è proprio questa, cioè che l’individuo sia una parte, un frammento di un Tutto e che a questo continuamente aneli, sviluppando così la propria sofferenza biologica ed esistenziale, anche se questa sofferenza prende poi varie forme e significanze. Sottraendo senso al senso provo ad ipotizzarne uno in una direzione cosmica, comica, e corale.
Tutto questo mi fa pensare a Beckett…
Come sai ho realizzato altri lavori che con Beckett avevano a che fare, come “The Fable” e “4B movie”, o “La Camera Chiara” che aveva a che vedere con Barthes, ma nei miei esperimenti non penso mai ad un autore, casomai è dopo che trovo la concomitanza o magari me la suggerisce un altro. Non è una presunzione… è che siamo frammenti.
Parlaci un attimo del contesto in cui la tua opera sarà vista, ovvero fa parte di una esposizione collaterale della Biennale.
Si tratta di un progetto vasto e ambizioso ideato da Elisabeth Gluckstein e Gabriele Perretta che vanta una partecipazione di artisti di altissimo livello e che coinvolge oltre 30 siti disseminati in tutta la laguna. La mia installazione sarà visibile a Molino Stucky, uno tra i siti più fortunati, ma preferirei che ad addentrarsi nei dettagli siano gli organizzatori o i curatori della manifestazione.
Come ti collochi nel panorama degli artisti italiani che fanno uso di media? Voglio dire, immagino che la definizione “videoartista” sia limitante per te, ma allo stesso tempo il tuo approccio al medium digitale è piuttosto complesso ed elaborato, all’insegna di una consapevolezza che spesso manca agli altri artisti.
Come tanti, temo di avere la presunzione di non essere collocabile, anche se ciò rimanda alla frammentarietà di cui sopra. La mia è una consapevolezza che agisce sotto traccia e solo a costo di grandi sforzi diventa parzialmente divulgabile.
(intervista di Bruno Di Marino per “Art a Part of Culture”, maggio 2009)
Com’è nata l’avventura di Miserere? Perché Luigi, Susy e Armando, hanno scelto proprio lei per raccontarsi, invece di contattare un autore dal taglio più documentaristico e sociale? Forse sentivano il bisogno di far emergere la loro totalità di persone piuttosto che la limitatezza del loro handicap?
Luigi mi contattò in seguito ad una mia intervista su Raitre, in cui venivano mostrati i miei dipinti sulle malformazioni. Luigi è una persona colta, molto sensibile ad ogni forma d’arte, attivo nel sociale per il suo impegno in una comunità di tossicodipendenti, ma indifferente alle strette problematiche dell’handicap motorio. È giusto e normale che si senta una persona prima ancora che un disabile.
Cosa intende quando dice che “l’estetizzazione del brutto o dell’handicap in qualche modo forza l’assuefazione percettiva, avvicinandoci alla vera bellezza”? Il concetto di “vera bellezza” lo collega al significato ontologico che l’arte ha assunto nelle estetiche contemporanee, come ricerca della verità ultima del reale?
Secoli di classicismo ci hanno abituati all’idea che la bellezza abbia dei canoni rintracciabili nella corporeità, in realtà ai tempi dei greci e dei romani l’altezza media di un uomo, ad esempio, non superava il metro e cinquanta, di qui la forza dirompente delle loro sculture che inneggiava alla bellezza degli Dei più che a quella degli uomini. Essa ha quindi un valore metaforico, convincente in quanto si approssima alla realtà del corpo, ma fuorviante. La bellezza in realtà ha una madre che è l’armonia, questa non è vincolata da canoni e va rintracciata in una serie di fattori che non escludono il corpo, ma lo subordinano ad un insieme di equilibri.
Miserere, come quasi tutti i suoi video, è stato sottoposto ad un intenso lavoro di postproduzione. Che tipo di supporto tecnico ha utilizzato, si è servito solamente di Final Cut, o ad esso ha affiancato altri programmi specifici?
Per raggiungere un risultato ogni mezzo è lecito. Photoshop è indispensabile, ma anche Morph e altre diavolerie.
Mi parli un po’ della “carovana” di Miserere, se non ho capito male consiste in una serie di concerti, in tutta Italia, durante i quali viene proiettato anche il suo video. Se è così che effetto le fa vedere la sua “creatura” muoversi sulle proprie gambe, avere una vita autonoma? Mi sembra un aspetto che dia un valore aggiunto all’intera esperienza.
Le prime volte in cui vedevo il video proiettato durante la performance di Canio Loguercio provavo disagio nel sentire il suono in asincrono, lo schermo non ottimale ecc., ma a ben guardare, anche senza la loro giusta collocazione rispetto alla musica, le immagini non subiscono significativi stravolgimenti, quindi ora sono molto meno apprensivo. Come si può vedere sul sito www.miserere,info, il progetto si avvale di collaborazioni che provengono un po’ da tutti gli ambiti artistici: dalla letteratura – con scrittori come Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri, Rosaria Lo Russo, Lello Voce – alla musica (Paolo Fresu, Rocco De Rosa, Maria Pia De Vito), al video. Persino l’arte ha un proprio ruolo: l’ultimo concerto durante la Notte Bianca al Palladium di Roma era introdotto da una mia installazione. Presto in libreria sarà in vendita un libro-cofanetto che contiene tutti questi interventi compreso un DVD con il video.
Come lei stesso ha evidenziato Canio Loguercio interpreta il ruolo del “salvatore” che riesce a liberare i penitenti dal limbo del purgatorio e li conduce verso la salvezza. Tuttavia è una salvezza apparente, impossibile, visto che nelle ultime immagini della processione è lui a seguire la carovana dei disabili, e non viceversa. Nonostante lei dica che il suo è “un messaggio positivo”, dal momento che immagina una “circolarità a spirale” come quella del purgatorio, a me sembra invece una rappresentazione pessimista della vita: nonostante l’uomo cerchi di espiare i suoi peccati e tenti la via della redenzione, tuttavia, inevitabilmente, è costretto nella circolarità della sua esistenza (pale eoliche). Cosa pensa a proposito?
Penso che la libertà è possibile e impossibile ad un tempo. L’esistenza stessa è la vera condanna, tuttavia ci sono condizioni che paradossalmente favoriscono una maggiore libertà interiore. Come si vede nel video i disabili continuano ad esser tali, ma si emancipano dalla necessità di una redenzione, lasciandosi dietro la guida non vedente.
L’unica salvezza possibile è l’innocenza dell’infanzia, la sua purezza? Questo sembra dire con la scena finale in cui il “salvatore” si spoglia, letteralmente, del suo ruolo e si trasforma nella bambina.
L’infanzia è purezza, non innocenza, nessuno è innocente, i bambini lo sono ancor meno. Gli adulti che si comportano come i bambini hanno seri problemi con la giustizia. L’innocenza è possibile solo nell’immobilità, l’immobilità è triste, invece il bambino è uno che se la ride.
Ci sono molti riferimenti simbolici nel suo video. Ad esempio la rana d’argento, il bastone, il continuo riproporsi, spesso in sovrimpressione, del moto delle onde, il colore nero che definisce i suoi personaggi. Mi può dare una chiave di lettura di questi elementi? Per offendere qualcuno per la sua bruttezza diciamo che è un rospo, un ranocchio, nel mio caso la rana è d’argento. Ma è semplicemente un bel soprammobile che ho a casa, qualcosa che avevo sottomano. Quando faccio una cosa non mi pongo il problema di cosa deve significare, sono in un vortice in cui mi servo di tutto ciò che capita, quasi sempre sono le cose giuste.
La bombetta di Luigi mi ha richiamato meccanicamente alla mente l’esperienza surrealista di Magritte, per il quale “l’uomo con la bombetta è un uomo ordinario”. Lei l’ha fatta indossare al suo personaggio perché diventasse icona della condizione umana?Stesso discorso, avevo questo cappello e ho trovato che in testa a Luigi fosse perfetto, in più gli conferiva un’aria da capobanda, l’ho poi ripreso in pittura nella serie “Frames” inspirata a “Miserere”, in quel caso il riferimento all’icona di Magritte è forse ancora più evidente, ma non intenzionale.
Altre sono state le corrispondenze che ho trovato con l’opera del pittore belga, soprattutto a livello di input visivi. Le porto alcuni esempi: la scena in cui Loguercio, mentre cammina sul molo, diventa una sagoma, una finestra vuota da cui scorgere il paesaggio mi ha richiamato alla mente il dipinto Decalcomania ; gli occhi di Armando, quasi sempre in sovrimpressione all’immagine del mare, mi hanno invece ricordato il Falso specchio ; ancora comune a entrambi è l’ampio spazio che viene lasciato al cielo nel quadro/inquadratura, quasi sempre carico di nuvole, quasi mai minaccioso. Cosa pensa di queste suggestioni, ci sono o è soltanto una mia impressione?
E’ vero, non ricordavo quel quadro (“Decalcomania”), il paragone è obbligatorio. Sono i casi del linguaggio artistico, o forse i dilemmi. Niccolo Vivaldi, musicista frustrato interpretato da Lando Buzzanca nel fim “Il Merlo Maschio”, è convinto di essere autore dei suoi brani, fino a quando scopre di star in effetti eseguendo partiture di Rossini, Antonio Vivaldi ecc. che aveva memorizzato durante gli studi. In ogni caso il prodotto artistico non può non risentire dell’insieme di suggestioni che abbiamo capitalizzato con tutti i nostri sensi.
In una delle sequenze che ritraggono i disabili in circolo, ognuno di loro fa dei segni con le mani. Sono segni casuali, legati al ritmo della musica, o sono gesti che nel linguaggio dei segni acquistano uno specifico significato?
Nessun significato, tutti quelli possibili…
(intervista di Sara Panattoni per una tesi di laurea specialistica in “Cinema, teatro, produzione multimediale“, Università di Pisa, settembre 2006)
10 SECONDI, di A. Matarazzo: intervista all’artista ⇒
Certe volte internet serve a qualcosa (!). Ad esempio se volete conoscere le opere di un artista, sia pure attraverso un’esperienza mediata da un monitor e da dimensioni ristrette, siete “liberi” di farlo. Soprattutto se si tratta di un artista che non solo comprende l’importanza della comunicazione e promozione della propria produzione attraverso il canale della rete, ma include nella propria ricerca concettuale e tecnica l’esplorazione e il superamento dei confini tra province estetiche e formali diverse, quali la pittura e il video.
Antonello Matarazzo è noto ai lettori di Shortvillage per diversi video (“Astrolite”, “Wahr” e “Miserere”, documentati dalle relative interviste dell’archivio articoli di Shortvillage). Sul suo sito, www.antonellomatarazzo.it, è possibile seguire invece il suo percorso artistico, che testimonia la sua avventura nel mondo del mostro. Il mostro è un’immagine/concetto che ha sempre stimolato l’arte visiva e narrativa; il mostro è al centro delle scritture bibliche come monito per l’uomo a non contrapporsi alla creazione e al volere di Dio. Il Frankenstein di Mary Reilly è la testimonianza letteraria dell’impulso umano a superare i limiti imposti da Dio. Il mostro come paradigma del lato oscuro dell’uomo, dei suoi aspetti negativi (pensate agli studi del Lombroso che pretendevano di svelare la malvagità delle persone attraverso l’individuazione di caratteri spropositati nel volto). Il mostro come contrario del bello, del buono e del sano. Il mostro come paradigma della diversità, del prodigio. Nel caso della mostra “10 secondi” il mostro protagonista è la disabilità.
Che passaggi hai operato perché il video “Miserere” diventasse la mostra “10 secondi”, in modo tale che sia un opera compiuta, pur se derivata da un lavoro diverso, come è il video?
Per me non dovrebbero esserci zone di confine tra i linguaggi artistici. L’arte è una menzogna allo stesso modo di una fiction cinematografica, una bugia necessaria a raggiungere il cuore delle cose. A questo scopo, tutti i mezzi di comunicazione sono leciti. Io mi servo di tutto indifferentemente, seguo un percorso, un po’ come fa un cieco, o un cane da tartufo. Per riconoscere il DNA è necessario uno sguardo che va oltre la pelle dell’opera. “10 secondi” è figlia di “Miserere”, anche se non gli somiglia. La falsa idea che l’arte deve essere riconoscibile spinge ad auto-determinare uno stile che è la tomba dell’artista, il suo imborghesimento. Ciò che è riconoscibile in un certo senso è già morto.
Rispetto alle tue precedenti “serie”, in cui la mostruosità era imprigionata entro i confini di una cornice, oppure ulteriormente deformata dal filtro del vetromattone, in “10 secondi” sembra che tu abbia ricercato altro… mi viene in mente, ad esempio, il ruolo giocato dal colore, che nelle opere precedenti è presente in maniera meno importante.
Il video in un certo senso ha restituito vigore e naturalismo alla mia ricerca pittorica che rischiava di arenarsi nelle secche del concettualismo. Il video è anche un’esperienza paesaggistica, ti costringe a guardare il mondo, a fare i conti con la luce, con lo spazio e, ovviamente, con il colore. Quest’ultimo è tornato di prepotenza nell’ultimo lavoro. Ma c’è anche un aspetto contingente e funzionale che riguarda il modo di interagire del lavoro dentro lo spazio in cui è collocato e per il quale è concepito. Ogni opera è erede della precedente, ma ha anche una propria ragion d’essere che la rende unica.
Vuoi “raccontarci” in che modo si articola la mostra, allestita alla Changing Role, in che modo, cioè, sono posti in relazione i tre livelli semantici della video sequenza di Miserere, i dipinti e il disabile che esce fuori dalla cornice dell’opera?
Oggi non è possibile rimanere confinati dentro una cifra stilistica o anche soltanto tecnica. Le tecnologie al servizio dell’arte sono aumentate a dismisura, non si può non prenderne atto. Non avendo, però, alcuna intenzione di lasciarmi soggiogare dalla fascinazione delle tecnologie, cerco di piegarle a linguaggi che in un certo senso non gli sono propri.
“10 secondi” ruota intorno alla realtà personale di uno dei protagonisti di “Miserere”. Ho focalizzato l’attenzione su una particolare sequenza del film, che dura circa 10”, dipingendo su tela altrettanti fotogrammi, con una definizione fotografica al limite dell’equivoco. Ho poi messo in relazione tutto ciò con la presenza vivente dell’attore in atto di sfogliare un suo vecchio album fotografico, inscenando così una sorta di “truffa semantica” in cui realtà e finzione si accavallano e si confondono. Questo equilibrio traballante fa scattare qualcosa nella sensibilità dello spettatore, lo traghetta fuori dall’assuefazione dei linguaggi specialistici.
L’inaugurazione della mostra si è avuta pochi giorni fa… che tipo di reazione ha avuto il “pubblico”?
La gente ha reagito bene, si è lasciata coinvolgere dal flusso incrociato delle immagini manifestando crescente interesse. L’unico problema è stato dissuaderla dal rivolgere la parola all’installazione…
(intervista di Roberta Lucianetti per “Shortvillage”, maggio 2006)
Intervista con Antonello Matarazzo ⇒
VIDEO E PITTURA
Come e perché sei arrivato ad usare il video per la prima volta?
Quando realizzai il mio primo lavoro, “The Fable”, sei anni fa, mi adeguai, per così dire, alla richiesta del curatore di una mostra che prevedeva la presenza di video, video installazioni ecc. Pensavo che si trattasse di un momento isolato, senza futuro, purtroppo mi divertii molto.
Quanto conoscevi della tecnologia video quando hai cominciato, e in che maniera puoi descrivere il percorso creativo intrapreso sino ad oggi?
Tanto quanto ne capivo di telescopi: meno di zero. Ancora oggi non sono di quelli che portano la videocamera ovunque, filmare mi annoia terribilmente, trovo che gli occhi siano la tecnologia migliore per registrare la realtà. In ogni caso se da una parte la videocamera consente di mettere il mondo in un videotape, dall’altra la tecnologia digitale ha delle peculiarità che permettono di modificarlo a piacimento, questo è senz’altro il momento più stuzzicante. L’ingresso nel villaggio dei video-muniti mi ha aperto una voragine di problematiche tecniche e linguistiche con le quali mi sono molto “svagato” negli ultimi anni. All’epoca non avevo idea neanche di come si avviava un computer, ora anche la mia pittura risente di questa esperienza.
In che modo lo spostamento dal disegno e dalla pittura al video (e ritorno), pratica che compi regolarmente, ha influito sulle tue opere? C’è una preferenza tra i due mezzi?
Uno dei pregi della videocamera è di essere, in un certo senso, un’esperienza paesaggistica: ti costringe a guardare il mondo, a fare i conti con la luce, con lo spazio e con il colore. Quest’ultimo, ad esempio, è tornato quasi di prepotenza nella pittura. L’esperienza con la tecnologia paradossalmente ha restituito vigore e naturalismo alla mia ricerca pittorica che rischiava di arenarsi nelle secche del concettualismo.
Il video e la pittura (nel tuo caso) seguono canali di comunicazione e “promozione” diversi e per certi versi distanti. Come ti rapporti al mondo dell’arte e del cinema (o meglio del video) e nei confronti della critica?
Mah, è difficile immaginare un campo, politica e calcio a parte, in grado di attrarre una tale quantità di dubbie professionalità come quello dell’arte. Neanche quello del video è idilliaco, però rispetto all’altro ha il vantaggio di una maggiore consapevolezza dei ruoli, delle gerarchie e dei limiti. Per certi aspetti il video batte addirittura l’arte in proliferazione autoriale, la differenza sta nel fatto che nell’arte molti occupano le copertine, mentre nel cinema è meno frequente. Ci sarebbe da fare una distinzione tra video artisti, video maker e cineasti… ma chi la fa? Pur non essendo un cineasta ho dovuto molte volte avvalermi di collaboratori, anche questo è un aspetto molto divertente, ho scoperto ad esempio di avere inclinazioni che hanno più a che vedere con l’imprenditorialità che con l’arte, così ho avuto modo di estendere notevolmente la sfera dei rapporti umani e professionali, molti dei quali sconfinano nel cinema. Ad ogni modo l’incursione nel mondo del video è avvenuta secondo regole mie, le quali hanno a che fare più con l’espressione che con il mercato. La critica, finora devo dire piuttosto favorevole, sembra me ne dia atto; purtroppo questo è un limbo in cui non si può resistere ad oltranza, non c’è una vera e propria industria che se ne occupi e ciò, se da un lato favorisce la spontaneità, dall’altro obbliga a fare delle scelte.
TEMI E FORMA
Il corpo e il volto sono al centro della tua opera. Un’attenzione mai esteriore che scava al contempo nella caratterizzazione psicologica del soggetto. Qual è la chiave di lettura che dai a questa corporeità?
Il corpo è una fonte inesauribile di ricerca, in esso, per antinomia, è possibile rintracciare la chiave di lettura dell’incorporeità. Lo sguardo, ad esempio, può avere una potenza terrificante: possiamo guardare le cose della natura con serenità, talvolta con commozione, ma non riusciamo a dissimulare a noi stessi il disagio che ci produce una semplice occhiata, l’abisso di sensazioni che ci apre la profondità di uno sguardo. Non per niente Roland Barthes avrebbe voluto “una storia degli sguardi…”.
Il tuo linguaggio visivo ha un forte impatto sullo spettatore (penso al corpo offeso, mostruoso, deforme, ortopedizzato) mai presentato però in forma retorica o politically correct: quali sono i motivi per cui ricerchi questo potere d’urto e suggestione?
Il politically correct è uno dei modi di dichiarare la propria brutalità: se si ha paura delle proprie idee vuol dire che non sono un granché. Credo ad un linguaggio artistico senza mediazioni, come percorso di esperienza e conoscenza. In un certo senso l’arte, attraverso un processo d’immedesimazione, mi fornisce lo strumento per “sperimentare” una particolare condizione senza farmi molto male. Più che l’esperienza del dolore, mi interessano i segni che lascia sul corpo, il vuoto pneumatico e impenetrabile che determina negli sguardi, tutte tracce da ripercorrere a rebour .
Il tuo approccio alle “immagini in movimento” è di tipo più narrativo che prettamente visivo e fotografico, pur avendo grande attenzione a questi aspetti. Non hai mai pensato di utilizzare il mezzo in chiave esclusivamente astratta?
Picasso nel riferirsi all’astrattismo diceva che è un po’ come “una casa vuota”. Ogni espressione artistica nasconde però un impulso narrativo, una coazione a narrarsi.
In “La camera chiara” hai usato il morphing come nella serie grafica “Innocenti” hai usato una lente di plexiglass deformante con un una nozione/funzione di fluidità molto particolare. Che significato dai all’uso di questi particolari accorgimenti?
In pittura era la lente, nel video il morphing. Indubbiamente esiste una continuità tra le due ricerche, non solo estetica. E’ come se tra me e la realtà ci fosse una sorta di diaframma, la percepisco come una rifrazione. Credo che in tutte le cose ci sia doppiezza e enigmaticità, qualcosa di sublime e inaccessibile: tutto è vicino e straordinariamente distante allo stesso tempo.
I tuoi lavori video appaiono molto curati nei dettagli e nell’elaborazione post-produttiva. Qual è il percorso che intraprendi nelle opere: idea, scrittura, riprese, post-produzione. Puoi fare qualche esempio specifico pescando dalla rassegna pesarese?
In fondo nessuno mi corre dietro, quindi, avendo tanto tempo da perdere, lo dedico alla cura dell’immagine, cercando se possibile di evitare svenevolezze e virtuosismi. Ma non è solo questo, la fase di post-produzione per me è la più significativa, in questa fase l’idea prende forma e senso, per ciò che riguarda tutto quello che viene prima in genere mi affido all’intuito. Alcuni lavori, “Mi Chiamo Sabino” ad esempio, sono nati dal caso, semplici riprese amatoriali risistemate in fase post-produttiva. Altri, come “Miserere”, un progetto ce l’hanno, ma è solo dopo le riprese che esso ha preso corpo, fino a diventare un videoclip musicale nella versione di 8′.
Quanto è importante il titolo nell’opera che realizzi e in che modo arrivi ad attribuirlo?
Dipende dal lavoro, alcuni, come “La Camera Chiara”, “Warh” o “En plain air”, sono frutto di citazioni artistico-letterarie, altri sono concetti che suggerisce il video nel suo insieme, come “Lovers”. In qualche caso mi affido al distacco di persone alle quali faccio vedere il lavoro. Non amo i titoli lunghi o molto esplicativi, per me il titolo deve racchiudere un che d’enigmatico che stimoli la curiosità. Alle volte è l’ultima cosa, anche se non per questo la meno importante.
Il suono/musica nei tuoi video: quale importanza e attenzione rivolgi ad essi ripercorrendo la tua videografia?
La musica è fondamentale al punto che spesso è questa a determinare ritmo e senso del lavoro. Anche se non sempre la musica più calzante è anche quella più efficace, ad esempio le composizioni di Fabrizio Castanìa, conferiscono ai miei video un anomalo clima hollywoodiano che ne amplifica il senso di straniamento.
COLLABORAZIONI E FUTURO
Il video “Astrolìte” – realizzato con C. M. Schirinzi – è un lavoro denso e complesso: com’è nato e come avete lavorato insieme?
“Astrolìte” nasce dalla comune conoscenza con Enrico Ghezzi che abbiamo coinvolto in questo progetto nato un po’ per gioco. L’idea era ricostruire l’atmosfera di un fumetto degli anni ’70, “Alan Ford”, in cui Ghezzi sarebbe stata la mente mediatica di uno sgangherato gruppo di personaggi nel ruolo trasfigurato di se stesso. E’ un video articolato su due livelli semantici, l’uno comico e fumettistico, l’altro concettuale e visionario, tra l’altro vede anche la partecipazione del teorico del “Medialismo” Gabriele Perretta, a sottolineare la natura concettuale dell’operazione. E’ un buon lavoro anche se risente di una certa macchinosità.
La collaborazione con altri artisti è frequente nel tuo lavoro: com’è nata e come procede la collaborazione con il musicista Canio Loguercio?
Ho conosciuto Canio durante un concerto. Mi colpirono molto sia il personaggio che la musica, ma quando decisi di coinvolgerlo in un cortometraggio lo chiamai per interpretare un ruolo. Nel raccontargli la mia idea vedevo che s’illuminava, il perché fu presto chiarito dal momento che, neanche a farlo apposta, lui stesso stava lavorando ad un progetto musicale quasi identico a quello che avevo formulato. Ora “Miserere” è il videoclip dell’album omonimo e viene proiettato durante i suoi concerti, inoltre nel prossimo ottobre verrà prodotto un cofanetto, in vendita nelle librerie, che conterrà il cd, il dvd e un cartaceo con testi di Gabriele Frasca, Tommaso Ottonieri e altri significativi scrittori contemporanei che hanno collaborato al progetto.
Cosa bolle nella pentola creativa di Antonello Matarazzo?
Al momento sto portando avanti un nuovo ciclo di opere “fisse”, talvolta si integrano con dei video confluendo nelle cosiddette video installazioni, ma penso anche a dei video autonomi… ci penso, ci penso.
(intervista di Tommaso Casini per la “42a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema”, Pesaro, giugno 2006 – cat. Pesaro FF 2006)
Secondo Lei il cinema ha modificato nel corso del tempo il suo modo di trattare l’handicap, se sì in che maniera?
Il film di Tod Browning, Freaks, del ’32, faceva un uso spregiudicato di persone affette dalle più disparate malformazioni, e provocò un vasto movimento d’indignazione, tanto che fu censurato dopo poco, anche se l’obbiettivo che tale lavoro si proponeva era non già il puro intrattenimento, ma la denuncia dello sfruttamento dei “fenomeni da baraccone” da parte dei “normali”. Tuttavia si fa una certa fatica a credere che, nel progetto complessivo, autore e produttore non abbiano valutato il forte impatto che avrebbe avuto il far mostra di tali deformità, e così un film, tutto sommato mediocre, di un autore che non ci da altre significative ragioni per ricordarlo, è passato alla storia. Oggi probabilmente invece di utilizzare dei veri freaks ci affideremmo agli effetti speciali, si eviterebbe la censura, ma il succo della questione sarebbe lo stesso.
Secondo Lei esiste tutt’ora il rischio di una strumentalizzazione dell’handicap per creare un effetto di commiserazione o di ridicolizzazione a favore del botteghino?
Il rischio è intrinseco, anche se spesso dipende dalla sensibilità di chi guarda il film. Ad esempio molti si sono commossi per Le chiavi di casa di Gianni Amelio, mentre a me è sembrato la quintessenza della strumentalizzazione (devo dire che in questo ho avuto il conforto del più cinefilo dei miei amici disabili).
Certamente se la disabilità viene utilizzata, diciamo in un contesto melenso in cui la lacrima è con ogni evidenza il genere di reazione che si vuole, qualche sospetto è lecito. E’ anche vero che nel cinema, come nell’arte e in tutto ciò che riguarda la comunicazione, ogni cosa si articola intorno al meccanismo della risposta: si fa mostra di questo e di quello con la consapevolezza che ciò genera un impatto emotivo, un forte impatto corrobora le aspettative dell’autore che per forza di cose coincidono con quelle del botteghino.
Quali sono, secondo Lei, i film che meglio rappresentano un modello per trattare questo argomento nella maniera più opportuna?
Sicuramente quelli che spostano la macchina da presa dalla parte della realtà personale del disabile, penso a Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rain man, Idioti di Lars Von Trier, o, in ambito di produzione indipendente, Piovono mucche di Luca Vendruscolo. Quei film, insomma, che ignorano il prevedibile e mieloso assioma del politicamente corretto e della solidarietà tout court, usando, se necessario, un linguaggio talvolta comico, talvolta crudo, ma che ci aiutano ad ampliarne davvero la nostra conoscenza attraverso la condivisione dei sentimenti dei protagonisti, buoni o cattivi che siano. In fondo è il modo in cui di solito preferirebbero essere trattati i disabili i quali – lo dico per esperienza – in primo luogo detestano atteggiamenti commiserativi, non motivati da affetto o da conoscenza diretta.
In che modo è possibile evitare di scadere nella retorica del politicamente corretto con tutti gli stereotipi buonisti e pietisti che la caratterizzano?
Appunto, con l’approfondimento di una vera conoscenza della condizione e la consapevolezza che prima di essa esiste la persona. E’ possibile incontrare uno spastico antipatico, un tetraplegico dotato di una grande sensibilità o uno più cialtrone e superficiale, proprio come avviene tra i “normali”. La conoscenza vera e diretta delle persone è senza dubbio un ottimo rimedio.
Qual è la differenza tra la rappresentazione dell’handicap del cinema americano e quella del cinema europeo?
Si dice che le persone anziane abbiano una certa naturale disposizione alle lacrime, possiamo allargare il discorso presumendo che in una società vecchia, com’è la nostra, la deriva verso la nostalgia e la commiserazione sia in qualche modo più marcata che in una società più giovane come quella americana, questo naturalmente investe tutta la produzione cinematografica, non solo quella che tratta di disabilità. Ma, anche se è difficile generalizzare, ritengo che una società più vecchia, più abituata alla tolleranza e alla conoscenza del prossimo, sia più qualificata per trattare con maggiore profondità determinati argomenti.
Che ruolo hanno i disabili nel suo ultimo lavoro Miserere?
Difficile parlare di ‘ruolo’ per un film privo di dialoghi ed essenzialmente musicale come Miserere, io ho lasciato che ognuno di loro si sentisse libero di esprimersi secondo la propria sensibilità, senza forzature attoriali. Ciononostante ho provato ad ‘iconicizzare’ i personaggi, facendone delle figure quasi eteree, astraendoli dalla necessità di una narrazione per tornare di colpo nel finale alla realtà della loro vita, presentata attraverso una cruda scheda personale, in sovrimpressione, per ciascuno di loro.
Com’è stato lavorare con persone affette da handicap, che rapporto si è creato con loro?
Prima di procedere alle riprese ho voluto incontrarli più volte, ho provato le loro carrozzine, ecc.. Ci siamo messi al lavoro solo una volta aver conquistato la loro piena simpatia ed essermi sentito dei loro. Dirigere dei disabili su un set cinematografico induce ad una determinazione in cui non c’è spazio per la compassione. Bisogna badare alle barriere fisiche e architettoniche e mettere al bando quelle psicologiche. Alla fine la soddisfazione maggiore è stata sapere di averli fatti divertire molto più di quanto ci sia riuscito io stesso.
La sua rappresentazione di carattere lirico-poetico può essere un’alternativa rispetto al canonico cinema narrativo, nel trattamento di temi sociali forti?
Lo è senz’altro, anche se non esistono linguaggi che siano più adatti di altri, è una questione di scelte e di sensibilità dell’autore.
La rappresentazione della sofferenza avviene in un contesto fortemente caratterizzato da elementi estetici e simboli “metafisici”. Potremmo azzardare che l’handicap stesso sia una metafora di un transito verso la bellezza assoluta e il divino stesso?
E’ quanto cerco di dire anche con la pittura, l’estetizzazione del brutto o dell’handicap in qualche modo forza l’assuefazione percettiva avvicinandoci, secondo me, alla vera bellezza.
Quali sono gli elementi che evitano che il realismo sfoci in un freddo documentare la realtà in maniera distaccata?
Dipende da ciò che si vuol fare, se si è alle prese con un’opera di semplice divulgazione allora ci si basa soprattutto su una documentazione severa e un’attenta analisi. Se invece il lavoro in questione si propone una sensibilizzazione di natura estetico-conoscitiva l’approccio cambia a favore di un atteggiamento che ha a che vedere più con l’amore che con la ricerca. Questo non significa evitare di ragionare, proprio perché l’amore è una forma di conoscenza sublimata.
Il tema della deformazione e della diversità è fondamentale nella sua ricerca estetica. Ci spiega i motivi e le tappe di questa sua indagine?
I motivi che ci inducono ad occuparci di una cosa anziché di un’altra spesso sono riposti in tali profondità da vanificare il tentativo di sviscerarli. In ogni caso tra le possibili chiavi di lettura proverò a citarne due: la prima si riallaccia ad una ricerca di carattere filosofico che mette in discussione il concetto della bellezza legato all’estetica, l’altra più legata ad una riflessione di carattere sociale, in entrambi i casi mi propongo di riportare alla luce ciò che normalmente viene rimosso.
Che cos’è per Lei l’estetica?
Vale la stessa definizione dell’amore: una forma sublimata di conoscenza, per me è appunto uno strumento di ricerca. L’estetica non è un prodotto; un bel film o un quadro servono solo a traghettare il proprio sentire verso forme che la natura da sola non può produrre, la bellezza ha in sé qualcosa di misterioso che difficilmente si rivela, coincide con quella terrena solo simbolicamente.
Quali sono le emozioni che intende suscitare nel pubblico quando rappresenta soggetti deformi o handicappati?
I soggetti dei miei quadri spesso sono solo simulacri di un concetto di dolore o di mostruosità che trova applicazioni anche fuori dal corpo, in questo caso la percezione di ciò che è bello e ciò che non lo è cortocircuita a favore di una riflessione più profonda sul concetto di bellezza.
Nel caso di Miserere la questione è leggermente diversa. Ho avuto in questo caso un rapporto di maggiore compenetrazione con quello che è evidentemente un problema appartenente alla sfera personale, prima che sociale. Questo risulta evidente in un film per certi aspetti commovente, se vogliamo, ma che affronta il problema in maniera verticalmente trasversale. Mi confortò molto il parere di una mia amica attrice la quale, dopo averlo visto in un festival, ebbe a dire che era la prima volta che in una rappresentazione i disabili le apparivano come persone che hanno qualcosa in più, non in meno.
Che cosa intende per “Medialismo”?
Il termine, coniato dal teorico del movimento Gabriele Perretta, si applica soprattutto per quanto attiene al progressivo accorciamento delle distanze tra i vari mezzi di comunicazione, in cui anche l’arte si trova coinvolta, con il conseguente appiattimento della figura dell’artista verso ruoli di minore rilevanza individuale, ma a favore di una maggiore responsabilità politico-socio-culturale. Per me equivale ad espropriarmi, ove possibile, delle mie dinamiche esistenziali, nella speranza di allargare il più possibile gli orizzonti comunicativi del prodotto artistico
(intervista di Gaia De Angelis per una tesi di laurea in “Scienze della Comunicazione”, Università di Salerno, febbraio 2006)
Nel tuo passato ricordiamo una ricca produzione pittorica dalla cifra stilistica chiaramente riconoscibile. Quanto c’è nei tuoi video della tua pittura?
Spero che la mia produzione pittorica non sia solo da ricordare dal momento che è tutt’altro che interrotta. Tuttavia mentre la pittura è andata via via allontanandosi dal suo specifico, in una sorta di gioco di rimandi intellettualistici, rinnegando il proprio stesso linguaggio, con il video ho ritrovato quel piacere che ti dà l’odore di un tubetto di colore appena aperto. Non sono interessato al video come protesi tecnologica della pittura, esso mi apre altre prospettive, mi consente oltretutto una rinnovata osservazione della realtà nelle sue fenomenologie di significanza, forma, colore. Dentro di noi c’è una moltitudine di entità in continua mutazione, esse possono aver bisogno dei mezzi più svariati per affermarsi ognuna con il proprio specifico. Il video consente ad un’altra parte di me di dire la sua. Ritornando alla tua domanda provo a ribaltarla confessandoti che nella mia pittura più recente (ancora inedita) c’è un poco dei miei video.
A cosa è dovuta, sia nella tua produzione pittorica che in quella video, la deliberata deformazione della realtà e quello che potrebbe essere definito un realismo mediato? Deriva forse dall’insoddisfazione nei confronti della realtà così com’è?
E’ anche vero che c’è un’essenza alla quale non si sfugge e forse, nonostante i miei sforzi nel tenerli separati, questi linguaggi tradiscono un seme comune che li mantiene uniti come cugini. Non credo esista un’artista soddisfatto della realtà, se lo fosse sarebbe egli stesso un’opera, le opere servono a dare per un attimo l’illusione che la realtà è compiuta e rotonda, salvo ricredersi l’attimo dopo. Inseguire utopie è il nostro pane e la nostra condanna. Tuttavia questo sforzo costituisce la peculiarità dell’arte, essa non avrebbe senso se non aprisse prospettive sulle quali riflettere. Infine introdurre un diverso punto di vista ha anche la funzione intransitiva di liberare la percezione dall’ottundimento nel considerare la realtà come qualcosa di dato e immutabile. Non esiste la realtà in sé stessa, ma solo in quanto fragile accordo tra un insieme di punti di vista.
Quanto è importante, nel tuo lavoro, l’aspetto del ricordo personale combinato con la miscela di memoria collettiva, radici antiche e relazione con gli avi? Mi riferisco soprattutto alla tua attitudine nell’indugiare sui dettagli con un misterioso intento quasi di rimando a qualcos’altro.
Lo sguardo a ritroso è sempre un po’ come quello dell’angelo di Benjamin che guarda malinconicamente indietro mentre è costretto ad andare avanti, verso la catastrofe del futuro. Ma la memoria nei miei lavori non ha niente a che fare con la malinconia, né ha una funzione di archivio storico, è esattamente il contrario, tengo spalancato l’archivio mischiando dati e date in un flusso unico in cui il tempo non ordina le cose in un prima e un dopo, ma le fa ruotare vertiginosamente in una continua statica mutazione. Un’opera che parli solo di sé ha poca possibilità di confrontarsi con il tutto. Da questa consapevolezza scaturisce la necessità di evocare qualcos’altro, la circolarità dei rimandi conferisce all’opera fissa un movimento virtuale, abbraccia più stadi della mutazione.
Nel video “Miserere”, fai un paragone tra i flagellanti penitenti alla ricerca di espiazione e i protagonisti del video, condannati alla pena di essere immobilizzati sulla sedia a rotelle, senza che però abbiano nessun peccato da espiare. Qual è il tuo rapporto con la religione, anche nelle sue forme più aberranti, in relazione al contesto territoriale della tua città?
Ti confesso che inorridisco più di fronte ai tifi da stadio in piazza San Pietro, alle pratiche bigotte, che nei confronti di perversioni come quella dei battenti di Guardia Sanframondi, che a ben guardare un senso profondo ce l’hanno. Tuttavia il sud inteso come baluardo del paganesimo e della ritualità fatta in casa c’entra solo come fondale (rimando culturale) sul quale si svolge la scena. “Miserere” ha a che vedere con la religione come forma d’amore, esso non parla di handicap o meglio ne parla in senso traslato. L’handicap più grave è la nostra stessa condizione costretta a questa continua circolarità che dà solo l’illusione dell’avanzamento. Tuttavia ho voluto trasmettere un messaggio positivo immaginando una circolarità a spirale, come quella del Purgatorio dantesco, nella quale facciamo penitenza dei nostri presunti peccati solo per imbrogliare Dio affinché ci conduca fuori di qui una buona volta.
(intervista di Filippo Valsecchi per “Teknemedia”, giugno 2005)
Mail-intervista al contemporaneo Miserere
Nella società della comunicazione sembrano dominare alcune idee: Le cose esistono nella misura in cui si riesce a comunicarle e questo Antonello Matarazzo lo sa, lo può e ne fa la sua fortuna! Cataloghi, brochure e multimediali gli servono da cornice identificando il suo linguaggio con il mezzo. C’è infatti in atto un progetto di marketing (lavori multimediali, dvd, libri; vedi: www.miserere.info) che costituirà l’arredo di Miserere rendendolo così meno “documento originale” (qualora fosse quello l’intento) e più carovana itinerante creativo-promozionale.
Antonello Matarazzo videomaker e pittore mediale concede una mailintervista al bollettino socio-culturale A’KIAZZERA.
Al di là quindi della tua ricerca formale Antonello cosa cercavi in principio di dire con Miserere?
Quando comincio a lavorare su qualcosa non so con certezza cosa sto per fare, mi lascio guidare dall’intuito, il senso si determina quasi da s é strada facendo. “Miserere” è nato dalla determinazione di alcuni ragazzi disabili i quali mi chiesero di poter recitare in un mio film. Inizialmente non ero molto convinto della cosa perché avevo il terrore di imbattermi in cose tipo retorica del dolore o denuncia di barriere architettoniche. Siccome sono uno di quelli che per capire le malattie deve iniettarsi il virus, ho voluto prima incontrarli più volte, con le scuse più disparate, poi ho provato le loro carrozzine, ho imparato ad usarle ecc.. Ci siamo messi al lavoro solo una volta essermi sentito dei loro. Ora posso dire che “Miserere” si occupa di handicap in senso traslato, in realtà c’è molto di autobiografico. L’handicap più grave è la nostra stessa condizione costretta in una circolarità ossessiva, senza sbocchi, che dà solo l’illusione dell’avanzamento. Tuttavia ho voluto trasmettere un messaggio positivo immaginando una circolarità a spirale, come quella del Purgatorio dantesco, nella quale facciamo penitenza dei nostri presunti peccati solo per imbrogliare Dio affinché ci conduca fuori di qui una buona volta.
Gabriele Perretta (catalogo steak&steel e sul sito) dice che a lui Miserere appare come “la ratifica finale di una ricerca sul patimento, sul dramma e sul dolore che il videomaker manifesta, in maniera originale, sin dall’origine della sua attività”. Per la ragione d’essere quindi dei tuoi soggetti non credi che finirai di spoetizzarli rendendoli famosi magari?
Lavorare con Armando, Susy e Luigi è stato un vero privilegio e io ho aggiunto poco alla poeticità dei loro sguardi. Parliamo di persone dalla vita ricchissima, in qualche caso divenute disabili a causa di esperienze incredibili. A ritirare il premio al Festival di Palazzo Venezia c’erano anche loro, quindi hanno già fatto alcune prove tecniche di “gloria”, divertendosi molto più di me peraltro. L’opera per fortuna ha una vita propria, totalmente indifferente ai vezzi e ai clamori.
Senti che la tua arte sia impegnata politicamente? Cosa significa esattamente “il lavoro politico come una sorta di poetiqué de l’écran” ?
Bisognerebbe chiederlo all’er-mitico Gabriele Perretta dal momento che sono parole sue, tuttavia, provando a fare uno sforzo, credo che con “lavoro politico” si riferisca al messaggio socialmente forte di questo Miserere per piccoli schermi (écran), in contrapposizione a quelli teatrali, ma di contenuto più blandamente melodrammatico come il Miserere de Il Trovatore di Verdi. Sono apolitico dalla nascita, ma non mi è estraneo l’approfondimento di alcune dinamiche sociali.
L’originalità del tuo stile, in mia opinione, risiede soprattutto nella prospettiva (fotografica in special modo): di qui sembra trapelare maggiormente la tua sensibilità. E certamente da quella “immagine liquida” (da te definita) ottenuta bene dal mezzo che la rende impalpabile. Altro elemento che ti caratterizza è la deformazione (che è evidente soprattutto nelle tue pitture) dei tuoi soggetti. C’è un senso di significati oltre ad un tentativo formale?
Cerco di non pormi problemi di senso a priori, esso scaturisce direttamente dall’immagine che è scrittura, partitura e senso. Il mirino della telecamera e il quadrato della tela possono focalizzare solo una parte infinitesimale del mondo, in questa scelta c’è l’essenza di un’opera e l’identità dell’autore. La liquidità amniotica che contraddistingue i miei lavori è la stessa in cui si muove la mia coscienza, per non parlare della deformazione. Tuttavia un’opera che parli solo di sé e del suo autore ha poca possibilità di confrontarsi con il tutto. Da questa consapevolezza scaturisce la necessità di evocare qualcos’altro, la circolarità dei rimandi conferisce all’opera fissa un movimento virtuale, abbraccia più stadi della mutazione continua del mondo. L’arte non avrebbe senso se non aprisse prospettive sulle quali riflettere.
“Se il Miserere di Rouault è tradizionalmente cristiano-socialista, il Miserere di A.M. è post-tecnologico e post-Kantoriano con un leggero e sottile presagio cyber-archeologico”. Dunque Antonello questa definizione la senti appropriata?
L’ex Fabbrica di Bagnoli non è stata una scelta casuale. Anche riguardo il dolore, non sono interessato a questa particolare esperienza, ma al vuoto pneumatico e attonito che determina e che la segue, che assomiglia un po’ alle rovine industriali dell’Italsider. In questo senso “Miserere” è post-Kantoriano.
Tra i personaggi di Miserere c’è ne uno che rappresenta il “salvatore”, che fa da guida agli altri. Pensi che possa essere lui il più autobiografico (considerando tutti i tuoi video) dell’autore?
No, se c’è autobiografia essa riguarda semmai i disabili, quel personaggio rappresenta la purezza assoluta, io sono immerso e contaminato, non riuscirei a paragonarmi a Dio.
Perché Miserere in formato videoclip?
La versione breve da 8 minuti è il video musicale per il brano omonimo di Canio Loguercio, l’ex leader dei Little Italy, ora solista. Ho voluto confrontarmi a modo mio con questo genere e devo dire che il risultato è piuttosto soddisfacente.
Ciao Antonello
ciao
(intervista di Fabio Cinquemani per “A’Kiazzera”, giugno 2005)
intervista a Antonello Matarazzo e Canio Loguercio
Com’è nata la vostra collaborazione?
Antonello: Per il solito “caso”, non conoscevo Canio prima di un anno fa quando fui invitato da una comune conoscente ad una ‘cerimonia’ in cui officiava Canio Loguercio. Trovai performance e personaggio tanto interessanti che fui spinto da impulso irrefrenabile nel coinvolgerlo in un cortometraggio che da lì a poco avrei realizzato nello sfondo da archeologia industriale dell’ex Italsider di Bagnoli, a Napoli e tra le pale eoliche di Lacedonia, in Irpinia. Lui si sarebbe messo a capo di una specie di carovana costituita da disabili in carrozzina.
Canio: Il giorno dopo in cui conobbi Antonello andai subito a dare un’occhiata al suo sito web e pensai che prima o poi avremmo fatto qualcosa insieme. Quando mi chiamò per coinvolgermi nel suo progetto di cortometraggio pensai che mi chiamasse per delle musiche. Poi mi disse che mi voleva anche come ‘attore’ e nel raccontarmi la sua idea mi descrisse un progetto identico a quello che avevo formulato nella mia testa per il pezzo a cui stavo lavorando. Miserere, per l’appunto.
Antonello: Può sembrare incredibile ma nulla ancora potevo sapere del brano che Canio già andava preparando che poi ha dato il titolo anche alla versione più lunga del film.
Esistono due Miserere?
A: Una versione di 20 minuti con musiche originali di Canio Loguercio e Fabrizio Castanìa e il videoclip vero e proprio di 8 minuti.
Miserere é un progetto piuttosto articolato, com’é nata l’idea che ne é alla base?
C: Con Indifferentemente, il mio primo CD da solista, ho rimesso in gioco un po’ tutte le mie esperienze passate, musica, teatro, radio, scrittura, ecc.. Certo, fondamentalmente scrivo canzoni d’amore ma, considerato che dubito che da grande farò mai il cantante, mi piace costruire dei meccanismi ‘multimediali’ con cui misurarmi. Intendiamoci, niente di complicato, ma a volte fare le cose semplici non è poi così facile.
Immagini, musica e parole da portare tra la gente, come vivi la prospettiva di un contatto diretto con il pubblico?
A: Per Canio rappresenta una continuità più che una prospettiva, per quanto mi riguarda, e lo dico con invidia, non sono altrettanto portato all’esibizione, ma dato il mestiere che faccio (anche di artista), ho dovuto e voluto sempre avere a che fare con un pubblico che di solito è di quello che ti fa un sacco di domande mettendoti sotto torchio se una cosa non la capisce (in una galleria d’arte le persone entrano con il punto interrogativo tatuato sulla fronte). Un concerto è un’altra cosa, la gente è come dovrebbe essere, si lascia andare al flusso della musica e delle immagini. Questo per me oltre ad essere piacevole è l’esperienza che cerco. Al di sopra della poltiglia dei ragionamenti vorrei emozioni che lasciano il segno… credo che Canio sia uno degli interpreti più adatti a questo genere di cose.
C: Credo che per ogni artista sia fondamentale il contatto con la gente. Conosco uno scrittore che di nascosto va a sbirciare nelle librerie per spiare le persone che si avvicinano ai suoi libri. Personalmente più che al pubblico, penso alle persone, alla possibilità che ogni spettatore possa essere anche un attore dell’evento, parte attiva di un processo, di un rito.
Il progetto Miserere si avvale anche di un sito internet grazie al quale il pubblico può interagire con voi mandando contributi personali, come credi che possa svilupparsi questa”carovana”?
C: Infatti, come dicevo, il progetto Miserere si basa proprio sull’apporto della gente, si costruisce strada facendo. Prende corpo e si arricchisce grazie alle ‘preghiere’ di coloro che intendono partecipare alla “carovana”. E’ molto semplice, basta scrivere a info@miserere.info o collegarsi a www.miserere.info per inviare un proprio testo, o per ‘contrattare’ le modalità di una partecipazione. Miserere è l’occasione di un viaggio interiore individuale e condiviso, un racconto/mosaico delle testimonianze via via raccolte ed esposte durante il percorso.
Ad una serie di concerti seguirà un prodotto costituito da CD musicale, DVD e un libro, é stato difficile conciliare le vostre esigenze di artisti con la necessità di coniugarle ad una richiesta di un mercato che sempre più si orienta verso prodotti molto commerciali e leggeri?
C: Quando si pensa a progetti come Miserere non si pensa affatto al mercato. Del resto credo che sia io che Antonello col cosiddetto mercato non abbiamo nulla a che vedere. Lavoriamo alle cose che ci interessano, che ci emozionano, che ci fanno pensare con la testa e col cuore e quindi proviamo a coinvolgere altre persone che possano essere in sintonia con le nostre idee. Nel mio caso, oltre ad alcuni fra i più significativi (a mio avviso) scrittori contemporanei, Gabriele Frasca, Rosaria Lo Russo, Enzo Mansueto, Tommaso Ottonieri, ho trovato sulla mia strada musicisti come Rocco De Rosa, Maria Pia De Vito, Paolo Fresu. Sono tutti artisti che partecipano al Miserere gratuitamente, semplicemente per la voglia di misurarsi con questo progetto.
Per quanto concerne il prodotto finale, non so se avremo un libro, un CD, un DVD,o se sarà un unico prodotto contenente il tutto, vedremo più avanti. Per ora raccogliamo contributi, pezzi di un mosaico che si sta costruendo. Il quotidiano “il Manifesto”, con il quale ho pubblicato Indifferentemente, è interessato a tutto il progetto, ma ancora non è chiaro come sarà realizzato. Come vedi ci si muove in una logica che è totalmente opposta a quella del mercato. Qui non sappiamo ancora se ci sia o no un ‘prodotto’ da vendere.
Cosa vi ha dato l’esperienza fatta con Miserere?
C: Come dicevo, quando ho scritto Miserere ho pensato immediatamente a una ‘processione’ di disabili e quando Antonello mi ha proposto il suo film ho sentito una sorta di fremito interiore. E’ stata un’esperienza che non dimenticherò mai. Ora, quando ascolto il suono delle trombe di Paolo o la splendida voce di Maria Pia, non posso non pensare immediatamente allo sguardo di Susy, agli occhi di Armando, al sorriso intrigante e malinconico di Luigi.
A: Pur avendo in passato conosciuto e talvolta convissuto con persone con handicap, non sono mai riuscito a stabilire un dialogo vero. Dirigere dei disabili su un set cinematografico ti induce ad una determinazione in cui la compassione deve essere altrove. E’ vero, spesso devi chiedere scusa, alle volte ci si ritrova dentro una sensazione non proprio piacevole, ma andando avanti l’attenzione va solo alle vere barriere, quelle fisiche e architettoniche, e non hai neanche il tempo di accorgerti che quelle psicologiche hanno abbandonato sia te che loro, in virtù del fatto che ci stai giocando insieme, ti stai divertendo e si divertono. Non posso sapere quanto per loro sia stato importante, al di là del divertimento, a me è sicuramente servito a sentirmi meno stupido.
Progetti per il futuro? Pensate di lavorare ancora insieme?
A: Come ho detto prima di un anno fa non ci conoscevamo, la nostra collaborazione è nata più per naturale affinità che come progetto a tavolino. Con questo spirito pensiamo e speriamo di continuare, ma non c’è fretta… non c’è nessuna fretta.
C: Ovviamente, ma senza fretta. Non c’è nessuna fretta…
(intervista di Eva Ricciuti per “Shortvillage”, novembre 2004)
“Perché Warh e non War? Fatti miei…” si legge ironicamente nelle scarne parole del sito internet ufficiale di Antonello Matarazzo che annunciano la realizzazione del suo nuovo video. Dopo “La Camera Chiara”, presente in concorso nella sezione web di Arcipelago Film Festival 2003, ecco “Warh” in concorso al Torino Film Festival. Abbiamo visto in anteprima la nuova opera del pittore/filmmaker autore, l’anno scorso, di un mediometraggio intitolato “Astrolìte”, realizzato in collaborazione con Michele Schirinzi e che vedeva la partecipazione eccezionale di enrico ghezzi.
“Warh” è una potente onirica rielaborazione di alcune tra le immagini più drammatiche dei fatti dell’11 settembre. Rielaborazione, decontestualizzazione alchemica e digitale di un incubo e della vulnerabilità occidentale in cui compaiono anche alcune delle icone/ritratto degli ultimi lavori video e pittorici di Matarazzo, affiancate ad una citazione delle più poetiche del repertorio visivo di Andy Warhol.
Abbiamo rivolto qualche domanda al regista per saperne di più a dispetto delle sue “ufficiali” parole:
Dopo “La Camera Chiara”, presente in concorso nella sezione web di Arcipelago Film Festival 2003, torni al TFF con un nuovo lavoro intitolato “Warh”, di che si tratta?
Il titolo è allo stesso tempo illuminante e fuorviante, però somiglia a guerra, ha lo stesso suono sinistro. Come “La Camera Chiara” è un video senza girato, o meglio non girato da me, rielaborato in digitale.
Immagini di guerra e soprattutto dell’11 settembre rielaborate. Come le hai scelte e perché?
Mi sono servito delle immagini amatoriali girate l’undici settembre e di quelle, sporchissime, dei raid su Bagdad, gentilmente concessemi dalla Rai, e di scene che meno gentilmente ho “preso in prestito” da vecchi film di guerra, anche se sfiderei gli autori a riconoscerle, il tutto appunto rielaborato, sovrapposto ecc. Il perché è facile capirlo: volevo fare un film sulla guerra, ma forse non mi è venuto bene, o è venuta fuori un’altra cosa…
Cosa?
L’11 settembre s’è verificato qualcosa che evidentemente ci ha sorpreso non tanto sul piano del conflitto quanto su quello della spettacolarizzazione della vulnerabilità della nostra cultura. “Warh” è un film sulla vulnerabilità. Chiariamo comunque una cosa: non è per sfiducia delle mie capacità di operatore che ho scelto di servirmi di immagini note al pubblico televisivo, se mi fossi trovato sotto le Twin Towers e avessi girato non avrei usato le mie. In pittura come nel video spesso mi servo di ciò che l’”immaginario collettivo” (brutta parola) ha già capitalizzato, e forse ne è saturo, per riprodurlo in maniera diversa, decontestualizzata, cercando di portarne alla luce il nocciolo emozionale e spettacolare. D’altra parte non sono il primo e neanche l’ultimo ad avere avuto questo tipo di approccio.
Ad esempio?
Uno per tutti: War-hol
Capito l’antifona… che tipo di procedimento tecnico hai utilizzato?
Ho lavorato molto con i canali alpha in Final Cut, poi con After Effects, Photoshop e un programma di morphing. “Warh” è un film da… tavolo.
La musica ha una grande importanza nei tuoi ultimi cortometraggi, ce ne puoi parlare?
Il “suono” non la musica. Ad esempio “Astrolìte” come sai è un film quasi senza musica e, quando c’è, riproduce più che altro dei rumori, scandisce ritmi, non a caso la scelta dell’autore è caduta su Pasquale Innarella, un rumorista appunto. La portata epica dell’11 settembre mi suggeriva un vero e proprio pezzo musicale, ho scelto Vidrar vel til loftárásadei Sigur Rós, tradotto: “Il tempo è buono per l’attacco aereo”.
E’ la tua seconda volta al TFF, che percorso ha avuto “Astrolìte” e cosa ti aspetti questa volta?
Ovviamente sono molto lusingato per la presenza dei miei film nel secondo festival più importante d’Italia, ma Torino mi produce anche un disagio. Io sono un pittore, realizzo video artistici (non videoarte) e mi ritrovo a concorrere con film che giustamente perseguono tutt’altre logiche, più orientate al botteghino per capirci, ovviamente sono io fuori contesto. Lo scorso anno ci aspettavamo una menzione che non arrivò, quest’anno forse più realisticamente una “minzione”… ma non è questo il punto. La mia è un isola (in)felice, di naufraghi, forse auto-compiaciutamente pionieristica, altrettanto lontana dalla videoarte e dal genere cinematografico. Ogni linguaggio perché si affermi in maniera autonoma ha bisogno di una struttura commerciale che se ne occupi e che, per quanto riguarda il genere cinema breve-non narrativo, allo stato non esiste.
(intervista di Tommaso Casini per “Shortvillage”, ottobre 2003)
Tra pittura e cinema spunta enrico ghezzi… intervista ad Antonello Matarazzo
I temi del grottesco, del mostruoso, del brutto attraversano l’arte del ritratto occidentale nei secoli. Grottesco e mostruoso che non necessariamente sfociano nella caricatura ma che osservano e intepretano una realtà più complessa di ciò che comunemente l’arte tende a rappresentare secondo i canoni del “bello”. Sono numerosi gli artisti che hanno esplorato questi campi con la propria arte, nel tentativo di indagare i caratteri degli uomini, ritenendo che vi fosse una corrispondenza diretta tra aspetto e interiorità. Leonardo lo fece con i suoi celebri ritratti fisiognomici. Nel ‘500 e nel ‘600 Ribera, Vèlazquez, solo per fare qualche nome, dipingevano donne barbute, nani e storpi. All’inizio dell’era fotografica ritrarre individui dall’aspetto sgradevole divenne oggetto di studio, strumento di classificazione del genere umano. Nel ‘900 Francis Bacon è stato interprete di questo ricco filone puntando sul tema dell’immagine deformata del volto. Anche il cinema ha spesso esplorato questo campo con numerosi film tra cui il più famoso è “Freaks” di Tod Browning del 1932.
Da diverso tempo l’artista campano Antonello Matarazzo prosegue questa ricerca dalle antiche radici con inquietanti dipinti che raffigurano volti e corpi di persone deformi, freaks appunto. Lo fa con uno stile personale che trae spunto in particolare dall’immagine fotografica. Anche quando i ritratti raffigurano persone dall’aspetto “normale” Matarazzo è in grado di cogliere rari elementi realistici. Da tre anni Matarazzo oltre ai pennelli utilizza la telecamera e realizza video. All’ultima edizione del Torino Film Festival ha presentato “Astrolìte”, il suo primo mediometraggio, realizzato insieme a Carlo Michele Schirinzi. Un film, affermano gli autori, “che capovolge il concetto di teledipendenza, in cui ad essere dipendente non è l’osservatore ma l’osservato”.
La tua è una ricerca visiva che comincia con la pittura ed approda al video. Puoi parlarci di questo passaggio e di quali connessioni esistono tra i due media?
Tre anni fa realizzai il mio primo video per una mostra d’arte. “The fable” ebbe tutt’altre fortune, fu selezionato al Festival di Bellaria (che all’epoca neanche sapevo cosa fosse) ed acquistato da Fuori Orario, quindi eccomi qua. Comunque per me, che si parli di pittura o video, nella sostanza si tratta della medesima cosa. Con il video ho avuto da subito un rapporto molto naturale. Credo che la differenza tra me e un regista che parta direttamente dalla macchina da presa consista proprio nel rapporto di intimità che io instauro con l’immagine, persino con un singolo fotogramma, infatti in generale il momento più creativo lo sperimento in fase di montaggio. Credo di essere tuttavia piuttosto lontano dal genere cinematografico.
La tua pittura degli anni più recenti si è focalizzata sul genere del ritratto. Ritratti particolari di individui generalmente considerati deformi o “handicappati”. Temi grotteschi che hanno attraversato la pittura e che ricordano Ribera, Velàzquez, Goya o le fotografie di August Sander. Cosa ti affascina di questi soggetti?
Spesso me lo chiedo anch’io, ci deve essere qualcosa di mostruoso dentro di me. I personaggi dei miei quadri non sono che i simulacri di un concetto di mostruosità che solo incidentalmente trova un corrispettivo fisico. Evitando di parlare di estetica del brutto o cose del genere, se vengo a contatto con un nano – faccio un esempio – provo sorpresa e disagio nel vedere riprodotta in maniera così fisica l’esatta antitesi del mio concetto di bellezza, allo stesso tempo ne sono incuriosito, esattamente come accadrebbe sul pianeta dei nani se capovolgessimo l’esperimento. Nani o sani, c’è nella diversità una specie di Sacro Graal al quale finché siamo mentalmente vivi aneliamo, ma che aborriamo se siamo mentalmente solo vegeti. Una fascinazione per essere tale deve contenere qualcosa d’irriducibile alla ragione, appunto non saprei dire cosa, di sicuro c’è.
Gestisci un tuo sito in cui presenti le tue opere. Cosa puoi dirci del web. Ti interessa anche come mezzo di espressione?
Non credo ad un futuro in cui il web possa sostituire un libro, una mostra d’arte o il video, ogni forma d’espressione ha un suo specifico tecnico e contestuale. Internet offre un’opportunità che non ha uguali nella storia della comunicazione, quella cioè di veicolare i propri prodotti su scala planetaria a chiunque abbia voglia di farlo, il problema è come avviene la fruizione di tutto questo, soprattutto se si tratta di prodotti artistici. Non tutti sono in grado di goderne appieno le possibilità tecniche. Bisogna tenere conto di queste cose, quindi riprenderei la tua domanda per dire che dovremmo servircene come un altro vero e proprio “mezzo d’espressione” per realizzarre qualcosa che nasce e muore per il web tipo brevi animazioni ecc., ci sto appunto pensando.
Parlaci di “Astrolìte”, di cosa tratta esattamente?
Più volte con Carlo Michele Schirinzi ci siamo soffermati sulla matrice fumettistica del nostro film. Il fumetto che ne costituisce per così dire “l’ispirazione” è Alan Ford (qui lo dico e qui lo nego), in voga negli anni ’70, protagonista un demenziale gruppo di detective, Gruppo TNT, guidato da un vecchio in sedia a rotelle, il micidiale Numero Uno. Inizialmente la nostra intenzione era, almeno per quanto riguarda la tipologia dei personaggi, di rimanere abbastanza aderenti ai 6 sfigati del famigerato gruppo, cane e pappagallo compresi, ma per questo avevamo bisogno del beneplacito dell’autore, Luciano Secchi, in arte Max Bunker, il quale purtroppo ci ha risposto picche.
Io credo che a Max Bunker, oltre che l’assoluta assenza di un budget miliardario, ma anche soltanto milionario, non sia piaciuta l’idea di fondo del film, cioè di articolare la storia su due piani: l’uno facile, fumettistico e un po’ scontato, l’altro concettuale e surreale. Altra cosa che non deve aver apprezzato molto, secondo me, è che la parte del vecchiaccio paralitico, il Numero Uno, fosse destinata ad enrico ghezzi. Così per non correre il rischio di entrare in diretta collisione con l’editore abbiamo ritoccato la sceneggiatura e i personaggi, rinunciando senza problemi a cane e pappagallo, e al titolo che doveva essere “TRINITROTOULENE” e che è diventato “ASTROLìTE”, questo grazie ad una ricerca su internet, dove nella voce esplosivi si fa riferimento ad un preparato due volte più potente del TNT, o trinitrotoulene, chiamato appunto “Astrolite”. Abbiamo però fatto alcune eccezioni, queste riguardano il Numero Uno in sedia a rotelle (interpretato da un ghezzi in una sorta di girello ‘alla Hannibal’), il Conte (abbastanza corrispondente al fumetto), la calzamaglia nera di Alan Ford (indossata dall’assassino della pasticciera), il generico clima di decadenza e abbandono in cui si muovono i personaggi e la connotazione fondamentalmente giallo-grottesca della storia. Il negozio di fiori (attività di copertura del gruppo di detective) è diventato un’impresa di Pompe Funebri, i cui gestori, per sbarcare il lunario, si occupano di uccidere le persone alle quali poi organizzeranno le esequie.
Il film “Astrolìte” vede enrico ghezzi come protagonista. Che rapporto hai con il guru di Fuori orario?
Dirò una cosa su ghezzi che forse a lui non farà piacere, si tratta di un raffinato intellettuale, come pochi, ma con un’ innata vocazione all’invisibilità (del resto è anche un po’ il tema del film), il che paradossalmente sul piano mediatico si trasforma in un fenomeno di notorietà senza precedenti. Dicendo guru hai colto nel segno, in effetti casi del genere si riscontrano in oriente, basti pensare al Dalai Lama, o anche a Sai Baba, con la differenza che il Dalai a contatto coi media diventa un po’ come Gigi Marzullo, mio compaesano, mentre ghezzi in tv è molto più guru dello stesso Dalai. Per il resto si tratta di una persona capace di grande umanità, fu lui a telefonarmi per invitarmi a Bellaria dopo aver visto per caso il mio video. Superato il primo impatto (“lei è per caso parente del grande Raffaello Matarazzo?”) non ho fatto fatica ad instaurare un rapporto di affettuosa amicizia (credo ricambiata), purtroppo come spesso accade ai personaggi pubblici soffre di una grave forma di “dispersione”, comunque curabile con sporadici, salutari ritorni in terra toscana.
(intervista di Tommaso Casini per “Shortvillage“, dicembre 2002)